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Alberto Burri
Un grande maestro dell’Informale.
Autore: Giuseppe Nifosì Pubblicato in Il Novecento: gli anni Cinquanta e Sessanta – Data: Giugno 23, 2020 0 commenti 9 minuti
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Alberto Burri (1915-1995), la cui arte costituì uno degli esempi più significativi di Informale del secondo dopoguerra, è stato tra gli artisti materici più importanti al mondo. Un’arte, quella di Burri, che rinunciò alla tradizionale nozione di “bella pittura”, abbandonò l’antico strumento del colore ad olio, adottò materiali poveri rivestendoli di valenze esistenziali. Un’arte che cercò di elaborare un nuovo linguaggio espressivo e che certamente contestò la levigata perfezione dell’universo meccanico in cui viviamo. Nato a Città di Castello, laureatosi in medicina a Perugia nel 1940, Burri combatté durante la Seconda guerra mondiale come ufficiale medico e fu prigioniero di guerra nel 1944 in Texas, dove iniziò a dipingere.

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Tornato in Italia, alla fine del conflitto, decise di lasciare la professione medica per dedicarsi unicamente all’arte, abbracciata come forma di riscatto, come «atto etico di resistenza e sopravvivenza» (G. Serafini). A partire dal 1948-49, polarizzò il suo interesse sulla vitalità organica ed espressiva della materia, iniziando a utilizzare catrame, smalti, sabbie e applicandoli alle sue tele. Oggi Burri è giudicato un maestro; quando iniziò la sua ricerca, negli anni Quaranta, dovette fronteggiare scetticismo, sarcasmo e insulti. Critiche cui Burri era solito rispondere con il silenzio. Era forse troppo estremo ciò che proponeva, pur in uno scenario artistico che aveva già vissuto la stagione delle Avanguardie, meno di cinquant’anni prima.

Anni Venti, Trenta e Quaranta

Gli anni Venti, Trenta e Quaranta avevano recuperato una nozione in qualche modo “tradizionale” di arte, con pittori che dipingevano e scultori che scolpivano, come ci si aspettava accadesse: i sacchi di Burri, così come i tagli di Fontana e la merda d’artista di Manzoni, sarebbero stati invece accolti come l’ennesima provocazione di un’arte che per molti aveva, nuovamente, perduto la rotta. Burri fu insomma un precursore, laddove già nel 1971 il critico Maurizio Calvesi potè scrivere: «Burri è riuscito, forse per l’ultima volta, a portare la vita nell’arte».

Alberto Burri, Sacco B, 1953. Sacco, tela, plastica, olio, vinavil su tela, 100 x 86 cm. Città di Castello, Fondazione Palazzo Albizzini.

I sacchi

Fu tra il 1950 e il 1952, che Burri iniziò a realizzare i suoi celebri “sacchi”, ottenuti cucendo vecchie pezze di tela di sacco, di grana e colore differenti. Sacco 5P, del 1953, è una delle sue tante opere ottenute con tele di juta, quella dei sacchi destinati a contenere generi di prima necessità. A differenza che nei dipinti tradizionali, in questo caso la tela non è destinata a fare da supporto per la creazione artistica ma diventa, essa stessa, elemento pittorico. Pezzi di tela rattoppati sono cuciti secondo una sostanziale simmetria; gli effetti cromatici, plastici e materici sono affidati alle diverse tonalità e agli spessori dei sacchi. Compare, sulla destra, anche una vistosa lacerazione verticale, con tracce di vernice rossa.

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Questa richiama le analoghe ricerche di Fontana, che con i tagli interrompeva, nelle sue opere, la continuità della superficie. Tuttavia, mentre i tagli di Fontana sono “varchi”, aperture, frutto di una azione meditata e costruttiva, le lacerazioni di Burri sono “squarci”, prodotti da un atto di forza e di violenza. E non è sicuramente un caso che il colore (rosso) sia stato destinato proprio a questa parte del sacco: esso, metaforicamente, allude al sangue della carne ferita e trasforma lo strappo in una dolorosa lesione.

Alberto Burri, Sacco 5P, 1953. Tecnica mista, sacco, acrilico, vinavil, stoffa su tela, 1,5 x 1,3 m. Città di Castello (Perugia), Fondazione Palazzo Albizzini.

Forma o metafora?

Alcuni critici hanno privilegiato una lettura puramente formale del lavoro di Burri. Per esempio, un grande critico del Novecento, Giulio Carlo Argan, scrisse che, con i suoi sacchi, l’artista si limitò a creare «la finzione di un quadro, una sorta di trompe l’oeil a rovescio, nel quale non è la pittura a fingere la realtà, ma la realtà a fingere la pittura». Secondo questa chiave interpretativa, i sacchi sarebbero il risultato di un lavoro assai meditato e razionale, che, richiamandosi alla pittura di Mondrian, assume una forte valenza astratta.

Alberto Burri, Sacco e verde, 1956. Sacco, tela, acrilico, olio su tela-garza, 173 x 200 cm. Collezione privata.

Però, è impossibile non rimanere assorti di fronte a questi brandelli di tela ricuciti, sdruciti, consunti, sfilacciati, che ricordano i vestiti dei poveri, pazientemente rammendati e recuperati, o le logore tuniche dei mendicanti. Qualcuno ha voluto rivedervi il saio di san Francesco. Senza dubbio, essi appaiono percorsi da una “sofferenza” tutta umana. E, giustamente, un’altra parte della critica ha invece interpretato i sacchi di Burri come una testimonianza di vita sofferta, come una metafora del corpo dilaniato e sanguinante dell’umanità offesa: lacerazioni, cuciture, riporti e bruciature offrono infatti la suggestione di tessuti organici, quasi di carne violentata da piaghe e cicatrici.

