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L’Ascensione, assieme alla Pasqua e alla Pentecoste, è una delle solennità più importanti del calendario ecclesiastico. Celebra il momento in cui, secondo gli Atti degli apostoli, quaranta giorni dopo la sua resurrezione, Cristo ascese al cielo. «Fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”. Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino permesso in un sabato» (Atti Prologo-1, 9-12).
Di questo evento parla anche il Vangelo di Luca: «Poi il Signore condusse i discepoli fuori e alzate le mani li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo» (Lc 24, 50-53).
L’evento avvenne quindi nel Monte degli Ulivi, presso Gerusalemme. Sul monte fu poi edificata una chiesa, nel 390 (quella attuale risale all’anno 1150), e secondo quanto riferisce nel XIII secolo Iacopo da Varazze, nella sua Legenda Aurea, il luogo su cui Gesù poggiò i piedi prima di salire in cielo «non poté mai essere ricoperto da un pavimento, e anzi, il marmo saltava in faccia a chi voleva posarlo». Infatti, la chiesa conserva la lastra di pietra su cui si crede siano rimaste impresse le impronte dei piedi di Cristo.
Com’è stato giustamente osservato, l’Ascensione è il momento del ricongiungimento di Cristo al Padre: un “addio” al mondo che va inteso come un “andare verso Dio”, come l’abbandono della dimensione umana in cui si era calato per recuperare quella unicamente divina da cui proveniva. Ovviamente, gli artisti si affidarono alle parole neotestamentarie illustrando l’evento più o meno alla lettera, proponendo l’immagine della salita fisica al cielo di Gesù.
La tipica iconografia dell’Ascensione (abbastanza simile a quella della Trasfigurazione, della Resurrezione e della Pentecoste) prevede che la scena venga divisa in due parti ben distinte: quella superiore con Cristo (assiso su un trono o circonfuso di luce o racchiuso da una mandorla) talvolta affiancato da angeli; quella inferiore con gli apostoli (solitamente undici, mancando Giuda) e con la Madonna. In realtà, la presenza di Maria non è ricordata dalle due fonti (Vangelo di Luca e Atti): tuttavia, ella è da subito presente nelle immagini dell’Ascensione, incarnando la figura della Chiesa stessa, destinata a proseguire l’azione salvifica di Cristo nel Mondo. Infatti, l’atteggiamento di Maria è sempre lo stesso, almeno sino al XV secolo: ella prega, non mostra né stupore né turbamento, reazioni tipicamente umane al manifestarsi del divino tra gli uomini.
Una fra le più antiche raffigurazioni dell’Ascensione si trova nell’Evangelario di Rabbula, detto anche Vangeli di Rabbula, un manoscritto miniato del VI secolo riportante i Vangeli in lingua siriaca.
Si tratta di uno dei primi manoscritti cristiani (anche se nella sua forma attuale è stato forse composto nel XV secolo, unendo parti di testi differenti), dotato di grandi miniature, considerate tra le più preziose testimonianze della prima arte bizantina prodotte in Asia. Tali Vangeli miniati sono così chiamati perché riportano la firma di Rabbula, del quale tuttavia non si conosce la biografia.
Nella scena dell’Ascensione, Cristo, circondato da una mandorla di luce e affiancato da quattro angeli, viene trasportato verso il cielo da un carro rosso, composto da cherubini e dalle quattro figure del Tetramorfo, simboli degli evangelisti. In alto, alle due estremità, la luna (a sinistra) e il sole (a destra) simboleggiano il tempo, di cui Cristo è padrone. In basso, Maria, nella tipica posizione dell’orante, con le braccia aperte, è affiancata da due angeli; attorno a lei, si affollano gli apostoli (qui, nel numero di dodici), che assistono all’evento con fare concitato. Incornicia la scena un motivo decorativo a motivi geometrici.
Tale schema iconografico è ricorrente in tutta l’arte bizantina e lo ritroviamo sia nelle icone di età medievale sia nei mosaici che a tali icone si ispirano, come quelli della Basilica di San Marco a Venezia e del Duomo di Monreale, risalenti al XII secolo.
Anche le icone dei secoli successivi ripropongono tale consolidata iconografia. Ad esempio, l’Icona dell’Ascensione, purtroppo rovinata, del pittore e miniaturista russo Andrej Rublëv (1360-1430) ripropone l’immagine di Cristo che sale al cielo, assiso nel suo cerchio di gloria, simbolo dell’universo, e sostenuto da angeli. Altri due angeli vestiti di bianco affiancano Maria e parlano agli apostoli, che con gesti contenuti esprimono il proprio stupore.
