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La grande statuaria greca fece la sua prima comparsa solo intorno alla metà del VII secolo a.C., nei territori delle isole egee e, in particolare, a Creta, oramai controllata dai Greci. Lo stile più antico di questa forma d’arte greca, infatti, è chiamato “dedalico” (680-610 a.C.), con riferimento allo scultore cretese Dedalo, leggendario architetto del labirinto di Cnosso.
Proviene proprio dall’isola di Creta una statua votiva in calcare, la cosiddetta Dama di Auxerre. La figura, in posizione eretta, è mostrata nell’atto di pregare: ha le gambe rigide e unite, il braccio sinistro teso lungo il fianco e la mano destra al petto. Il volto è triangolare con la fronte molto bassa e i capelli sono raccolti in trecce stilizzate, con un effetto che ricorda le pesanti acconciature di tipo egizio. Osservando questa scultura, riconosciamo che lo stile geometrico è stato in buona parte abbandonato e che l’artista ha voluto rendere in modo più credibile le forme e le proporzioni reali di una figura umana.
A partire dalla metà del VII secolo a.C., i soggetti raffigurati dagli scultori, prima dedalici e successivamente greci, divennero sostanzialmente due: giovani uomini, detti koùroi (singolare koùros, in greco ‘ragazzo’), e giovani donne, dette kòrai (singolare kòre, in greco ‘ragazza’), sempre mostrati in posizione eretta. L’età dei kouroi è compresa tra i 17 e i 19 anni, le korai hanno appena superato la fase della fanciullezza. I kouroi sono sempre completamente nudi, perché del maschio si volle celebrare la bellezza; le korai, al contrario, sono rigorosamente vestite, giacché della donna si preferì evidenziare il ruolo di moglie e madre. I loro abiti più comuni sono il peplo (una tipica veste femminile dell’antica Grecia) oppure il chitone (una lunga tunica che lascia scoperti solo i piedi) abbinato a un semplice mantello (l’himàtion).
I volti dei kouroi e delle korai sono sempre segnati da un delicato ed enigmatico sorriso, che la critica ha battezzato come sorriso arcaico. Un tempo, tale sorriso veniva interpretato come espressione di serenità; oggi lo si considera una semplice convenzione stilistica, ereditata dagli Egizi, utile a conferire ai volti un senso di maggiore rilievo, con un semplice espediente tecnico che consiste nel tirare verso l’alto gli angoli della bocca.
La rappresentazione dei kouroi e delle korai seguiva alcune regole stilistiche abbastanza rigorose. I kouroi avevano la testa eretta, la lunga capigliatura acconciata a treccioline, le braccia stese lungo i fianchi con i pugni chiusi, la gamba sinistra avanzata, come ad accennare un passo, ma con entrambi i piedi ben appoggiati al suolo (è il “finto passo” della statuaria egizia). Anche le korai sono sempre erette, in posizione rigida, con i piedi quasi uniti, un braccio steso lungo il fianco (talvolta a tenere un lembo della veste), in genere il destro, e l’altro o piegato sul petto (alla maniera egizia) oppure proteso verso l’osservatore, come a porgere qualcosa (in genere, un piccolo oggetto o un frutto).
Molte korai raffigurano, infatti, delle portatrici di offerte. È il caso della cosiddetta Kore con melagrana, della quale si è conservato il braccio destro teso con la mano che tiene un frutto, identificato con una melagrana o anche con una mela. La giovane donna indossa un lungo chitone ed è coperta da un himàtion. Sono ancora chiaramente visibili sul marmo sia le tracce dell’antica colorazione sia i decori del bordo del mantello.
Alcune korai rappresentano, probabilmente, delle divinità. Tuttavia, non è sempre facile riconoscere, oggi, la loro identità. È questo il caso della Kore di Nikandre, risalente al 650 a.C. circa: uno tra gli esempi più antichi di kore arcaica. Eretta nel Santuario di Artemide a Delo, nell’Arcipelago delle Cicladi, era certamente una scultura votiva. Fu ritrovata dagli archeologi gravemente danneggiata, divisa in due pezzi all’altezza della vita e con entrambe le braccia spezzate all’altezza del gomito. L’avambraccio sinistro è mancante e l’intera superficie della statua risulta fortemente erosa, sicché i tratti del viso sono a stento riconoscibili. L’iscrizione dedicatoria, ben conservata, ci informa che fu commissionata da Nikandre, la quale fu, probabilmente, una sacerdotessa di Artemide.
La kore, realizzata in stile ancora dedalico e molto simile ai modelli egizi, è mostrata in posizione eretta ed è vestita con un lungo abito che le copre, quasi completamente, anche i piedi. I capelli si dividono sulle due spalle e sono pettinati a grandi trecce rese sinteticamente con profondi solchi verticali. Sulla sua identità gli studiosi non sono concordi: potrebbe trattarsi di una effigie di Artemide, di una immagine della stessa Nikandre o di una generica raffigurazione di offerente. Le aggiunte in metallo, un tempo presenti sulle mani e oggi perse, avrebbero certamente aiutato a identificarla con maggiore sicurezza.
