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Nel 1959 fu organizzata presso il MoMA (Museum of Modern Art) di New York la mostra dal titolo assai significativo: New Images of Man, ‘Nuove Immagini dell’Uomo’. L’esposizione accolse le opere di alcuni artisti figurativi, americani ed europei, dove la figura umana apparve proposta con un linguaggio completamente nuovo. Il titolo della mostra era dunque assai pertinente, perché di questo, alla fine, si trattava: di nuove immagini. O, piuttosto, delle immagini di una umanità nuova. Bacon e Giacometti: se questo è un uomo.
Protagonisti sono infatti uomini, donne, vecchi e bambini che sembrano reduci da una terribile esperienza, che sembrano portare sulle loro spalle il peso di una sofferenza insostenibile. Il teologo Paul Tillich, nel saggio introduttivo del catalogo, scrisse alcune riflessioni illuminanti: «Ogni periodo ha una sua particolare modalità per rappresentare l’uomo. […] L’umanità non è solo qualcosa che l’uomo ha. È qualcosa per cui l’uomo deve combattere nuovamente ogni volta. […] Tutte queste opere d’arte sono le tracce di una battaglia per la figura umana che [questi artisti] vogliono riscoprire. […] Loro combattono disperatamente per la figura dell’uomo, e, suscitando disagio e fascino nell’osservatore, comunicano la loro propria umanità, minacciata ma sempre in lotta».
Questa nuova corrente figurativa è comunemente conosciuta come Nuova Figurazione e raggiunse i traguardi più interessanti in Europa; i suoi principali esponenti furono Francis Bacon e Alberto Giacometti.
Francis Bacon (19091992), irlandese ma trapiantato a Londra, fu un “pittore maledetto” per eccellenza. Nevrotico, solitario, alcolizzato, omosessuale dichiarato (fu cacciato di casa a 16 anni, per questo motivo), uomo dalla personalità complessa al limite del disturbo psichico, con un morboso interesse per la malattia e la menomazione (nel suo studio vennero ritrovate immagini di bambini deformi o mutilati), Bacon è stato certamente uno degli artisti moderni più affascinanti e controversi. Pur dedicando tutta la sua vita e la sua arte alla raffigurazione dell’uomo, è stato l’artefice di una pittura figurativa sui generis.
Dalla fine del secondo conflitto mondiale, Bacon iniziò ad accanirsi sulle sue figure, diventando l’interprete più sensibile del disagio e dell’angoscia esistenziale che stavano segnando l’esordio del dopoguerra. Riempì le sue tele di figure isolate contro un fondo buio oppure piatto, freddo e ostentatamente razionale: ingabbiate, urlanti, deformi, schiacciate, smembrate, talvolta sfilacciate, come sciolte nell’acido. Umanoidi, più che uomini. Eppure, spesso si tratta di uomini d’affari, vestiti con abiti eleganti, la maggior parte delle volte pure committenti dei suoi quadri.
Per quanto possa apparire paradossale, egli si definì, artisticamente, un realista. Certo, non alla maniera di Manet o degli impressionisti. Il realismo in arte, spiegò Bacon, non deve necessariamente confondersi con la semplice volontà di tradurre in immagini verosimili ciò che esiste oggettivamente. Secondo lui, il realismo, nella sua espressione più profonda, è sempre soggettivo. D’altro canto, esistono anche realtà nascoste, interiori, che un pittore (come fosse un veggente) ha, suo malgrado, la facoltà di riconoscere e il dovere di mostrare.
Un artista, quando dipinge, deve andare oltre la cortina dell’apparenza, oltre la superficie del visibile, per catturare l’insieme delle sensazioni che il reale suscita in lui. E renderle manifeste. Dire la verità: questo è il suo compito; anche quella più agghiacciante, anche quella che nessuno vorrebbe mai vedere. «Ho sempre sognato di dipingere il sorriso, ma non ci sono mai riuscito», fu la sua tragica confessione.
L’artista privilegiò sempre la rappresentazione di personaggi profondamente tragici, dilatati, stirati, lacerati, vittime di un’angosciata trasfigurazione formale e psicologica. Le sue figure sono la più alta espressione contemporanea del mal di vivere, del degrado fisico e morale, della devastazione interiore: una condizione propria di chi è sull’orlo di un baratro e sta per precipitare. Tutta la pittura di Bacon, esistenziale ai limiti della patologia estetica, è disperata; tutta la sua pittura è urlante. Le sue figure macerate, contorte e dal volto tumefatto, scarnificato, sfigurato, i suoi nudi e persino gli autoritratti e i ritratti vogliono descrivere la condizione dell’uomo moderno, mostrandone la nudità dell’anima, lo smarrimento, l’incapacità di riscattarsi.