La Madonna compie gesti dal consolidato significato simbolico: la sua mano sinistra, con il palmo aperto rivolto verso l’esterno, detta “mano dell’ubbidienza”, manifesta la totale disponibilità ad accogliere la volontà di chi è superiore. Maria, simbolo della Chiesa, accetta dunque l’ordine di Cristo di proseguire la sua opera sulla Terra e invita, con la propria mano destra, Pietro a fare altrettanto. Sullo sfondo, un sintetico paesaggio roccioso è punteggiato di alberelli.
Il “tipo di Rublëv” dell’Ascensione ebbe un tale successo da essere riproposto in numerosi esemplari e con minime varianti, ancora per molti secoli.
In Occidente, fu Giotto (1267-1336), pittore rivoluzionario, a rompere con questo consolidato modello iconografico. Nella sua Ascensione, dipinta tra gli affreschi della Cappella degli Scrovegni a Padova, infatti, propose l’audacissima soluzione di mostrare Cristo di profilo, e non frontalmente, sospinto verso l’alto da una nuvola (quella citata dagli Atti degli Apostoli) e con le mani tagliate in alto dal bordo della cornice, in quanto prossimo a uscire dal campo visivo del fedele che osserva il dipinto. Un’idea geniale.
Com’era sua consuetudine, Giotto vuole coinvolgere l’osservatore, farlo sentire partecipe dell’evento, come se si trovasse sul posto al momento in cui questo avviene. Affiancano Gesù due schiere simmetriche composte da angeli e patriarchi biblici. Altri due angeli, sotto Gesù, spiegano ai presenti il significato di quanto sta accadendo. Maria, inginocchiata, prega con le mani giunte. Anche gli apostoli (che correttamente sono undici) contemplano la scena con atteggiamento composto.
Durante il Rinascimento, furono molti gli artisti che affrontarono il tema dell’Ascensione. Tra questi, il grande pittore padovano Andrea Mantegna (1431-1506), che la dipinse in uno dei pannelli di un trittico, forse un tempo destinato alla cappella privata del marchese Ludovico III Gonzaga, e oggi agli Uffizi, che comprende anche l’Adorazione dei Magi e la Circoncisione. La differenza di formato dei tre pannelli lascia aperto il dubbio che le tavole siano state concepite per il medesimo ambiente ma non come trittico.
Il dipinto con l’Ascensione è, paradossalmente, meno innovativo dell’analogo soggetto giottesco, che il Mantegna certamente ben conosceva. La scena è infatti concepita secondo uno schema assai rigido e severo, quasi neobizantino, chiaramente finalizzato ad esaltare la dimensione mistica dell’episodio. Cristo ascende al cielo saldamente stante su una nuvola di consistenza quasi rocciosa (una soluzione non inconsueta, nella pittura di Mantegna), circondato da una mandorla di cherubini, mentre benedice con la mano destra e tiene con la sinistra la bandiera crociata. In basso, la Madonna prega nella posizione dell’orante e gli apostoli contemplano l’evento con sguardi rapiti. Il paesaggio, brullo e roccioso, si staglia contro un cielo azzurro maculato da bianche nuvolette.
Anche il grande maestro umbro Perugino (1445/50-1523) dipinse un’Ascensione, negli anni 1496-1500, come scomparto centrale dello smembrato Polittico di San Pietro. Essendo stata oggetto dei furti napoleonici durante la campagna d’Italia, la tavola si trova, infatti, a Lione, assieme alla sua cimasa semicircolare che rappresenta Dio Padre benedicente con cherubini e angeli.
Come voleva la tradizione, Cristo ascende al cielo nella sua mandorla di cherubini, circondato da angeli musicanti. In basso, Maria e gli apostoli, compostamente e affettuosamente atteggiati, si stagliano sul sereno paesaggio umbro. Perugino era infatti solito organizzare i propri personaggi sacri in gruppi armonicamente calibrati e conferire loro pose aggraziate ed eleganti.
È assai probabile che quest’opera riproponga il modello del perduto affresco con l’Assunta, che Perugino aveva realizzato per la Cappella Sistina e che poi venne distrutto per far spazio al Giudizio Universale di Michelangelo. D’altro canto, Perugino ripropose tale schema pressoché identico nell’Ascensione della Pala di Sansepolcro e con qualche variante anche nell’Assunzione della sua Pala di Vallombrosa.
Si lega al prototipo di Raffaello della Trasfigurazione, invece, l’Ascensione di Benvenuto Tisi da Garofolo (1476/81-1559), detto il Garofalo, un pittore della scuola ferrarese che amava firmarsi con una piccola riproduzione del fiore (il garofalo o garofano) che aveva assunto per nome d’arte. Dipinta per la chiesa di Santa Maria in Vado a Ferrara, si caratterizza per la saldezza delle sue forme. Cristo, sospeso in cielo, ostenta un corpo atletico e muscoloso; gli apostoli, in basso, si accalcano severi seguendo uno schema piramidale. Manca la Madonna. I colori, freddi e sfumati, mostrano l’influenza della scuola veneta.