Lara Vinca Masini

James Johnson Sweeney, all’epoca direttore del Guggenheim di New York, li aveva definiti «carne viva». Secondo la storica dell’arte contemporanea Lara Vinca Masini, i sacchi di Burri «laceri e strappati», non solo «costituiscono uno dei momenti più alti dell’Informale materico internazionale» ma danno voce a tutte le sofferenze delle popolazioni «provate dalle guerre, segnate dal sangue e dalle ferite dei genocidi e degli stermini». Questa è la lettura che più ci convince, anche se concordiamo con lo scultore Fausto Melotti (1901-1986), che del collega disse: «nessun argomento della critica saprà mai darci una ragione persuasiva della metamorfosi che subiscono i sacchi di Burri». L’artista, d’altro canto, si è sempre rifiutato di spiegare il suo lavoro: «ci sono i miei quadri a parlare per me».

Alberto Burri, Grande legno G 59, 1959. Legno, acrilico e combustione su tela, 200 x 185 cm. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna.

Legni, plastiche e cretti

Ai sacchi si aggiunsero in seguito i legni, le carte, i ferri e soprattutto le plastiche bruciate, come Rosso plastica del 1964. Queste ultime, lavorate con la fiamma ossidrica e bucate dalla combustione, con la loro lucida trasparenza, la loro stratificazione complessa, le pieghe e i contorcimenti della materia evocano, ben più di una qualunque figurazione, una idea concreta di dolore e di morte.

Alberto Burri al lavoro per una delle sue plastiche, anni Sessanta.

Le plastiche sottoposte a tortura, ustionate dal fuoco vivo, raccontano il male, raccontano la guerra con una immediatezza che mancherebbe a qualunque riproduzione fedele di un corpo martoriato dalle bombe o dal napalm. In retorica, questo modo di procedere si chiama “metonìmia”: si mostra solo una piccola parte per alludere al tutto. Senza mediazione alcuna, Burri ha voluto identificare la materia dell’arte con la materia della vita.

Alberto Burri, Rosso plastica, 1964. Plastica, acrilico, combustione su tela, 1,32 x 1,17 m. Città di Castello (Perugia), Palazzo Albizzini, Collezione Burri.

A partire dal 1973, Burri iniziò a sperimentare una nuova tecnica e a produrre una nuova serie di opere: quella dei “cretti”, divenuta, come i sacchi, famosissima. Cretto G 1 del 1975, è uno dei primi. Si tratta di una superficie rettangolare di colore bianco che presenta crepe e fenditure, dipanate in un fitto intreccio. Per ottenere questo effetto, Burri impiegò un impasto di bianco di zinco e colle viniliche, applicato su di un supporto di cellotex e quindi sottoposto a un processo di asciugatura ed essiccamento. La materia, increspata e crettata, evoca l’idea del trascorrere del tempo e si offre come una porzione di terreno argilloso, crepato dopo lunghi periodi di siccità.

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Alberto Burri, Cretto G 1, 1975. Acrovinilico su cellotex, 171 x 151 cm. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna.

Il Grande Cretto

Negli anni Ottanta, verso la fine della sua vita, Burri ebbe l’opportunità di sperimentare questa tecnica su scala territoriale. Nel 1968, un terremoto in Sicilia rase al suolo Gibellina, in provincia di Trapani. La città fu poi ricostruita ma 20 chilometri più a valle, lasciando le rovine a testimonianza della tragedia e a ricordo delle vittime.

Gibellina dopo il terremoto in Sicilia del gennaio 1968.

Burri ottenne il permesso di intervenire su quei resti, sui quali immaginò una versione amplificata dei suoi cretti. L’elaborata operazione fu avviata nel 1984 e terminata cinque anni dopo. Grazie all’intervento dell’esercito, le macerie furono raccolte, compattate e tenute insieme da reti metalliche. Sopra questi blocchi, Burri fece colare del cemento liquido bianco. Nacque così il Cretto di Gibellina, detto anche Grande Cretto: un quadrilatero irregolare di circa 300 per 400 metri, spaccato da profonde crepe, che si dispiega sul fianco scosceso della montagna.

Alberto Burri, Grande Cretto, 1984-89. Veduta panoramica. Cemento bianco. Gibellina (Trapani).

I grandi blocchi, alti circa 1,60 metri, sono separati tra loro da fenditure praticabili. L’opera offre quindi due impatti percettivi differenti: uno esterno, per cui il Grande Cretto si presenta come un esempio di arte ambientale, leggibile a chilometri di distanza; l’altro interno, giacché l’opera diventa spazio percorribile, vasto, vuoto e spettrale. Il labirinto aperto fra le crettature, laddove un tempo si trovavano le case, le strade, la vita, diventa un simbolico percorso di smarrimento, la metafora di una natura insidiosa e ostile, una occasione di riflessione dolente ma acutissima sulla nozione stessa della perdita.

Alberto Burri, Grande Cretto, 1984-89. Particolare.
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Alberto Burri, Grande Cretto, 1984-89. Particolare.


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