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Pittore, disegnatore, incisore e teorico dell’arte originario di Norimberga, Albrecht Dürer (1471-1528) è stato il più grande maestro del Rinascimento tedesco. Figlio di un orafo di origine ungherese, si formò fra il 1483 e il 1486 come apprendista del padre; poi studiò presso la bottega di Michael Wolgemut, il maggior incisore e pittore della sua città.
Viaggiò a lungo, visitando i paesi tedeschi. Il primo viaggio in Italia, iniziato nella tarda estate del 1494 e durato un anno, si rivelò fondamentale per il completamento della sua formazione, che si arricchì di un plastico monumentalismo. A Venezia, Padova e Mantova, l’artista poté ammirare i dipinti di Mantegna, Pollaiolo e Giovanni Bellini.
Tornato in patria nel 1495, Dürer vi aprì una fiorentissima bottega, dove produsse numerose xilografie con l’Apocalisse e altre opere grafiche raffiguranti cicli religiosi, che divennero popolarissime e accrebbero la sua fama in Europa. «Si può dire senza esagerazione che la storia della pittura sarebbe rimasta inalterata anche se Dürer non avesse mai toccato un pennello e una tavolozza, ma che i primi cinque anni del suo lavoro indipendente come incisore e xilografo furono sufficienti a rivoluzionare le arti grafiche»: così ha osservato il grande studioso novecentesco Erwin Panofsky.
In effetti, grazie alla sua produzione delle oltre cento incisioni su rame e delle diverse centinaia di xilografie, Dürer è stato da sempre considerato come un maestro insuperabile e insuperato dell’arte grafica. Già il grande umanista olandese Erasmo da Rotterdam (1466 o 1469-1536), legato a Dürer da un rapporto di reciproca amicizia e stima, nel 1528 osservò che l’artista tedesco aveva superato persino il grande pittore classico Apelle, giacché aveva saputo dare espressione a tutto il visibile solamente per mezzo di linee nere. È indubbio che Dürer, pur essendo un eccellente pittore, abbia sempre prediletto l’arte dell’incisione poiché costituiva una maggiore fonte di guadagno ed era un lavoro che non gli sottraeva molto tempo, consentendogli di affrontare temi sempre nuovi.
I quattro cavalieri dell’Apocalisse, ad esempio, fa parte di una serie di venticinque xilografie di grandi dimensioni realizzate tra il 1495 e il 1500. La terrificante iconografia di questo soggetto è tratta dall’Apocalisse di Giovanni, che racconta come, all’apertura del quarto sigillo, i quattro cavalieri verranno liberati, con il potere di «sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra». Nell’opera di Dürer, il centro della scena è dominato dalle figure dei cavalieri al galoppo, che nel loro incedere travolgono un’umanità disperata. Il cavaliere più temibile è quello scheletrico in basso a sinistra, in grado di infliggere guerra, fame, carestie: si tratta della Morte, armata di forcone.
Un altro aspetto interessante dell’arte di Dürer è quello del naturalismo che traspare dai suoi bellissimi acquerelli più ancora che dai dipinti, opere che presentano soggetti molto semplici attraverso deliziosi giochi cromatici. Come Leonardo, anche Dürer era infatti convinto che la riproduzione artistica della natura potesse diventare uno strumento di conoscenza. L’acquerello del Leprotto, del 1502, è un celebrato capolavoro: i dettagli dell’animale sono indagati con grande precisione di disegno: raramente gli animali sono stati rappresentati dagli artisti con una simile profondità d’indagine. La grande zolla, del 1503, presenta, con straordinario realismo, alcune piante selvatiche, tra cui la pratolina, il tarassaco e la piantaggine maggiore.
Un secondo viaggio a Venezia, compiuto tra il 1505 e il 1507, diede all’artista la possibilità di conoscere la pittura di Giorgione e di Tiziano e di affrontare problemi più specificamente coloristici. Questa seconda esperienza italiana ricoprì un ruolo davvero decisivo nella vita e nell’opera di Dürer: il pittore si allontanò definitivamente dalla tradizione tardogotica e abbandonò quel realismo di stampo fiammingo che aveva caratterizzato la sua arte precedente.
Un capolavoro di questo secondo periodo italiano è la Festa del Rosario, dipinta nel 1506 e oggi conservata a Praga. L’opera presenta una composizione piuttosto complessa: la Vergine è seduta sul trono al centro, mentre due angioletti reggono sul suo capo una preziosa corona con perle e pietre preziose. Accanto a lei, a destra, in ginocchio, l’imperatore Massimiliano d’Asburgo ha deposto per terra la propria corona, in segno di devozione, mentre Maria lo incorona a sua volta con un serto di rose.
