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Fra le personalità del Cinquecento italiano, quella di Lorenzo Lotto (1480-1556) rappresenta un unicum, essendo stato un artista dall’esistenza inquieta, dotato di talento straordinario ma incapace di conquistare la celebrità. La sua figura è quella di un grande pittore, poco apprezzato dai contemporanei, incompreso dalla critica successiva e solo da pochi decenni giustamente rivalutato. La formazione del Lotto, pittore raffinato e preparatissimo, avvenne tra Venezia e Treviso, in un ambiente culturale dominato dalla figura di Giovanni Bellini; malinconico interprete di una società estranea ai circuiti ufficiali e alle corti, non condivise mai le indicazioni artistiche di Giorgione e Tiziano, cui oppose composizioni mosse, dominate da gamme fredde di colori e ricche di particolari estrosi.
Nel 1506 iniziò una vita errabonda, che lo condusse a lavorare nei centri di provincia. Secondo la storiografia tradizionale, egli sarebbe stato costretto a questa sorta di esilio dall’egemonia di Tiziano ma, in realtà, l’artista non volle mai accettare compromessi e quindi rinunciare al suo stile personale, tormentato e rivoluzionario, anche a costo di irritare i grandi committenti, sempre dediti alla celebrazione di sé stessi e dello Stato. Come ha osservato il critico Roberto Longhi, in un giudizio fulmineo, Lotto «è forse tra quegli spiriti – gli artisti veneziani contemporanei – il più moderno perché il più contrario ai canoni ancora salienti della poetica figurativa rinascimentale. Il Lotto pensa che le proporzioni non esistano. Pensa che la forma, per inquietezza interna, cavilli continuamente secondo un nuovo animismo che non involgerà l’uomo soltanto. La luce stessa, per lui, non è più la chiara regola solare […], ma soffio discontinuo, vagante».
Nel 1509 Lotto, poco meno che trentenne, fu chiamato a Roma per affrescare le stanze di papa Giulio II ma subì un rovescio di fortuna: i suoi affreschi vennero distrutti e il suo contratto rescisso a favore di Raffaello. Nel 1510, lasciò Roma e non vi fece più ritorno. Si recò nelle Marche, nelle quali lavorò a fasi alterne fino al 1540, essendo attivo, tra il 1513 e il 1549, anche tra Bergamo, Venezia e Treviso. Durante questo periodo, il più antiaccademico e anticlassico della sua carriera, egli produsse grandi capolavori, tra cui, nel 1530, l’Adorazione dei pastori, firmata e datata, oggi a Brescia.
L’opera gli venne forse commissionata da due gentiluomini perugini che lo avrebbero incontrato nelle Marche, in occasione di un pellegrinaggio a Loreto.
La scena, come vuole la tradizione, è ambientata in una stalla, al crepuscolo, dove una bellissima Madonna, avvolta nel suo mantello di un azzurro quasi luminescente, è in adorazione del Bambino, deposto in una grande cesta di vimini riadattata a giaciglio.
Alle spalle di Maria, Giuseppe, un po’ defilato, osserva la sua famiglia. Sullo sfondo si intravedono, nella penombra, il bue e l’asinello. A destra, due giovani angeli dalle ali spiegate introducono due pastori al cospetto di Gesù. Entrambi tengono una mano sulla loro spalla, come a indicare che la fede dell’uomo dev’essere sempre sostenuta da Dio. Secondo la critica, nei volti dei pastori, assai caratterizzati, si possono riconoscere quelli dei committenti. D’altro canto, sotto le ruvide casacche, essi sfoggiano eleganti abiti cinquecenteschi: camicie bianche, farsetti di velluto, calzoni elaborati e calze fermate al ginocchio da nastri.
Uno dei due pastori porge al Bambino un agnello e il piccolo, in uno slancio di infantile tenerezza, alza le manine per accarezzare l’animale sul muso. È, questo, un gesto dal chiaro significato simbolico: abbracciando l’agnello, Cristo accetta il destino di sacrificio che lo attende. Un altro riferimento alla sua futura Passione si può riscontrare nella croce della finestra alle spalle degli angeli. Anche la mangiatoia, dentro la quale Maria si è inginocchiata (quasi a voler condividere la sorte del figlio), è inconsuetamente rettangolare e ricorda un sarcofago.
Si noti che Maria porta un anello alla mano destra: si tratta, con tutta evidenza, di un riferimento al Santo Anello, ossia all’anello nuziale che, secondo un’antica tradizione popolare, Giuseppe donò a Maria il giorno in cui si sposarono. Questa presunta reliquia è conservata nella cattedrale di Perugia, città alla quale il dipinto era stato inizialmente destinato.
La scena, nel suo complesso, è intima e toccante, senza alcuna marcata distinzione gerarchica fra i personaggi sacri e quelli umani. Il devoto e silenzioso dialogo degli affetti che lega tutti i personaggi conferisce all’evento un tono tenero e familiare, ben lontano dal formalismo di molte altre immagini di Natività. Tanto che Roberto Longhi riconobbe in quest’opera un emblematico precedente del caravaggismo seicentesco.
L’arte di Lotto è, in apparenza, semplice e piacevole. Non è così, noi siamo lontani dal suo mondo. Sapere che non condivideva il gusto dei suoi contemporanei più celebri e ciò che spiega Artesvelata può essere d’aiuto.
Grazie mille per l’apprezzamento!
Benedicta tu in mulieribus,
benedicta per il figlio che ti sarà svenato sotto la terza costola.
Valeria Rossella da Annunciazione ( levogira) ( Lotenzo Lotto)
Ho ricordato questi versi istintivamente. Il volto di Maria nella poesia è quelo dell’Annunciazione di Lotto. Ma anche qui, nella leggiadria della Madonna, passa un’ombra di premonizione per il destino del figlio.
Piacere puntuale leggere le sue scelte.
Grazie sempre!
Complimenti per il fondamentale, bel contributo datoci alla comprensione del dipinto. Vorrei solo aggiungere che solo recentemente, nei Musei Civici di Brescia, si è scoperta la sigla “L. Lotus” e soprattutto la data, “1530” per secoli non vista, nascosta nel luogo più arduo da decifrare, le pieghe chiaroscure della cesta di vimini che accoglie il Bambino.