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Il critico d’arte Germano Celant (1940-2020), genovese, curatore di mostre e autore di oltre cinquanta pubblicazioni, tra cataloghi, scritti teorici e saggi, è noto soprattutto per aver fondato, alla fine degli anni Sessanta, l’Arte Povera, un movimento artistico di stampo sostanzialmente concettuale, che nella decade successiva puntò alla riconquista del rapporto uomo-natura e al recupero del gesto artistico, in aperta polemica con le ricerche patinate e (apparentemente) disimpegnate della Pop Art, contrapponendosi all’imperante cultura dei consumi e alla mercificazione dell’artista e della sua opera.
«Là un’arte complessa, qui un’arte povera, impegnata con la contingenza, con l’evento, con l’astorico, col presente, con la concezione antropologica, con l’uomo ‘reale’ (Marx), la speranza, diventata sicurezza, di gettare alle ortiche ogni discorso visualmente unico e coerente (la coerenza è un dogma che bisogna infrangere!), l’univocità appartiene all’individuo e non alla ‘sua’ immagine e ai suoi prodotti». Così ha scritto Celant nel 1967, in Appunti per una guerriglia. «Un nuovo atteggiamento per ripossedere un ‘reale’ dominio del nostro esserci, che conduce l’artista a continui spostamenti dal suo luogo deputato, dal cliché che la società gli ha stampato sul polso. L’artista da sfruttato diventa guerrigliero, vuole scegliere il luogo del combattimento, possedere i vantaggi della mobilità, sorprendere e colpire, non l’opposto».
L’Arte Povera raccolse artisti di varia formazione, alcuni dei quali legati, in qualche modo, all’ambiente neo-dadaista. Tra questi ricordiamo gli italiani Michelangelo Pistoletto, Mario Merz, Giuseppe Penone e Mario Ceroli. La scelta del nome si legò alla decisione di utilizzare i materiali “umili”, quindi poveri perché privi di valore intrinseco, come carta, stoffa, paglia, terra, legno, frammenti organici, vegetali e minerali, prelevati dal quotidiano per ricavarne “energie primordiali”. «Arte Povera – spiegò Celant – è un’espressione così ampia da non significare nulla. Non definisce un linguaggio pittorico, ma un’attitudine. La possibilità di usare tutto quello che hai in natura e nel mondo animale. Non c’è una definizione iconografica dell’Arte Povera». Questa forma artistica presenta una peculiarità: ha prodotto strutture che spesso hanno invaso totalmente lo spazio dedicato allo spettatore.
La pratica (già sperimentata in alcune mostre surrealiste e adottata dalla Pop Art) è stata chiamata “environment” (‘ambiente’) ed è assimilabile al tentativo di realizzare, con uno spirito tra il filosofico e il primordiale, una sorta di habitat ideale (tipici, in questo senso, gli igloo di Mario Merz). D’altro canto, mai prima di allora l’uomo si era trovato di fronte a un processo di “snaturalizzazione” così marcato: la civiltà tecnologica e consumistica stava sconvolgendo e distruggendo il normale rapporto tra l’uomo e la natura e molti artisti ne avvertivano il pericolo con profondo disagio. Nel corso degli anni Settanta, il concetto di Arte Povera si è esteso fino a includere nella nozione di “povero” anche l’idea di “elementare”; in base a questa nuova lettura, molti artisti hanno fatto entrare nelle proprie creazioni elementi tecnologici essenziali e primari, come le resistenze elettriche incandescenti, creando estrosi giochi di luci e neon.
Uno tra i maggiori esponenti dell’Arte Povera è stato Mario Merz (1925-2003), milanese, che nella sua carriera ha usato oggetti banali, consueti e familiari e materiali molto eterogenei, come ferro, cera, neon, terra e perfino giornali impacchettati. L’artista è diventato famoso soprattutto per i suoi “igloo”, sculture-installazioni che, allo stesso modo dei “tagli” di Fontana, sono diventati inconfondibili e di conseguenza inimitabili. Come ha scritto, brillantemente, un critico d’arte, Francesco Bonami, «l’artista che inventa un segno o uno spazio tutto suo, a prova di imitazione, prende di diritto la patente di vero. Se poi il segno e lo spazio sono poetici, l’artista diventa anche grande». Il primo igloo di Merz è del 1967. Da allora ne ha fatti tanti, aperti o chiusi, trasparenti oppure opachi, realizzati con le materie più povere: naturali, come la tela di juta, il catrame, l’argilla, la pietra, il legno; industriali, come il vetro, il metallo, la gomma-piuma, i tubi al neon. Al loro interno ha raccolto, soprattutto negli anni delle rivolte studentesche, frasi scritte col neon, pamphlet, princìpi filosofici, poesie.