La parte posteriore della scultura è definita come quella anteriore; tuttavia, la statua non è propriamente volumetrica, essendo il suo spessore di appena 17 cm. L’opera venne dunque concepita per essere vista solo frontalmente, come nel caso di un rilievo.
Un importante gruppo di korai, oggi conservate al Museo dell’Acropoli di Atene, proviene dalla cosiddetta colmata persiana, dove gli Ateniesi seppellirono resti mutili di statue dopo il 480 a.C. Tali sculture erano state tutte rovinate dai Persiani durante la seconda guerra persiana, nel corso del saccheggio della città di Atene e la distruzione dell’Acropoli. Vinta la guerra, gli Ateniesi decisero di sostituirle, ed essendo tali opere considerate care agli dèi le seppellirono invece che distruggerle.
Di questo insieme di sculture, databili tra il 570 e il 490 a.C. e note come korai dell’Acropoli, fa parte la Kore di Antenor. Questa scultura è stata ritrovata assieme ad una base, che si ipotizza essere la sua (ma non tutti sono d’accordo) e che reca iscritto il nome del committente (un vasaio di nome Nearchos) ed anche dell’autore, lo scultore Antenor. Si trattava, probabilmente, della più grande tra le korai dell’Acropoli ateniese. La scultura, trovata frammentata e ricomposta, è rimasta mutila, perché le mancano il naso e l’occhio destro, il braccio destro, la punta delle dita della mano sinistra e la parte anteriore dei piedi. La donna indossa un chitone e un himàtion plissettato; è pettinata elegantemente, con treccioline che ricadono sulle spalle e riccioli sulla fronte.
Anche l’Artemide dell’Acropoli, una delle più belle korai di età arcaica, fu ritrovata a pezzi negli scavi dell’Acropoli di Atene, nella colmata persiana. Rimontata dagli archeologi, fu poi trasferita al Museo dell’Acropoli della stessa città, dove tutt’ora si trova.
Questa severa figura femminile è abbigliata con una veste lunga fino ai piedi, legata da una cintura; una mantellina le copre il busto. La veste, così lineare e severa, risulta un po’ fuori moda se paragonata allo stile della testa (riconducibile al 540 a.C. circa), ed è stata frettolosamente identificata come un peplo dalla totalità degli studiosi. Per questo motivo, la scultura fu inizialmente battezzata Kore col peplo, nome con il quale era conosciuta fino a pochi anni fa e con il quale viene ancora oggi indicata in molti testi.
La statua è considerata un capolavoro della scuola attica. Alta un metro e venti, è di marmo pario. Ha i piedi uniti e il braccio destro aderente al corpo, mentre quello sinistro, oggi perduto, era levato in avanti. Il corpo, quasi del tutto coperto dall’abito, ha un volume sostanzialmente cilindrico, anche se la compattezza dell’immagine è mitigata dalle curve appena accennate dei seni e dal taglio netto della cintura.
La capigliatura stilizzata è disposta simmetricamente ai lati del volto con ciocche ondulate lasciate cadere a tre a tre sulle spalle, mentre sulla schiena la chioma è acconciata a trecce sottili. La dea portava sul capo una corona di metallo radiata, cioè a raggiera: sulla capigliatura ci sono ancora i resti delle piccole verghe di bronzo. Al collo aveva probabilmente una collana. Due fori sulle spalle indicherebbero la presenza di spille metalliche che ornavano la mantellina. Anche i lobi delle orecchie sono forati, per l’applicazione di due orecchini.
L’opera era un tempo tutta dipinta e mostra ancora le deboli tracce dei suoi colori originali. Nel 2004, accurate analisi chimico-fisiche condotte sulla statua hanno fatto emergere testimonianze di colore ormai invisibili a occhio nudo. Inoltre, i raggi ultravioletti e a infrarosso hanno svelato i sottili graffiti preparatori di alcune figurazioni dipinte. Queste indagini hanno consentito di ricostruire il disegno originale della veste e spinto gli studiosi a proporre una nuova lettura dell’intera opera.
La kore presentava sotto la cintura una serie di rosette e aveva la veste decorata al centro con piccole raffigurazioni di colore rosso: un cavaliere, una sfinge, uno stambecco, un leone e probabilmente un cinghiale, elementi che hanno suggerito l’identità di una dea. La donna, quindi, non porta un peplo ma un’epèndytes, cioè una sopraveste cerimoniale di origine asiatica adottata come insegna di potere e riservata alle divinità protettrici di città. Si hanno pochi dubbi nell’identificare questa kore con Artemide, perché a lei si riferiscono gli animali selvatici raffigurati sull’abito e perché sappiamo che, in età arcaica, a questa dea fu dedicato un santuario proprio sull’Acropoli ateniese.
