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La definizione di “arte figurativa contemporanea” fa riferimento a un settore dell’arte guardato con sospetto e persistente pregiudizio. In effetti, tutto il campo dell’arte contemporanea, di per sé assai fluido e come tale difficile da ordinare criticamente, è soggetto a fraintendimenti e luoghi comuni.
Sulla definizione stessa di “arte contemporanea” potremmo soffermarci chiarendo, prima di tutto, che l’arte è sempre stata contemporanea, ovviamente rispetto al momento storico in cui si è sviluppata. Michelangelo era un artista contemporaneo per il pubblico del Cinquecento e questo vale anche per Caravaggio rispetto a quello del Seicento. È poi vero che, quando si parla di arte contemporanea, il pubblico fa normalmente riferimento a quella prodotta a partire dagli anni Settanta del Novecento, laddove quella degli anni Cinquanta e Sessanta (dall’Espressionismo astratto alla Pop Art) è comunemente indicata come arte moderna.
Quello che colpisce è come la “modernità”, la “contemporaneità” dell’arte vengano strettamente identificate non solo con un preciso momento storico, quello del secondo Novecento, ma con alcuni caratteri specifici dell’arte novecentesca, in un modo così radicale da fare risultare anacronistico tutto quanto non è riconducibile a tale ambito. È sicuramente vero che l’idea di modernità viene istintivamente collegata a quella di novità.
Ciò che è nuovo è anche moderno. Il resto, ciò che non viene percepito come nuovo, appare fatalmente vecchio. È sempre stato così. Cennino Cennini, un trattatista del Trecento, scrisse di Giotto: «rimutò l’arte del dipignere di greco in latino e ridusse al moderno». Secondo Cennini, Giotto ebbe il grande merito di abbandonare i modi dell’arte bizantina (greca) per abbracciare quelli dell’arte classica (latina), che il trattatista, da uomo certamente colto e attento agli sviluppi culturali del suo tempo, già percepiva come “moderna”. Era la prima volta che questa definizione veniva applicata all’arte. Come dare torto al Cennini? L’arte di Giotto era rivoluzionaria, dunque nuovissima e come tale modernissima. Tanto moderna da essere moderna ancora oggi.
Altrettanto rivoluzionari e come tali modernissimi sarebbero poi stati Michelangelo con le sue sculture non finite e Caravaggio con le sue tante trasgressioni artistiche.
Ora, è indiscutibile che il XX secolo è stato segnato da molte rivoluzioni nel campo dell’arte, a partire da quelle provocate dalle cosiddette Avanguardie storiche del primo Novecento: Espressionismo, Cubismo, Futurismo, Astrattismo e Dadaismo. E che di rivoluzione in rivoluzione si è affermato in questo secolo travagliato, segnato da una grande inquietudine e da una profonda disillusione, un nuovo concetto di creatività: è stata eletta l’originalità a requisito fondamentale del fare arte, è stata relegata in secondo piano l’abilità manuale, il “mestiere”, è stata esaltata la forza delle idee.
Sono stati utilizzati materiali poveri, come le pietre, il ferro o il legno, sono stati eletti alla dimensione di opere d’arte oggetti o combinazioni di oggetti, perfino scritte, sono state prodotte opere dal significato non sempre palese e di norma destinate a una élite di intenditori.
Gli esiti dell’arte novecentesca sono stati spesso assai radicali e come tali al centro di violente polemiche: tanto che permane una valutazione piuttosto negativa sull’arte contemporanea così intesa, che moltissimi faticano ancora oggi a capire. Resta il fatto che quando si pensa all’arte del Novecento vengono immediatamente alla mente le figure scomposte di Picasso, i ready made di Duchamp, i gocciolamenti di Pollock, i tagli di Fontana, i sacchi di Burri, la Merda d’artista di Manzoni oppure, spingendosi alle soglie del XXI secolo, gli squali in formaldeide di Hirst.
Opere straordinarie, intendiamoci, la cui forza “rivoluzionaria”, o forse sarebbe meglio dire “esplicitamente rivoluzionaria” ha fatto nascere l’equivoco, nel pubblico, che l’arte moderna e contemporanea siano espresse solo dai loro caratteri. Un equivoco che, peraltro, comporta anche una contraddizione di fondo: perché da una parte queste forme d’arte non vengono capite e addirittura vengono da molti rifiutate, giudicate come una presa in giro, dall’altra si tende a riconoscere ad esse, e solo ad esse, lo status di modernità per eccellenza, proprio in forza dei loro caratteri di novità.
Ora, se indiscutibilmente i tagli di Fontana incidono con grande forza sull’immaginario collettivo, non per questo è giusto consentire un approccio tanto superficiale allo studio dell’arte novecentesca, la quale non è fatta solo di orinatoi, pennellate violente, sgocciolature di colore, tagli, sacchi, cumuli di stracci o di spazzatura, performances.