Gli igloo di Merz, metafore della provvisorietà e della precarietà dell’essere umano, sono insomma caricati di un valore simbolico: essi diventano, attraverso un processo di astrazione, degli spazi concettuali. Essendo riconducibili alle abitazioni primordiali, con la loro forma-tipo, essenziale, archetipica, vogliono incarnare l’idea stessa della “casa” primitiva, totalmente a misura d’uomo, in cui trovare rifugio per la propria anima. «Siccome io considero che in fondo oggi noi viviamo in un’epoca molto provvisoria, il senso del provvisorio per me ha coinciso con questo nome: igloo».
Così scriveva Merz negli anni Sessanta. E, a ben pensarci, la nostra età contemporanea è ben più provvisoria (pensiamo al fenomeno delle migrazioni di massa) di quel tempo: per questo, per certi versi, le opere e il pensiero di Merz sono ancora di una straordinaria attualità. Secondo l’artista, «l’igloo è dato dai contrasti: chiaro-scuro, dentro-fuori, materiale leggero e pesante. Sono le contraddizioni che l’uomo ha sulla terra, nella vita». Gli igloo di Merz vogliono, insomma, ridefinire anche l’idea di rapporto tra arte e vita, obiettivo condiviso con gli artisti concettuali e i performers della Body Art. Non solo: essi propongono anche una nuova concezione di spazio artistico, indefinibile perché luogo del pensiero: «Nell’igloo lo spazio esterno e lo spazio interno sono equivalenti».
Lo scultore Giuseppe Penone (1947), esponente dell’Arte Povera, ha utilizzato per le sue opere minimaliste materiali poveri, naturali, antiartistici, ricavati soprattutto dal mondo vegetale, come terracotta e legno, talvolta presentando, come creazioni, semplici pietre o alberi tagliati e privati dei rami. Spiega l’artista: «strutturalmente l’albero cresce a cerchi concentrici, quindi si può ritrovare la forma dell’albero all’interno del nòcciolo esistenza: è un essere che memorizza la sua forma. La sua forma è necessaria alla sua vita, quindi è una struttura scultorea perfetta, perché ha la necessità dell’esistenza. È per questa ragione che mi sono interessato agli alberi e ho sviluppato una serie di lavori considerando l’albero non sotto un punto di vista simbolico, ma sotto un punto di vista reale e anche di materia».
Continua Penone: «ho iniziato fin dai primi anni, dai primi lavori, nel 1968, a lavorare in rapporto con la vegetazione e con la crescita degli alberi. Uno dei primi lavori si basava sull’idea di trattenere la crescita dell’albero con la mia mano. Avevo sostituito la mia mano con un calco in acciaio e bronzo che avevo opposto all’albero. Era un gesto minimo di scultura. Tutto il mio lavoro si è sviluppato a partire da questa prima opera, dal rapporto tra l’uomo e ciò che lo circonda e il cambiamento che una presenza può creare nelle cose che lo circondano e, viceversa, come il cambiamento delle cose che lo circondano influiscono su una persona. In quel caso, il lavoro era basato sull’idea del tempo perché la crescita dell’albero, che è un essere che si può percepire come solido, se considerato nella sua crescita nel tempo, diventa una materia fluida e plasmabile».
Le sculture di Penone sono così essenziali, così elementari che rischiano non solo di non essere riconosciute come tali ma di passare proprio inosservate. E, quando si osservano, di non essere comprese. Consideriamo, ancora, la sua serie degli Alberi. Quelli che adesso sembrano pali della luce riusciti male, un tempo erano veri alberi, alti, fronzuti, pieni di rami dove gli uccelli facevano il nido. Poi sono morti, oppure sono stati abbattuti, non sappiamo. E sono diventati travi, da cui l’artista riparte. Da ognuno di quei manufatti, prodotti dalla lavorazione industriale, Penone ha cercato il dato naturale originario, ossia gli alberi da cui essi erano stati ricavati. Penone li ha scavati, con un’opera di intaglio accurato e magistrale.
Strato dopo strato, giro dopo giro, attraverso un percorso concettuale certamente sofisticato, in una sorta di ideale viaggio a ritroso nel tempo, l’artista ha ricercato nel cuore di quelle travi la giovinezza degli alberi originari, l’aspetto che essi avevano quando erano ancora sottili, elastici. Alberelli, insomma. In fondo, gli alberi sono gli unici esseri viventi che conservano dentro di sé la propria giovinezza e a differenza di quanto accade con noi esseri umani, che tendiamo persino a dimenticarcene, in essi è possibile ritrovarla. L’arte di Penone (che dunque è molto meno banale di quanto non appaia) ci invita a riflettere sulla vita, sul tempo che scorre, sulle scorze che accumuliamo negli anni e sovrapponiamo alle precedenti senza annullarle. Perché noi siamo l’esito della nostra storia personale. Come quegli alberi lì.