Siccome la mano del braccio destro abbassato stringeva qualcosa di metallico, come ci indica la presenza di un foro di trapano che reca tracce di ossidazione, trattandosi di una Artemide è legittimo pensare fosse una freccia. Così, l’avambraccio sinistro proteso, oggi perduto, teneva probabilmente un arco.
L’Artemide dell’Acropoli è sicuramente la più raffinata fra tutte le statue arcaiche in marmo ritrovate ad Atene. Rispetto alle altre korai, infatti, mostra una modulazione dei piani assai più elaborata; anche la resa del volto, nonostante la presenza un po’ astraente del sorriso arcaico, si scioglie in una naturalezza più prossima alla realtà. Per certi versi, sembra quasi che la semplice struttura del corpo, un po’ geometrica, serva, per contrasto, ad accentuare la vivacità dell’espressione, meno fissa, meno bloccata di quelle che congelano tante altre sculture coeve. Fermo restando che il sorriso arcaico aveva prima di tutto una funzione tecnica, l’Artemide dell’Acropoli ha il potere di comunicare, ancora a distanza di secoli, un senso di protezione rassicurante.
Un’altra bellissima kore è la cosiddetta Kore Phrasikleia, scolpita tra il 550 e il 540 a.C. circa. Grazie al suo eccezionale stato di conservazione, è considerata uno dei più importanti capolavori dell’età arcaica greca. Un tempo collocata sopra una tomba in Attica, venne successivamente seppellita. Grazie al ritrovamento di una base considerata pertinente, è stata attribuita ad Aristion di Paros. Infatti, sulla base si legge «Aristion di Paros mi ha fatto» e anche «Tomba di Phrasikleia. Kore devo esser chiamata sempre. Invece del matrimonio, dagli Dei questo nome diventò il mio destino».
Insomma, la statua sarebbe dedicata a Phrasikleia, una giovane donna morta prima di sposarsi. La fanciulla è vestita di un lungo chitone, stretto in vita da una cintura, un tempo rosso e decorato con fiori e meandri (ancora visibili ad occhio nudo). Ai piedi porta un paio di sandali. Tiene con la mano destra un lembo della sua veste e con la sinistra un fiore di loto ancora in boccio. I polsi sono ornati da braccialetti e la testa coperta da una ghirlanda di fiori.
Una celeberrima kore è la cosiddetta Kore di Samo, detta anche Hera di Samo, scolpita intorno al 600 a.C. (forse 570 a.C.) e oggi conservata al Louvre. Il capolavoro, purtroppo acefalo (cioè privo della testa), presenta la posa consueta delle korai. La mano sinistra, andata perduta, era raccolta al petto in atto di preghiera. Indossa una lunga veste fittamente increspata di sottili piegoline verticali, appena svasata alla base, che lascia fuoriuscire le dita dei piedi. La parte inferiore del corpo assume così la forma di un cilindro sul quale s’innesta il busto, coperto dal mantello squadrato. Lo stile di riferimento è quello della cosiddetta scuola ionica.
Nonostante i molti studi che le sono stati dedicati, l’opera presenta ancora qualche problema d’interpretazione. Secondo alcuni autori, infatti, si tratterebbe di una scultura votiva donata (con un’altra gemella) al santuario da Cheramyes, in segno di ringraziamento. In questo caso avrebbe avuto nella mano sinistra una melagrana, attributo di Hera nonché simbolo di abbondanza e prosperità. Altri studiosi, invece, non escludono che l’opera sia un simulacro della stessa dea Hera.
Sicuramente, la solida composizione del corpo di questa donna, o di questa dea, ha qualcosa di astratto, giacché pare che le sue forme femminili, praticamente irriconoscibili, siano state come geometrizzate, racchiuse in un guscio geometrico rigoroso. Non a caso, Giulio Carlo Argan, celebre storico dell’arte del Novecento, ha efficacemente collegato questa scultura agli elementi architettonici del tempio greco, e in particolare ad una colonna: «Come nel tempio, forma ideale dello spazio, si passa dalla forma curva delle colonne, su cui la luce si gradua in infiniti passaggi, alla volumetria dell’insieme, che offre alla luce i suoi piani squadrati, così qui si passa dallo stelo cilindrico delle gambe avvolte nella veste pieghettata (chitòne) al busto squadrato, idealmente chiuso in quattro piani ortogonali (frontale, tergale, laterali)».
Lo scultore «ha solcato il lungo fusto cilindrico della veste con tante pieghe sottili, tutte uguali come scanalature di una colonna, in modo da costringere la luce a non trascorrere ma ad indugiare sulla superficie incurvata».
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