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Nel 1623 salì al soglio pontificio Maffeo Barberini con il nome di Urbano VIII. Il pontificato di quest’uomo, coltissimo e ambizioso, si sarebbe rivelato fondamentale per lo sviluppo delle arti a Roma e in particolare per la fortuna di Gian Lorenzo Bernini (1598-1680), destinato a diventare incontrastato protagonista della stagione barocca. Infatti, Maffeo conosceva bene il giovane artista, all’epoca impegnato a scolpire le Statue Borghese, e secondo Baldinucci (biografo del Bernini), uno dei primi atti ufficiali del pontefice fu proprio la convocazione di Gian Lorenzo in Vaticano.
Pare che Urbano VIII abbia affermato: «È gran fortuna per voi, o cavaliere, di veder papa il cardinal Maffeo Barberino, ma assai maggiore è la nostra, che il cavalier Bernino viva nel nostro pontificato».
Questa celebre frase testimonia quanto grande fosse, nel quadro dei propri programmi di governo, l’importanza attribuita da questo papa alle arti figurative. Urbano, continua Baldinucci, «aveva concepito in sé stesso una virtuosa ambizione, che Roma nel suo pontificato giungesse a produrre un altro Michelangelo». E difatti, come già era accaduto tra Giulio II e Buonarroti, anche tra Urbano VIII e Bernini si stabilì un profondo rapporto di intenti e anche una sincera amicizia; l’artista seppe magistralmente interpretare, e tradurre in immagini, le ambizioni politiche e personali, le idee, le intuizioni del suo mecenate, nonché la sua volontà di celebrare la Chiesa cattolica romana.
Già nel 1624, Bernini divenne responsabile unico delle committenze papali e nel 1629, alla morte di Carlo Maderno, fu nominato architetto della Fabbrica di San Pietro. Con questo ruolo, egli portò a termine la realizzazione di un grandioso ciborio, il cosiddetto Baldacchino di San Pietro, già iniziato nel 1624 su incarico di Urbano VIII e ultimato nel 1633.
Il Baldacchino, primo vero e proprio banco di prova per l’artista, avrebbe dovuto coprire l’altare maggiore posto al centro della crociera, sotto la cupola di Buonarroti, uno dei nodi spaziali più impegnativi dell’intera basilica; uno spazio immenso, che avrebbe schiacciato, visivamente, qualunque opera avesse accolto.
La soluzione di adottare un ciborio per nobilitare l’altare di una chiesa era stata assai praticata sin dal Medioevo, e a Roma si potevano ammirare le magnifiche opere gotiche di Arnolfo di Cambio.
Tuttavia, ogni progetto di ciborio proposto per la Basilica di San Pietro era apparso, sino ad allora, come mortificato dal gigantismo della chiesa michelangiolesca. Bernini aggirò l’ostacolo sostituendo alla tradizionale edicola architettonica un baldacchino processionale smisuratamente ingrandito che, alto quasi 30 metri, si può equiparare a un palazzo di dieci piani. Coronato da un finto cielo di stoffa, con tanto di falde pendenti di bronzo, dette pendoni, e nappe che riproducono fedelmente la consistenza della stoffa (al fine di richiamare un baldacchino tradizionale), il ciborio è coronato da quattro volute angolari foggiate “a dorso di delfino”, animate da angeli e putti.
Bernini non volle far sostenere alle quattro colonne una vera e propria trabeazione (che avrebbe ridotto o addirittura annullato l’effetto di moto rotatorio che ogni “vite” suggerisce), a cui preferì quattro monconi di trabeazione. Le colonne tortili, ossia a spirale, che reggono l’enorme struttura sono in bronzo decorato con episodi festosi di putti che giocano, tralci di alloro, lucertole e con le api, emblema araldico della famiglia Barberini.
Dopo aver compiuto il Baldacchino, Bernini si occupò della decorazione della crociera, ossia l’incrocio della navata centrale con il transetto dove si trovano i grandi piloni michelangioleschi che sostengono la cupola. Nei registri inferiori dei quattro piloni si trovano grandi nicchie, dotate ciascuna di una grande statua (altra più di tre metri).
Da ogni nicchia si può accedere ad una cappella destinata ad ospitare una delle (presunte) reliquie conservate nella basilica: il Volto Santo (rimasto miracolosamente impresso sul panno con cui Veronica asciugò il volto di Cristo), un frammento della Croce, la punta della lancia di Longino (quella con cui venne trafitto il costato di Gesù crocifisso), la testa di sant’Andrea apostolo. L’accesso alle cappelle è permesso solo ai canonici della basilica.
Le sculture dei personaggi legati alle reliquie (Veronica, Sant’Elena, che scoprì la Vera Croce, Longino e Andrea) vennero realizzate per iniziativa del Bernini, che tuttavia si riservò l’esecuzione del solo San Longino, affidando la Veronica a Francesco Mochi (per il primo pilone a sinistra, rispetto all’altare maggiore), la Sant’Elena ad Andrea Bolgi (nella cappella successiva, in senso orario), e il Sant’Andrea a François Duquesnoy. La testa di sant’Andrea non si trova più in Vaticano perché fu restituita da Paolo VI a Patrasso, da dove era arrivata, per mantenere una promessa fatta da papa Pio II. Le altre tre reliquie sono, oggi, tutte raccolte nella cappella della Veronica.