L’artista abruzzese Mario Ceroli (1938), prima precursore e poi esponente dell’Arte Povera, ha utilizzato prevalentemente il legno grezzo, del tipo utilizzato per gli imballaggi. Assemblando tavole, non lavorate, ruvide al tatto e alla vista, Ceroli ha realizzato, negli anni, delle sagome con le quali ha spesso invaso gli spazi museali, creato opere suggestivamente scenografiche, dal sapore spiccatamente teatrale ma di un “teatro del disturbo”, com’è stato giustamente osservato. Peraltro, Ceroli ha svolto anche un’intensa attività di scenografo teatrale, riscuotendo anche grandi consensi, ad esempio con il suo Riccardo III nel 1968. È in due versioni, del 1965 e del ’68, La scala, un assemblaggio di sagome lignee (tutte uguali) capaci di ridurre al minimo gli spazi vuoti.
Questa serialità, quasi ossessiva, delle sue sagome, certamente debitrice di certe suggestioni della Pop Art americana, è un elemento connotativo della sua ricerca. Anzi, come ha scritto il critico Maurizio Calvesi, «Ceroli si propone temi nei quali la serialità risulta non già come un mezzo illusorio di sollecitazione e moltiplicazione dell’immagine, ma coincide con il tema stesso, con l’idea stessa da rappresentare». Le sue molte sagome sovrapposte non si limitano a rappresentare figure in fila, sono esse stesse raffigurazione della fila, anzi, «lo schema visibile dell’uomo in fila». Un modo di vedere la nostra società contemporanea, forse?
È il caso de La Cina, sempre del 1966, poi riproposta con La grande Cina nel 1968, nelle quali masse compatte di uomini e donne, rigorosamente in silhouette, marciano decise tutte nella stessa direzione. È un bene o un male che ciò accada? Dipende dai punti di vista, ovviamente. La Cina potrebbe essere, ne è convinto Calvesi, «la celebrazione anch’essa larvatamente ideologica di un’umanità corale, positivamente collettiva, né meglio potrebbe essere visualizzato il senso della compattezza».
È, questa, certamente una chiave di lettura positiva e propositiva, se intendiamo quella massa compatta e marciante come un’armata tesa a costruire il bene, con piena e lucida consapevolezza. Insieme si vince, infatti, si costruisce, si crea civiltà. Chissà, però, se Ceroli non aveva in mente certe rappresentazioni di folla ottusa e acritica, ad esempio nei dipinti di Munch, rispetto alla quale l’artista, solo e solitario, si poneva “in direzione ostinata e contraria”. In questi tempi social, con tale interpretazione alternativa l’opera assumerebbe un suo bel significato.
Meno concettuale dei suoi colleghi, più legato alla dimensione strettamente figurativa dell’arte, Ceroli ha voluto mantenere un fertile contatto con la nostra gloriosa tradizione artistica, e rinascimentale in primis. Lo dimostrano opere come L’ultima cena, un soggetto assai diffuso nel Quattrocento, ma qui drammaticamente rappresentato senza il Cristo tradito, al posto del quale viene lasciato un posto vuoto. Quelle sagome, tutte uguali, degli apostoli rannicchiati sulla loro panca diventano tangibile testimonianza di un’umanità rimasta sola, per sua stessa responsabilità.
Ancora nel 1966, Ceroli ha costruito a Roma la Cassa Sistina, forse la sua opera più concettuale, con cui ha anche vinto il premio di scultura della Biennale di Venezia di quell’anno. È una grande scultura in legno povero, una cassa letteralmente, al cui interno è possibile entrare e che l’artista ha riempito di sagome umane alludenti ai personaggi michelangioleschi, idealmente staccati dal muro e pronti per essere trasportati altrove. Una sorta di cassa d’imballaggio della Cappella Sistina, insomma, destinata a viaggiare per il mondo. E l’artista, sempre idealmente, dentro di essa. La Cassa Sistina è insomma uno spazio magico, è lo spazio dell’arte.
Ceroli ha voluto omaggiare anche Leonardo, di cui ha proposto nel 1964 l’Uomo di Leonardo, una scultura in legno che ricalca visivamente il celebre disegno vinciano ma proponendolo attraverso lo spessore delle tavole utilizzate. L’uomo ha qui le fattezze dello stesso Ceroli, che dunque si è voluto autoritrarre.
L’Uomo di Vinci è una seconda, monumentale scultura in legno, con cui l’artista ha nuovamente citato, nel 1967, l’Uomo vitruviano ma stavolta sviluppandolo totalmente nello spazio, nella dimensione tridimensionale di un cubo inscritto in una sfera. Quest’opera è stata riproposta nel tempo in molte versioni, una delle quali, realizzata nel 1987, è stata installata all’Aeroporto di Fiumicino e un’altra, sempre dell’87, è stata donata alla cittadina di Vinci e collocata in una piazza che si apre sul paesaggio collinare, a diretto contatto con la natura. Una soluzione che certamente Leonardo avrebbe molto apprezzato.