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Dagli anni Settanta, soprattutto grazie all’opera straordinaria delle performers, ossia delle esponenti della Body Art, e in primis di Marina Abramović, le artiste si sono definitivamente liberate dagli ultimi legacci sociali che ancora nei primi anni del Novecento le avevano viste relegate a un ruolo marginale nella scena artistica internazionale. Artiste 15. Tra arte concettuale e neopop.
L’Arte Concettuale ha visto, per esempio, protagoniste delle artiste di indiscusso valore. Con l’espressione Arte Concettuale si indica quella tendenza artistica internazionale che dalla fine degli anni Sessanta ha posto l’accento sul processo mentale prima ancora che sul prodotto artistico, negando l’importanza dell’oggetto, e si è limitata a esaltare il ruolo del progetto, dell’idea, del concetto, appunto, espresso nella sua forma linguisticamente più scarna.
Nella logica dell’Arte Concettuale l’attività dell’artista è una pura formulazione mentale; possono quindi diventare espressioni d’arte anche le numerazioni e i giochi matematici, come quelli proposti dall’artista tedesca Hanne Darboven (1941-2009), il cui concettualismo rigorosissimo ha puntato all’inserimento della scrittura e del calcolo nell’ambito delle arti visive. Darboven ha usato frequentemente i numeri, “in modo da scrivere senza descrivere”. La realizzazione di installazioni che richiamano i calendari, attraverso l’elencazione delle cifre che compongono una data (giorno, mese, anno), ha consentito all’artista di soffermarsi sul tema del tempo che scorre e di fare della sua arte una sorta di diario che scandiva la sua vita. Artiste 15. Tra arte concettuale e neopop.
Accanto ad artisti concettuali rigorosi come la Darboven, altri hanno preferito servirsi di strumenti più tradizionali (quadri e sculture), sia pure concependoli in senso astratto e mentale. Per esempio, Eva Hesse (1936-1970), artista ebrea nata in Germania ma subito emigrata negli Stati Uniti, ha puntato a contestare il rigore della geometria attraverso forme bizzarre e disarmanti pannelli o matasse aggrovigliate, create modellando stoffe, materiali sintetici, lana di vetro e filo di ferro, e ancora lenzuola, reti, frammenti di tela immersi nella gomma liquida, nel latex o nella resina, oppure appesi al muro o al soffitto tramite ganci o corde, come in Vinculum II del 1969.
Queste forme apparentemente così prive di logica sono state per questa artista l’espressione di un costante anelito di libertà, di una fame insaziabile di vita. «Quello che voglio è trovare il mio spazio, la pace profonda o la tempesta profonda, purché sia mia», confessò Eva Hesse nel suo diario, quello stesso in cui scrisse dell’arte: «è la mia meta, la fonte delle mie ambizioni, delle mie soddisfazioni e delle frustrazioni». Artiste 15. Tra arte concettuale e neopop.
Mentre negli anni Settanta l’opera d’arte era stata smaterializzata per divenire un’immagine-concetto o uno “spazio di azione” (si pensi proprio alle performances), che tendeva ad accogliere fisicamente lo spettatore, l’arte degli anni Ottanta e Novanta ha presentato un panorama più diversificato dove tuttavia l’opera d’arte torna a farsi più concreta: gli artisti, infatti, ripropongono al pubblico “oggetti” d’arte, spesso spiazzanti e dissacratori ma comunque concreti, riconoscibili.
Alcuni hanno dato spazio alla propria fantasia affrontando temi importanti, legati alla sfera della sessualità, della famiglia e della solitudine. Altri, invece, hanno voluto recuperare il tema del consumismo e del benessere economico, adottando proprio l’oggetto massificato, emblema di cattivo gusto, come indicatore dei valori (o meglio dei disvalori) della società contemporanea. Imitando i loro maestri degli anni Sessanta, i nuovi artisti pop hanno amato trasformare gli oggetti che la gente compra a pochi dollari in “opere d’arte”, in emblemi della coscienza di un’epoca.