Nel rappresentare Longino, il legionario romano che trafisse con la sua lancia il costato di Cristo, Bernini immaginò l’uomo subito dopo la sua conversione, privo di corazza e di elmo. La sua figura è fortemente dinamica e i gesti compiuti sono enfatici e teatrali. La grande scultura venne ricavata assemblando insieme almeno tre blocchi di marmo.
Nei registri superiori dei quattro piloni, Bernini ricavò le cosiddette Logge delle reliquie (1633-41), ossia le loggette destinate all’esposizione delle reliquie. Qui l’artista riutilizzò, per sostenere delle edicole, otto colonne tortili del basso impero, appartenute all’antica basilica paleocristiana, riprendendo così, in circolo, il motivo delle colonne del Baldacchino. La scelta costituì un segno di continuità, dunque un parallelo tra il massimo tempio della prima cristianità e il massimo tempio della Chiesa moderna trionfante.
Le soluzioni formali del Baldacchino e la strettissima relazione che questo intesse con i piloni della crociera fanno sì che un simile “oggetto” non tema confronti con l’architettura, perché in fondo non le appartiene. La scelta del bronzo, la soluzione della finta stoffa che pare mossa dal vento, i particolari figurativi dei tralci e degli insetti ne fanno, di fatto, più una gigantesca scultura che una vera e propria struttura architettonica.
Dall’altro, però, il Baldacchino non risulta del tutto estraneo alla struttura michelangiolesca, perché con essa è in grado di relazionarsi. Bernini, infatti, evitò di far competere il Baldacchino con la ciclopica architettura di Michelangelo ma “proiettò” su di essa il suo principale motivo formale, quello della colonna tortile, in quattro direzioni e quindi nello spazio intorno. D’altro canto, il motivo della colonna tortile, della vite, suggerisce in sé stesso un’idea di moto rotatorio e quindi di un’espansione, progressiva e spiraliforme.
Francesco Borromini (1599-1667), l’altro grandissimo protagonista della stagione barocca, che era stato collaboratore di Carlo Maderno, fu incaricato di affiancare Bernini nell’impresa del Baldacchino di San Pietro, in qualità di primo assistente. È legittimo supporre che Francesco, in quanto pupillo ed erede artistico del Maderno, si aspettasse la nomina di Architetto della Fabbrica di San Pietro, titolo che fu invece assegnato da Urbano VIII a Bernini. Iniziò dunque, tra Francesco e Gian Lorenzo, un breve periodo di collaborazione; tuttavia, per la profonda diversità di temperamento, gusto e cultura, fra i due nacquero presto dei dissapori, che li avrebbero resi acerrimi rivali per il resto della vita.
In realtà, la vicenda del litigio avvenuto sotto la cupola della Basilica è stata chiarita dagli studiosi solo in tempi molto recenti, con la scoperta di alcuni disegni autografi di Borromini. Pare infatti che il ruolo di Francesco nella progettazione e nella realizzazione del Baldacchino sia stato tutt’altro che marginale. Per esempio, siamo ragionevolmente certi, grazie ad alcuni disegni borrominiani conservati all’Albertina di Vienna e a Windsor Castle, che l’idea del coronamento con le volute a dorso di delfino sia stata di Borromini e non di Bernini. D’altro canto, il motivo delle volute a dorso di delfino è tipicamente borrominiano e lo ritroviamo in altre sue opere.
È chiaro che fra i due giovani artisti, quasi coetanei ed entrambi di talento (ma uno offuscato dall’altro, oltre che peggio pagato), non poteva correre buon sangue. Fu così che, sbattute (per così dire) le porte di San Pietro, nel 1634 Borromini iniziò la sua attività indipendente di architetto.
La costruzione del Baldacchino è legata alla vicenda dell’espoliazione del Pantheon, l’unico tempio romano, nonché edificio antico che si era mantenuto quasi perfettamente integro. Fu per iniziativa di Urbano VIII che vennero asportate gran parte delle sue decorazioni bronzee, soprattutto la travatura in bronzo del pronao, che nascondeva alla vista le capriate.
Era obiettivo del papa ricavare del prezioso metallo da usare sia per i nuovi cannoni di Castel Sant’Angelo sia per il colossale Baldacchino di San Pietro. È convinzione comune, quindi, che il baldacchino berniniano sia stato realizzato con il bronzo del Pantheon. In realtà, pare che l’artista, non conoscendo la lega usata dai romani, si fosse poi rifiutato di utilizzare quel bronzo.
A questo episodio è comunque legata la celebre frase satirica di Pasquino, Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini, ossia: «quello che non fecero i barbari, fecero i Barberini», proprio in riferimento a papa Urbano VIII Barberini che aveva dato l’ordine di strappare l’antico bronzo al Pantheon, un glorioso edificio che perfino i barbari avevano rispettato.