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Angelo Morbelli (1854-1919) è stato uno dei più importanti pittori italiani del tardo Ottocento. Si formò all’Accademia di Brera, dove conobbe Gaetano Previati e Giovanni Segantini. Esordì come paesaggista ma già nel 1883 iniziò ad orientarsi verso una pittura di stampo realista, interessandosi a soggetti che nascevano dall’osservazione diretta del vero. Nel 1890 aderì alla corrente del Divisionismo. A differenza di Pellizza da Volpedo, che riservò la sua attenzione al mondo del proletariato e del sottoproletariato, Morbelli privilegiò temi contadini e popolari.
I quadri dedicati alle risaiole (o mondine), ossia alle lavoratrici stagionali delle risaie, rimandano ad analoghi soggetti di Millet, come Le spigolatrici. Uomo dal temperamento malinconico e pessimista, Morbelli volle dar voce a un’umanità impotente e sofferente; in particolare, amò dipingere il dolore dei vecchi abbandonati e dei ragazzi sfruttati. Ha scritto lo storico dell’arte Michael Zimmermann che «non è Morbelli ad inquadrare il ‘vero’ sociale, ma è lo spettatore che non può rimanere indifferente a quello che il pittore gli mostra».
Il dipinto Per ottanta centesimi! venne presentato da Morbelli alla Prima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia del 1895. Nel 1897, l’opera vinse una medaglia d’oro a Dresda. L’artista vi rappresentò il duro lavoro delle mondine nelle risaie di Vercelli, che tra la fine di aprile e gli inizi di giugno venivano allagate. Le mondine erano, infatti, lavoratrici stagionali, tutte di bassa estrazione sociale e solitamente provenienti da Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia. Erano chiamate così perché “mondavano”, ossia ripulivano, liberavano le piantine di riso dalle erbacce e poi le trapiantavano, disponendole in modo da farle crescere meglio. Lavoravano tutto il giorno chine, con le gambe immerse nell’acqua fangosa, sotto il sole, tra zanzare, insetti e sanguisughe. Il titolo del quadro fa riferimento alla paga destinata alle mondine, davvero esigua considerando la durezza del loro lavoro.
Nel dipinto, le donne sono allineate in primo piano, curve fino al pelo dell’acqua, e rivolgono la schiena all’osservatore: erano infatti solite procedere nel loro lavoro indietreggiando. L’acqua riflette l’azzurro del cielo e le figure delle donne. In lontananza, verso sinistra, si scorge un secondo gruppo di lavoratrici. I canali che separano le coltivazioni, allontanandosi verso l’orizzonte, creano un efficace effetto prospettico. Sul fondo, si scorge la sottile linea di un bosco. La composizione ha un andamento orizzontale; l’inquadratura è di tipo fotografico, con figure tagliate a sinistra e a destra.
È assai probabile che Morbelli avesse realmente fotografato le mondine al lavoro, per avere alcune immagini di riferimento durante la realizzazione dell’opera, in studio. La tecnica utilizzata è quella tipica del divisionismo, che, come per il pointillisme, consisteva nella scomposizione e nell’accostamento dei colori primari per mezzo di piccoli tocchi, stesi sotto forma di filamenti, che la percezione dell’occhio ricompone in una sintesi.
In un altro dipinto con il medesimo soggetto, In risaia, Morbelli propone una inquadratura più ravvicinata e un taglio obliquo. Anche in questo caso le donne, a parte quella che si è alzata per sistemarsi il fazzoletto, con un gesto meravigliosamente naturale, sono tutte faticosamente chinate.
Morbelli affrontò con coraggio e spiccatissima sensibilità anche il tema della prostituzione minorile. Venduta è un soggetto che l’artista ripropose in alcune versioni, a partire dal 1884. Una ragazzina è sdraiata su un letto, con lo sguardo assente, apparentemente malata. Il titolo, invece, chiarisce che si tratta di un’adolescente prematuramente avviata sulla strada della prostituzione, violata nel corpo e nell’anima, privata dell’infanzia e anche della speranza.