L’artista francese Louise Bourgeois (1911-2010), influenzata dal Surrealismo, ha creato installazioni di carattere onirico che vedono spesso come protagonisti giganteschi ragni, che dovrebbero celebrare la figura materna. È la stessa scultrice a spiegarlo: «Il ragno è un’ode a mia madre. Lei era la mia migliore amica. Come un ragno, mia madre era una tessitrice. La mia famiglia era nel settore del restauro di arazzi e mia madre si occupava del laboratorio. Come i ragni, mia madre era molto brava. I ragni sono presenze amichevoli che mangiano le zanzare. Sappiamo che le zanzare diffondono malattie e per questo sono indesiderate. Così, i ragni sono protettivi e pronti, proprio come mia madre». Artiste 15. Tra arte concettuale e neopop.
La tedesca Katharina Fritsch (1956) ha invece riproposto con un preciso intento simbolico gli oggetti banali della vita casalinga, quali pentole, coperchi, scodelle e vasi, ricolorandoli a tinte brillanti. Usare colori accesi, inconsueti per questa categoria di oggetti, è una manovra artistica concettuale capace di isolare gli utensili in una sorta di astrazione metafisica. Tra i suoi soggetti prediletti, l’artista raffigura spesso animali legati all’immaginario delle fiabe e dei miti.
Le superfici, i colori, le dimensioni e l’ambientazione di queste sculture, elementi su cui la Fritsch pone la sua attenzione in modo quasi maniacale, stridono tanto fra loro da creare nello spettatore una strana tensione fra il “familiare” e l’ignoto, come il polpo, ricreato con estrema precisione nelle sue dimensioni e nei suoi particolari anatomici, poi dipinto di un improbabile colore arancione. Artiste 15. Tra arte concettuale e neopop.
Molto interessante è anche il lavoro dell’artista franco-americana Niki de Saint Phalle (1930-2002), autrice, sin dagli anni Sessanta, di sculture coloratissime, le Nanas, che ricordano figure femminili dalle forme abbondanti e dalle accentuate caratteristiche materne. A partire dal 1979, e fino al 2002, a Garavicchio, in Toscana, questa scultrice ha realizzato un bizzarro Giardino dei Tarocchi, popolato da 22 statue monumentali, alcune delle quali percorribili, in poliestere o in cemento armato e ricoperte da specchi, vetri e ceramiche colorate. Con le sue opere, fantasiose e divertenti, Niki ha voluto celebrare l’aspetto più ludico della vita. «Gli uomini sono molto inventivi. Hanno inventato tutte queste macchine e l’era industriale, ma non hanno alcuna idea di come migliorare il mondo».
La pittrice inglese Jenny Saville (1970) ha fatto parte del gruppo YBAs (Young British Artists) ed è un’artista figurativa di stampo realista, distintasi per i suoi nudi femminili. La pittrice ha infatti molto indagato il tema del corpo, interrogandosi sul tema della bellezza fisica e dell’attenzione ossessiva che la società contemporanea riserva all’aspetto esteriore: l’essere “belle”, cioè magre, costringe infatti molte donne ad autoimporsi diete massacranti ma soprattutto a ricorrere alla chirurgia estetica. Artiste 15. Tra arte concettuale e neopop.
L’artista ha dunque privilegiato immagini di donne non piacevoli a un primo sguardo, almeno secondo i canoni estetici imposti dal mondo della moda e della televisione, ma naturali e come tali “vere”. Ha celebrato la crudezza del grasso, della cellulite, delle smagliature e delle cicatrici, contestando l’idea che un corpo sformato, per esempio dalle gravidanze, non possa essere sensuale. Talvolta, i suoi nudi sono polemicamente percorsi dalle tipiche linee curve, disegnate a pennarello, che i chirurghi plastici eseguono sui corpi prima delle operazioni di riduzione o liposuzione.
L’artista ha voluto affrontare anche il tema della violenza, soprattutto sulle donne e i bambini, un drammatico aspetto della nostra contemporaneità. Hanno fatto scalpore i suoi dipinti di donne selvaggiamente picchiate, spesso in famiglia, alcune delle quali morte a seguito delle percosse. Artiste 15. Tra arte concettuale e neopop.