Verso la fine del XVI secolo, il pittore veneziano Jacopo Robusti (1518-1594), conosciuto come Tintoretto, dipinse un’Ascensione potentemente espressiva, secondo il suo stile. Egli stava infatti rinnovando la pittura veneta attraverso l’utilizzo di alcuni elementi figurativi propri del Manierismo, rendendo la tipica tavolozza veneta ancora più scura e fantasiosa e usando tutte le gamme del marrone, del viola, del rosso scuro, del verde scuro, del blu. Vasari lo definì «il più terribile cervello che abbia mai avuto la pittura», volendo sottolineare la sua originalità.
La vasta Ascensione del Tintoretto venne dipinta per la Sala grande di San Rocco, a Venezia. La composizione è affollata e concitata. Cristo ascende come risucchiato da un gorgo di angeli e nubi, in un turbinìo d’ali taglienti e puntute, fra l’agitare di rami di palma e d’ulivo. La figura del Cristo, nonostante la forzata torsione del corpo, appare quasi frontale, in tutta la sua potenza, e già volge lo sguardo verso il cielo che sta per raggiungere, ignorando gli attoniti apostoli che, in basso, in secondo piano, assistono alla scena come smarriti. La figura in primo piano con un grande libro in mano è quella dell’Evangelista Luca, autore anche degli Atti, che non fu apostolo di Cristo né lo conobbe di persona. Per questo, egli è mostrato isolato dal gruppo. Le due figure che, ignare di quanto sta accadendo, passeggiano al centro della composizione potrebbero essere dei discepoli evangelizzatori.
Anche il pittore olandese Rembrandt (1606-1669), giustamente considerato come uno dei massimi pittori della storia dell’arte europea, affrontò il tema dell’Ascensione concependo una composizione intensa dai fortissimi contrasti chiaroscurali. Gesù, di bianco vestito, con gli occhi e le braccia al cielo viene sospinto, da un gruppo di putti, verso un dardeggiante Spirito Santo. La luce fortissima che investe il Cristo sembra, in realtà, emanata dal suo stesso corpo.
Gli apostoli disposti a circolo, gesticolanti o in preghiera, restano immersi nell’oscurità che sembra risucchiarli verso il basso. Da quel buio in cui gli uomini paiono franare, emergono anche scarse testimoniante di paesaggio, come la palma a sinistra quasi sradicata. La distanza tra mondo umano e mondo divino non era mai apparsa così tanto drammatica e incolmabile.
L’età moderna, a partire dal XVIII secolo, è stata poco incline alla rappresentazione del sacro. Il Novecento, in particolare, ha mostrato attenzione soprattutto per temi e problemi riconducibili a una dimensione laica e sociale. Eppure, Salvador Dalí (1904-1989), nella seconda fase della sua carriera, a partire dagli anni Cinquanta, quando l’esperienza surrealista era stata sostanzialmente lasciata alle spalle, indugiò ad affrontare temi religiosi, certo reinterpretandoli alla sua maniera. Così è per la sua Ascensione, del 1958, in cui Cristo viene inquadrato attraverso una inconsueta prospettiva dal basso, potremmo dire quasi “mantegnesca” (se pensiamo al celeberrimo Cristo morto del Mantegna).
Seminudo, Gesù ascende al cielo, con le braccia aperte come al momento della crocifissione, verso due luminescenti globi, giallo il primo e bianco il secondo, verso lo Spirito Santo, nella sua tradizionale forma di colomba, e verso una sbalorditiva figura di Dio Madre che sta per accoglierlo commossa. Ella ha il volto di Gala, amatissima sposa di Dalí nonché sua musa ispiratrice, colei che, come Beatrice per Dante, lo guida alla ricerca della Verità, che si identifica con l’Amore. È questa la prima e più emblematica delle invenzioni presenti in questo dipinto.
La seconda è data dal globo giallo, che un cuore granuloso rende simile a un atomo, che è l’essenza stessa della materia, capace di sprigionare, se scisso, un’energia potentissima, come aveva tragicamente dimostrato la bomba atomica. Nel contempo, esso ricorda anche un girasole, fiore divino per eccellenza, in quanto simbolo della venerazione di Dio, unica fonte di salvezza.
Grazie per questa Sua analisi sull’argomento, di grande valore didattico : mi ha fatto riflettere ed imparare! Con cordialità Franca
Sono felice. Grazie a Lei per l’apprezzamento
Grazie
La ricerca artistica al servizio del Sommo bene .
Questa impostazione avvicina al mistero di Dio.
Buona domenica