Nella versione del 1884, indossa una camicia da notte bianca che le lascia scoperte le braccia. Il corpo, piccolo ed esile, è interamente coperto da un copriletto bianco; il capo è posato su alcuni grandi cuscini. Appare debole e malata e accanto a lei compare la sagoma di una donna vestita di scuro. Potrebbe essere l’immagine di una ragazzina malata di tubercolosi, un soggetto assai ricorrente nella pittura di fine Ottocento (venne affrontato anche da Munch), ma il titolo non lascia adito a dubbi. Forse la giovane è veramente malata e la donna la sta assistendo: ma la causa non è certo la tubercolosi.
Morbelli aderì al Divisionismo nel 1891; questa prima versione di Venduta non è quindi ancora divisionista. In effetti, l’immagine della giovane è ottenuta con larghe e spesse pennellate. Tutta la scena è organizzata attraverso la fredda orchestrazione di striature bianche, grigie e azzurre, che contrastano con i neri capelli della ragazza e la sagoma scura della donna. Il candore delle lenzuola e del copriletto allude certamente all’innocenza dell’adolescente violata e rende ancora più intollerabile il vero significato dell’opera.
Nel 1888, in occasione della Italian Exibition organizzata a Londra, Morbelli realizzò una seconda versione di Venduta, intitolandola Derelitta. Esiste una terza versione del dipinto, sempre intitolata Derelitta, esposta durante la seconda Esposizione Internazionale d’Arte della città di Venezia del 1897. In quest’ultima, pienamente divisionista nella tecnica, la fanciulla è davvero giovanissima, poco più che una bambina. È sola, con gli occhi lucidi, abbandonata nel lettone candido, che pure in sé stesso appare così protettivo, in attesa di subire l’ennesima violenza o, forse, subito dopo averla subita. Lo sguardo triste è perso nel vuoto.
A partire dal 1883, Morbelli dedicò una serie di dipinti agli ospiti del Pio Albergo Trivulzio di Milano, un istituto ospedaliero per anziani fondato nel 1766 secondo le disposizioni testamentarie di Antonio Tolomeo Gallo Trivulzio, nobile e filantropo, e destinato agli anziani meno abbienti. Sappiamo che l’artista, nel 1902, allestì uno studio all’interno della struttura, per ritrarre più comodamente, e con maggiore verità, i vecchi e le vecchie che essa ospitava.
In alcuni di questi quadri, all’interno di una grande sala con tavoloni e panche, pochi uomini (vecchi abbandonati dalla società perché non ritenuti più utili) sono lasciati soli con sé stessi, sono assopiti o hanno lo sguardo perso nel vuoto. Gli arredi spogli, mostrati di sbieco, ci parlano della vana attesa di una visita, di un gesto, di una presenza. Anche i titoli scelti per questi dipinti, come Giorno di festa oppure Un Natale, accentuano il senso di lacerante desolazione delle scene ed esaltano, con valenza simbolica ed emozionale, il tema della solitudine legato alla vecchiaia.
Giorno di festa al Pio Albergo Trivulzio fu premiato con la medaglia d’oro all’Esposizione Universale di Parigi del 1900 e acquistato dallo Stato francese. Per questo è oggi conservato al Musée d’Orsay. Nel grande salone dell’Istituto, che ricorda l’interno di una chiesa, le panche disposte in modo ordinato sono quasi vuote. All’epoca, il Pio Albergo Trivulzio era ancora ospitato nel palazzo del principe, in Contrada della Signora; pochi anni dopo, nel 1910, la sede sarebbe stata spostata nell’attuale edificio, sulla strada che conduce a Baggio.
Un anziano dorme accasciato in primo piano; un altro sul fondo sembra immerso nei suoi pensieri; un terzo, a destra accanto alla vetrata, fissa il vuoto. All’estrema sinistra si intravedono le mani di un visitatore e, sulla panca di fronte a lui, il suo bastone da passeggio, il soprabito e il cappello. La grandezza della stanza semivuota, che immaginiamo silenziosa, amplifica la condizione di abbandono e di solitudine di questi poveri vecchi, reso ancora più esplicita dal titolo che allude ad un giorno di festa che, evidentemente, per gli ospiti del Trivulzio in nulla differiva da un giorno qualunque.