L’arte del Novecento è stata anche figurativa, orgogliosamente e modernamente figurativa. Si sono espressi attraverso l’uso di figure i pittori e gli scultori delle avanguardie (espressionisti e cubisti in primis), quelli del primo dopoguerra (metafisici, surrealisti), quelli del secondo dopoguerra (pensiamo a Bacon, ai pittori della Transavanguardia).
L’arte del Novecento è popolata di figure: anzi, esse superano per numero i tagli e i sacchi. Quindi, è indubbio che anche l’arte figurativa, in quanto tale, ha diritto ad essere definita moderna e contemporanea. Però il rischio è che anche in questo caso la “modernità” venga identificata esclusivamente con i caratteri di esplicita novità. Le figure espressioniste di Kirchner, quelle cubiste di Picasso, quelle contorte e tormentate di Giacometti o di Bacon, con le loro deformazioni, le proporzioni distorte, i colori antinaturalistici, sono comunque frutto di una idea nuova, dunque moderna, di fare arte.
Esse non sono armoniche, non sono equilibrate, non sono realizzate con una tecnica accademica, in altre parole non sono classiche, e in ciò starebbe la loro modernità. Ed è questo, sicuramente, il luogo comune più duro da sfatare: quello secondo cui la modernità, la contemporaneità si debbano esprimere prima di tutto con forme d’arte informali e concettuali, poi anche attraverso la creazione di figure ma a condizione che queste siano marcatamente anticlassiche.
La figura classica, anzi proprio una certa idea di bellezza classica, non apparterrebbero al Novecento, non sarebbero moderne (meno che mai contemporanee) e in quanto tali sarebbero “anacronistiche”. Nulla di più falso. Le Avanguardie si sono proposte come una alternativa alla tradizione classica ma in alcun modo l’hanno cancellata. Picasso fu assai sensibile ai richiami della cultura rinascimentale e neoclassica: nei suoi capolavori cubisti Les demoiselles d’Avignon e Guernica cogliamo citazioni da Michelangelo, Raffaello, Guido Reni e Ingres; egli stesso, negli anni Venti, abbandonato temporaneamente il Cubismo, tornò a una pittura figurativa di stampo quasi accademico.
Nel corso del primo dopoguerra si riaffermò in Europa un Neoclassicismo quasi purista ben esemplificato dall’opera di Arno Breker in Germania; e pazienza se i regimi adottarono questo linguaggio classicistico come arte di stato, in definitiva i destini di arte e potere sono sempre stati allacciati. Ciò che colpisce è che, negli stessi anni, anche nella democratica America veniva celebrata la sontuosa bellezza del corpo atletico, attraverso l’opera dei fotografi, i quali, pensiamo solo a Robert Mapplethorpe negli anni Ottanta, hanno rilanciato il genere artistico del nudo in una chiave di lettura che non esitiamo a definire classica.
Se dunque arriviamo ai nostri giorni, non ci appare per nulla anacronistica l’opera di pittori come Roberto Ferri (1978), che attraverso l’esaltazione della figura vuole riproporre con la sua pittura i temi della bellezza, dell’amore, del dolore, del male e della morte. Ferri viene definito dalla stampa, che si sta accorgendo di lui, come un caravaggista; ma questa definizione, necessariamente semplificatoria, può diventare riduttiva e sviante. L’artista cita, è vero, Caravaggio, come anche, peraltro, Michelangelo, Bernini, David, Bouguereau: ma ogni classicista che si rispetti lo fa e lo ha sempre fatto.
Caravaggio citava Michelangelo, come peraltro faceva anche Raffaello, a sua volta citato da Annibale Carracci. E d’altro canto Michelangelo citava la scultura antica e si potrebbe continuare a lungo con gli esempi. La bellezza ideale lo richiede: per costruirla, si deve cogliere il meglio dalla natura e dall’arte stessa.
Quindi Ferri è un classicista e nel suo essere tale è assolutamente contemporaneo: perché celebra una idea di bellezza che non è mai tramontata (come dimostra, banalmente, il successo planetario di attori e modelli che ostentano fisici scultorei) e perché lo fa in modo del tutto originale, reinterpretando i contenuti e le forme della bellezza classica in chiave delicatamente surrealista. I quadri di Ferri, che sono dipinti magistralmente, con una tecnica eccellente (tutt’altro che ripudiata, in quanto tale, dagli artisti del Novecento), raccontano chi siamo noi oggi, quanto siamo smarriti, in cosa ci stiamo trasformando.
La sua è una ricerca alternativa a quella di tanti informali, concettuali, neodada o post dada che producono opere del tutto diverse dalle sue e altrettanto efficaci (anche se talvolta di minore immediatezza comunicativa). Ma d’altro canto, la magia dell’arte sta proprio in questo: nel saper parlare sempre e comunque al cuore dell’uomo, con tutti i linguaggi di cui essa è capace.