Dilaniato dalla seconda guerra mondiale, privato di valori e di prospettive, l’uomo di Bacon è senza speranza. L’artista non aveva fede, non credeva nell’esistenza oltre la morte, non intravedeva possibilità di salvezza eterna. La vita, usava dire, è insensata, priva di significato, è una corsa verso la morte ineluttabile, oltre la quale è il nulla. La morte ci accompagna, è dentro di noi, ci mangia da dentro giorno dopo giorno. Iniziamo a morire nel momento stesso del nostro concepimento: la vita è un drammatico e irreversibile conto alla rovescia. Questo pensava Bacon e questo voleva mostrarci.
E il ricorso frequente alla forma-trittico delle sue opere, di chiara derivazione religiosa, era solo un modo ironico e beffardo di denunciare la vana illusione di chi si ostina a credere alla trascendenza, la quale viene invece negata, a suo dire, dalla “brutalità delle cose”. Egli sentiva l’imperativo, quasi morale, di spiegare che l’uomo «è solo un caso, un essere completamente futile, che deve giocare il suo ruolo senza ragione». Nelle sue tele, la decomposizione dei corpi si fa metafora di una caduta spirituale che riguarda tutti, l’umanità intera.
Non è forse, la nostra, l’epoca dell’Olocausto, dei campi di concentramento, di Hiroshima? «Bacon – spiegò Michel Leiris, scrittore surrealista e amico dell’artista – non polemizza, non vuol provare nulla. […] Si limita a guardare il mondo così com’è, e non può non dipingere quella che è la nostra verità profonda: l’angoscia. […] Bacon intende esprimere la profondità delle cose. E dietro l’apparenza vi è solo questo: l’orrore. La verità non è gaia, se solo la si guarda con un minimo di lucidità. Non è lui il responsabile di tutto questo. E non è un idealista. Coloro che non vogliono guardare in faccia la verità sono banali».
Anche la ricerca di Alberto Giacometti (1901-1966), scultore e pittore svizzero di origini italiane, si orientò verso la rappresentazione della figura umana. Fu solo alla fine degli negli anni Quaranta che l’artista iniziò la sua produzione più tipica, fatta di figure scarnificate, logorate dalle sofferenze della vita (eppure ostinatamente in piedi, cocciutamente in cammino), lunghissime e filiformi, e dalla superficie grumosa, quasi corrose da una drammatica tensione, disfatte e cancellate dallo spazio che le circondano. Così piccole e fragili, talvolta, che si potrebbero sbriciolare fra le dita.
La loro estrema stilizzazione rimanda a certe sculture etrusche note come “ombre della sera”, enigmatiche immagini di morte. E tuttavia, non era necessario scomodare la cultura etrusca per trovare ispirazione: le tragiche testimonianze, artistiche e fotografiche, dei lager nazisti erano di per sé un modello ineludibile.
I misteriosi personaggi di Giacometti sono di norma fissi, immobili e rigidamente frontali, esilissimi ma con enormi piedi ancorati al suolo; le loro immagini sono in qualche modo perfino solenni, nonostante la magrezza scheletrica e le braccia serrate contro il corpo.
Non di rado, sono mostrati nell’atto di camminare. Certo sembra quasi incredibile che questi esseri così larvali, dalle gambe così fragili e sottili siano in grado di muoversi. E in effetti, talvolta vacillano, inciampano, sono sul punto di cadere e, forse, frantumarsi. Niente può apparirci più lontano dalla fisicità, dall’energia, dall’espressione della gioia, della speranza, dalla capacità di fare, dalla volontà di vivere e non solo di lasciarsi vivere.
Questa rappresentazione dell’angoscia e della solitudine dell’uomo esprime la problematica di una filosofia esistenzialista. D’altro canto, Giacometti era amico di JeanPaul Sartre (1905-1980), filosofo, scrittore e drammaturgo francese, il quale considerava esplicitamente la sua scultura come il versante artistico dell’Esistenzialismo, una corrente di pensiero (affermatasi tra la fine degli anni Venti e i Cinquanta) che insisteva sul carattere precario dell’esistenza. Anzi, giudicava Giacometti l’artista esistenziale per eccellenza, capace di esprimere «l’unità nella molteplicità infinita, l’assoluto nella relatività pura, l’avvenire nel presente eterno».
Sono stati grandissimi artisti coraggiosi delle proprie scelte.