Il Natale dei rimasti inquadra la medesima scena, nel medesimo ambiente, ma da un punto di vista differente. Vediamo cinque ospiti presenti tra i banchi, assopiti o immersi nei propri malinconici pensieri, alcuni in ombra, altri illuminati da un fiotto di sole. Sono i “rimasti”, ossia coloro che anche il giorno di Natale sono costretti a rimanere in struttura, perché non sanno dove andare.
Il salone quasi deserto, scrive la storica dell’arte Giovanna Ginex, svela «la drammatica solitudine di chi non ha una famiglia che possa accoglierlo, neppure per Natale». L’ambiente sembra essere assai freddo, come testimoniano sia l’abbigliamento del vecchio in primo piano, pesantemente vestito con cappotto e cappello a visiera, sia la posizione dell’anziano sullo sfondo, che appoggia le mani sul calorifero per scaldarsi. Gli anziani ospiti sono distanziati fra loro non solo fisicamente ma anche psicologicamente: abbandonati, si sono abbandonati, aspettano la fine con rassegnazione.
Il tema del vecchio che appoggia le mani sulla stufa è ricorrente nell’opera di Morbelli e assume per questo un significato simbolico: sembra, infatti, che questi anziani, privati del calore umano, possano trovare conforto solo grazie a un apparecchio termico. Leggiamo sul numero natalizio del 1904 de L’illustrazione popolare, un giornale per famiglie edito a Milano: «non sono certo lieti, i poveri vecchi che il pittore Angelo Morbelli vide in quell’asilo della vecchiaia povera, ch’è il Luogo Pio Trivulzio a Milano.
Sono vecchi che hanno perduti tutt’i loro cari; e sono rimasti soli nell’Ospizio; gli altri coetanei sono stati invitati in casa di qualche parente superstite, di qualche amico… uno di essi s’abbranca alla stufa, come all’ultima cosa vitale che gli resta; gli altri stanno pensosi, curvi sulle panche deserte, al pallido raggio del sole invernale, che penetra nella vasta sala melanconica».
Un Natale! Al Pio Albergo Trivulzio, del 1909, fu l’ultima opera di Morbelli dedicata all’istituto milanese ed è, di fatto, una versione semplificata de Il Natale dei rimasti, di cui ripropone taglio e composizione ma riducendo il numero degli anziani presenti: una scelta finalizzata ad amplificare il senso di solitudine.
Molti dipinti di Morbelli sono dedicati a donne anziane, ritratte mentre riposano o si dedicano a lavori di cucito, ricamo o uncinetto.
In Vecchie calzette, del 1903, alcune ospiti del Pio Albergo Trivulzio sono riunite all’interno di una sala, disposte in file regolari, presso una finestra da cui entra una fredda luce invernale. Sono quasi tutte vestite nel medesimo modo, con un lungo grembiule bianco, uno scialle rosso e un fazzoletto nero sulla testa. Stanno, come suggerisce il titolo, realizzando delle calze con i ferri. Solo una, al centro della composizione, tiene dei fogli in mano, e probabilmente è impegnata a leggere una lettera. L’inquadratura è, ancora una volta, di tipo fotografico: alcune figure risultano infatti tagliate ai lati del dipinto. L’opera, nel 1905, venne premiata con la medaglia d’oro in occasione dell’Esposizione Internazionale di Monaco.
I due inverni è una variante di Vecchie calzette, giacché l’inquadratura risulta più ravvicinata e le donne sono di numero inferiore.
Le vecchie sono rappresentate in forte penombra; infatti, molte hanno smesso di lavorare e sono raccolte in silenzio o si sono assopite. Solo la donna più vicina alla finestra sta ancora sferruzzando. La scena è permeata di una profonda malinconia, accentuata dal piccolo scorcio di paesaggio innevato che si intravede oltre i vetri della finestra. D’altro canto, il titolo scelto da Morbelli, I due inverni, allude chiaramente sia a quello stagionale sia all’età delle povere donne, ossia all’inverno della vita. Anche il buio che avvolge le anziane signore è presago di morte.
In un altro dipinto della serie, infatti, intitolato La sedia vuota, il posto lasciato libero, il pianto sommesso della donna in primo piano a sinistra, l’atteggiamento dell’altra a destra, forse raccolta in preghiera, indicano con chiarezza che una delle ospiti è da poco mancata.