A sinistra, invece, è inginocchiato papa Alessandro VI Borgia, cui il Bambino porge una seconda corona di rose. Il suo capo è scoperto, perché anch’egli, come l’imperatore, ha posato accanto a sé la tiara, simbolo del proprio potere spirituale. Assistono a questa incoronazione “incrociata” numerosi personaggi, fra cui San Domenico con il mantello nero sull’abito bianco, un fedele vestito di azzurro, in primo piano sulla destra, che sta recitando il rosario (preghiera a cui l’opera è dedicata), e, in fondo a destra, defilato ma ben visibile, l’artista medesimo che ci mostra un foglio con la propria firma.
Dopo il secondo viaggio italiano, tra il 1507 e il 1519, Dürer visse presso la corte dell’imperatore Massimiliano I, dove lavorò soprattutto come xilografo.
Risalgono a questi anni tre suoi capolavori di arte grafica, ossia Il cavaliere, la morte e il diavolo, Melancholia e il San Gerolamo nello studio. Queste tre opere costituiscono una sorta di trilogia, benché così diverse nei soggetti. Potrebbero infatti essere interpretate come le allegorie delle virtù morali (Il cavaliere, la morte e il diavolo), teologiche (San Girolamo) ed intellettuali (Melancholia); oppure della vita attiva (Il cavaliere), contemplativa (Girolamo) e spirituale (Melancholia); o ancora della salvezza morale (Il cavaliere), religiosa (Girolamo) e intellettuale (Melancholia).
Il cavaliere, la morte e il diavolo, siglata e datata 1513, presenta la figura del soldato cristiano così com’era stata descritta nel Miles christianus di Erasmo da Rotterdam: protetto dall’armatura della fede, può avanzare impavido ignorando la Morte, che lo affianca mostrandogli una clessidra (simbolo del tempo della vita che scorre), e il Diavolo dal volto di capra che lo segue armato di alabarda.
Melancholia (o Melencolia), un’incisione a bulino siglata e datata 1514, è una delle opere più famose del Rinascimento europeo. Allegoria della malinconia, ossia dello stato d’animo melanconico, oltre che delle virtù intellettuali, della vita spirituale e della salvezza intellettuale, è mostrata come una donna alata che tiene in mano un compasso, seduta con atteggiamento meditativo davanti a una costruzione di pietra.
La circondano oggetti e figure che rimandano simbolicamente al mondo dell’alchimia, l’antica scienza della trasformazione delle cose che qui va intesa come percorso di perfezionamento spirituale. Sopra la Melancholia si scorgono una bilancia, una clessidra, una campana; accanto a lei si trovano un cane scheletrico, un solido geometrico (detto troncato romboedrico o poliedro di Dürer), una scala a pioli e un putto; ai suoi piedi sono distribuiti alcuni attrezzi da falegname.
Proprio sopra la testa della Melancholia si trova, inciso sul muro della costruzione, un quadrato magico, così chiamato perché contiene una serie di numeri distribuiti in modo che la somma di quelli orizzontali, verticali e obliqui dia sempre 34, così come la somma dei numeri dei quattro settori quadrati, dei quattro numeri al centro, dei quattro numeri agli angoli. Un altro numero-chiave è il 17, somma dei numeri agli angoli con quelli opposti e dei numeri ai lati con quelli opposti.
Il San Gerolamo nello studio, del 1514, mostra un vecchio curvo sullo scrittoio situato nell’angolo di una stanza. Si tratta di un ambiente domestico, del tutto simile a quelli che si sarebbero potuti trovare in una casa borghese del tempo: un’immagine di santità calata nel più rassicurante quotidiano. Oggetti personali di uso comune sono un po’ dovunque: un paio di pantofole è stato lasciato sotto la panca, un rosario, foglietti di appunti, una forbice sono appesi al muro e così una clessidra.
Sulla mensola si scorge un candeliere di uso comune con un moccolo di candela. Pochi si potevano permettere, a quell’epoca, un ambiente da adibire unicamente a “studio”; non il Gerolamo di Dürer, che dunque lavorava e viveva nella sua unica stanza. Così è facile immaginare il vecchio che la sera avrebbe interrotto i suoi studi per prepararsi una zuppa, poi avrebbe spostato il tavolo e si sarebbe preparato un giaciglio per dormire. La solitudine, in fondo, in quei tempi era già un lusso.
Ascolto e seguo con piacere gli articoli e i podcasts del prof. Nifosì, che trovo, sempre, appropriati, concisi e, soprattutto, chiari, virtù rara e poco praticata nell’ambiente storico.
Sono anch’io un prof. di storia dell’arte, pertanto mi sforzo, quotidianamente di studiare e approfondire, con umiltà, l’infinità di questa disciplina.
Grazie di cuore per l’apprezzamento
Ottima spiegazione, fatta con voce chiara e pacata.
Grazie.