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A Firenze, dopo la morte di Alessandro dei Medici, il consolidamento dinastico mediceo fu garantito dalla conquista del potere da parte di Cosimo I dei Medici, figlio di Giovanni dalle Bande Nere, ossia del valoroso condottiero appartenente al ramo cadetto della famiglia. Cosimo iniziò a governare come un vero e proprio monarca adottando, durante il suo lungo dominio, un’accorta e illuminata politica artistica. Nel 1537, divenne granduca di Toscana; da questo momento la sua attività di mecenatismo fu imponente.
Il Granduca si circondò di artisti di prima grandezza. Lavorarono per lui architetti (come Vasari, Ammannati, Buontalenti), scultori (come Cellini, Giambologna, Bandinelli) e pittori (tra cui Bronzino) che certamente segnarono la storia dell’arte italiana del Cinquecento.
Agnolo Bronzino (1503-1572) fu discepolo, amico e collaboratore di Pontormo. Pittore raffinatissimo e di grande cultura, studioso di Dante e Petrarca e poeta egli stesso, sviluppò sin dalle prime opere uno stile inconfondibile, caratterizzato dal sorvegliatissimo equilibrio compositivo, dalla plastica idealizzazione delle forme, dallo splendore della materia cromatica, dalla cristallina trasparenza della luce. Artista prediletto di Cosimo I, adottò un linguaggio aulico ed elegante, ricco di citazioni da Michelangelo, Rosso Fiorentino e Pontormo, liberate da ogni tensione o contrasto, quasi congelate nei loro colori preziosi e brillanti.
Bronzino lavorò prevalentemente come pittore della corte granducale dei Medici, per i quali produsse opere di complessa natura intellettuale e una serie di magnifici ritratti, che registrano con impassibile esattezza i volti e le vesti dei principi per trasfigurarli in un superiore ideale di perfezione.
Intorno al 1540, per ragioni di opportunità politica, Cosimo I decise di omaggiare Francesco I, re di Francia, inviandogli un dono. Per questo commissionò al Bronzino un’elegante e raffinatissima Allegoria con Venere e Cupido, detta anche Allegoria del Trionfo di Venere. Il fine squisitamente propagandistico dell’iniziativa spiega in parte la difficoltà che ancora oggi la critica incontra nell’interpretare l’opera: si tratta di un dipinto molto complesso, il cui soggetto fu probabilmente elaborato da un letterato, che ben testimonia il clima colto e raffinato che si respirava presso la corte medicea in pieno Cinquecento.
Vasari lo descrive come una «Venere ignuda con Cupido che la baciava, et il Piacere da un lato et il Giuoco con altri amori, e dall’altro la Fraude, la Gelosia et altre passioni d’amore».
Protagonisti dell’opera sono Venere e Cupido, ossia Afrodite ed Eros per i Greci. Entrambi sono rappresentati nudi. L’algida pittura di Bronzino li rende somiglianti a sculture di cera; l’artista infatti amò utilizzare colori freddi e smaltati, che rendono le sue scene rarefatte e preziose. Venere presenta una pelle cerulea, membra sinuose e allungate e assume una posizione serpentinata torcendo il proprio corpo con eleganza. Indossa un prezioso diadema che riporta, al centro, la sua stessa figura. Nella mano sinistra tiene la mela d’oro, suo specifico attributo, vinta in quanto la più bella fra tutte le dee; accanto a lei si scorge una colomba, animale sacro di questa divinità.
Venere e Cupido si stanno baciando: un bacio ambiguo, sicuramente troppo sensuale per essere una semplice espressione di amore materno e filiale. Infatti, il giovane dio sta anche toccando con la mano il seno di lei; inoltre la bocca di Venere è dischiusa e si intravedono i denti e perfino la punta della sua lingua. Il sentimento messo in scena dal quadro è dunque di natura passionale e non platonica.
Venere e Amore sono circondati da quattro misteriosi e ambigui personaggi: un putto che sparge rose festoso, non accorgendosi che un ramo spinoso sta per ferirgli il piede destro; un mostro con volto di ragazza, mani invertite (la mano destra è al posto della sinistra) e corpo di serpente e di leone; una vecchia che urla portando le mani al capo; un vecchio calvo e barbuto, nonché alato e muscoloso, che sta per coprire tutti con un grande telo blu. Alle sue spalle si intravede una clessidra.
Si scorgono anche due maschere, abbandonate per terra in primo piano; una terza maschera si trova in alto a sinistra.
Tutte queste figure sono chiaramente delle allegorie. Il mostro, che tiene un favo di miele, simbolo di dolcezza, in una mano e un pungiglione velenoso nell’altra, rappresenta, verosimilmente, “l’inganno” e costituisce la chiave di lettura per l’interpretazione dell’opera, al pari delle maschere, le quali chiariscono subito che tutto, in questa scena, è una recitazione.
L’amore sensuale, quando è accompagnato dall’inganno, genera, sì, piacere e gioia (il putto) ma anche gelosia e disperazione (la vecchia), in attesa che comunque il tempo (il vecchio) cancelli tutto, spegnendo il fuoco di ogni passione. D’altro canto, Venere e Cupido stanno chiaramente tradendo la fiducia reciproca: mentre si baciano, lei gli sfila una freccia dalla faretra, lui sta per rubarle il diadema dai capelli.
Il Longhi ne dà una lettura essenzilmente di messaggio politico ben preciso.
Il dono era in occasione del matrimonio del figlio di Francesco I°, Enrico II°, con Caterina de Medici.