Stare (Assente), del 2005, è il ritratto di un bambino dall’espressione sofferente, il cui volto è segnato da un vistoso angioma (una “voglia”, nel linguaggio corrente). Saville ha scelto questo soggetto per invitarci a riflettere su come un semplice inestetismo possa provocare dei gravi problemi di autostima negli adolescenti e addirittura ostacolare il loro processo di inserimento nella società.
Nel 2009, la band inglese Manic Street Preachers ha usato il dipinto per la copertina dell’album Journal for Plague Lovers. Il disco è stato censurato: la catena inglese di supermarket Tesco si è rifiutata di esporlo, con la motivazione che quella immagine poteva disturbare la clientela.
Può essere ricondotto a un ambito neo-concettuale il lavoro dell’artista giapponese Chiharu Shiota (1972), allieva di Marina Abramović, che oggi vive e lavora a Berlino, ma realizza le sue opere nei musei e nelle gallerie di tutto il mondo. Shiota è infatti diventata famosa per le sue installazioni site specific, nelle quali avvolge oggetti di uso comune in un fitto e intricato ordito di fili di lana. In queste vere e proprie scenografie, dal significato altamente simbolico, ottenute con un lavoro lungo e paziente, si coglie un senso di abbandono e di conseguente smarrimento: contesti a noi familiari, espressione della vita quotidiana, oppure legati alla dimensione dell’incontro, dello spettacolo, e dunque espressivi di bellezza, appaiono come ricoperti da una fitta ragnatela che li rende drammaticamente inutili e inaccessibili. Artiste 15. Tra arte concettuale e neopop.
Consideriamo In silence, una suggestiva installazione del 2008. Un pianoforte e le sedie intorno sono stati fagocitati da una massa lanuginosa. Laddove prima c’era la musica, fonte sublime di armonia, adesso c’è il silenzio, come recita il titolo. È una calma forzata, luttuosa: non la quiete della meditazione, che dà pace, ma l’assenza di suoni, tipica della cessazione della vita. È importante, e, nel contempo, inquietante, la domanda che l’artista si pone, e ci pone, attraverso opere del genere: l’uomo, che nei millenni della sua civiltà ha saputo (anche) creare così tanta bellezza, è oggi incapace di rinnovarla, tutelarla? Sta davvero abbandonando tutto, rinunciando alla sua identità? È questo il destino dell’umanità?
Altrettanto complessa e articolata è l’installazione The event of a thread dell’artista Ann Hamilton (1956), realizzata a New York nel 2012. In un grande spazio coperto, una serie di eventi comprendenti letture e suoni invitavano i visitatori a relazionarsi l’un l’altro. Il pubblico aveva a disposizione 42 altalene, abbastanza ampie da ospitare due o anche tre adulti, collegate a una grande cortina bianca. L’uso delle altalene provocava il movimento della cortina e creava un sistema interconnesso dove tutto pulsava all’unisono.
Installazioni come queste hanno lo scopo di superare i confini fra arte e vita. È anche questo l’obiettivo, sia pure scaturito da un intento più ludico e poetico, che sta alla base dell’operazione artistica condotta dalla giapponese Yayoi Kusama (1929), che ha realizzato l’installazione The Obliteration Room proponendola in vari musei del mondo. Dentro una stanza ammobiliata dove tutto era assolutamente bianco, al pubblico venivano consegnati dei cerchi adesivi colorati di varie dimensioni, che ognuno aveva la libertà di attaccare dove preferiva.
Rapidamente, l’ambiente che prima appariva asettico si è trasformato in una esplosione di pois, dall’esito cromatico irresistibile. Lo spazio reale della stanza è stato completamente trasfigurato diventando uno spazio-colore onirico e psichedelico. Kusama, nella vita privata, vive un disagio molto profondo: soffre di allucinazioni e disturbi ossessivo-compulsivi, provocati da violenze domestiche. Come Louise Bourgeois, Kusama ha tuttavia sublimato la sua sofferenza attraverso l’arte, proiettandosi in un mondo fatato dove tristezza e dolore sono banditi.