Versione audio:
Puoi ascoltare il mio podcast su: Apple Podcasts | Google Podcasts | Spotify | Cos'è?
Nel 1866, il pittore Édouard Manet (1832-1883), reduce dagli scandali che aveva provocato esponendo Le déjeuner sur l’herbe e poi l’Olympia, venne a scoprire che al Salon esponeva anche un pittore con il nome quasi uguale al suo e che il pubblico li confondeva: si trattava di Claude Monet. Irritato, volle conoscerlo. Il bar delle Folies-Bergère di Manet.
L’incontro avvenne qualche mese dopo, in un bar. Monet si presentò con Renoir, Manet con Degas. Da allora, i quattro iniziarono a frequentarsi regolarmente. Qualche anno dopo, nel 1870, Manet iniziò a dipingere all’aria aperta, sollecitato da Monet, utilizzando colori molto più chiari e trasparenti che nelle sue opere di esordio, distribuiti con pennellate più leggere. Alcuni elementi di un linguaggio più propriamente impressionista emersero, tuttavia, solo a partire dal 1874; nell’estate di quell’anno, infatti, Manet trascorse molto tempo in compagnia di Monet e Renoir ad Argenteuil.
I più giovani colleghi lo influenzarono, sia nella tecnica adottata sia nella scelta, sempre più frequente, di soggetti urbani. Benché Manet non sia mai entrato ufficialmente a far parte del gruppo impressionista, e benché mai egli abbia esposto assieme ai suoi amici pittori, è ugualmente lecito parlare di una fase “impressionista” della sua pittura. A tale fase, appartiene un suo celebrato capolavoro: Il bar delle Folies-Bergère.
Un locale alla moda
era, ed è tuttora, un celebre locale parigino, un che si trovava a pochi passi da rue la Fayette. Nato con il nome di Folies Trévise, e inaugurato nel 1869, ebbe uno straordinario successo durante la Belle Époque. Vi si tenevano spettacoli di varietà, operette, concerti di canzoni popolari. Star del locale era la ballerina americana Loïe Fuller, una di quelle danzatrici che contribuì a creare la danza moderna, con le sue suggestive coreografie in cui agitava lunghissimi veli. Il Folies-Bergère divenne presto un ritrovo della ricca borghesia parigina e sappiamo che Manet lo frequentò assiduamente, come, peraltro, i suoi amici impressionisti e Toulouse-Lautrec. Ristrutturato nel 1926, ancora oggi presenta la sua bella facciata Art Déco.
Il bar delle Folies-Bergère
Il bar delle Folies-Bergère, dipinto tra il 1881 e il 1882, fu uno degli ultimi quadri di Manet. Venne realizzato in studio dopo un lungo lavoro preparatorio, sulla base di bozzetti eseguiti all’interno del locale. L’artista era già malato e portò a termine l’opera tra grandi sofferenze fisiche; presentò il dipinto al Salon del 1882, ricevendo un’accoglienza, come sempre, piuttosto tiepida.
Infatti, Il bar delle Folies-Bergère, secondo l’uso impressionista, è una brillante tranche de vie, ossia uno spaccato di vita vissuta. Degas e Renoir erano stati dei veri maestri nel realizzare questo genere di soggetti. Anche Manet, tuttavia, riuscì a «strappare alla vita moderna il suo lato epico», come suggeriva il suo amico Baudelaire, e con assoluta capacità. Il poeta, tra l’altro, sosteneva che «un vero pittore […] ci farà vedere e sentire quanto siamo grandi e poetici nelle nostre cravatte e nelle nostre scarpe lucide».
Egli, infatti, sosteneva che la pittura moderna dovesse descrivere la modernità; senza indulgere troppo nella storia e nel mito; una posizione che vide l’artista completamente d’accordo. Tutte le sue opere, e soprattutto quelle della maturità, testimoniano il costante interesse dell’artista per la gente comune, incontrata ogni giorno a Parigi. In accordo con i colleghi impressionisti, Manet riteneva che i parigini rappresentassero la vera modernità; per questo egli trasse la sua ispirazione dagli eventi e dalle persone del proprio tempo e del proprio paese e si distinse per la sua straordinaria abilità nel cogliere la particolarità di quanto è normalmente considerato banale.
La barista e lo specchio
Il bar delle Folies-Bergère inquadra un angolo del locale dov’era organizzato il bar. Una barista, splendidamente ritratta con l’espressione assente, sta in piedi dietro al bancone e davanti a un grande specchio, che riflette quanto si trovava davanti a lei, ossia il salone illuminato dai grandi lampadari e anche i clienti del locale seduti ai tavolini: uomini del bel mondo con i loro cappelli a cilindro neri e signore eleganti munite di binocolo, intente a guardare lo spettacolo ma più probabilmente a spettegolare. Tutti, infatti, sembrano ignorare la trapezista, della quale s’intravedono appena le gambe all’estrema sinistra del quadro. Si distinguono, nella massa quasi indistinta dei clienti, un uomo e una giovane donna vestita di chiaro e con i lunghi guanti gialli che conversano; probabilmente, lei è una prostituta e sta contrattando il prezzo della sua prestazione.
Suzon
Della barista conosciamo il nome: Suzon. Era una vera cameriera del Folies-Bergère che accettò di posare per il pittore. La giovane porta i capelli biondi pettinati secondo la tipica acconciatura à la chien, ossia raccolti dietro in una coda e con una frangetta che arriva fino al livello delle sopracciglia. È vestita elegantemente, come si conveniva per lavorare in un locale prestigioso e ben frequentato come quello: l’abito nero, dotato di un’ampia scollatura bordata di merletto, è stretto alla vita da una lunga fila di bottoni. La ragazza porta alle orecchie due piccoli orecchini, al collo un collarino con nastro e cammeo, all’avambraccio destro un braccialetto dorato e si è appuntata sulla scollatura un delizioso bouquet di fiori.
Contrasta con questa sobria eleganza l’atteggiamento un po’ sgraziato, poco femminile secondo le convenzioni dell’epoca, dell’appoggiarsi al marmo del bancone, tipico di chi si tiene pronto a muoversi per servire il cliente. Un atteggiamento che tradisce le origini popolane della giovane.
Suzon ha una espressione malinconica e l’artista la coglie in un attimo di sospensione, come immersa nei suoi pensieri, come se avesse approfittato di un momento di inattività per chiudersi nel proprio mondo interiore. Ciò contrasta con il contesto, che immaginiamo chiassoso e caotico. Non facciamo fatica a riconoscere nel volto della ragazza un certo disagio, a trovarsi lì in un posto che la vede socialmente estranea, a compiere un lavoro che probabilmente non ama, a servire persone che magari in cuor suo disprezza, che trova boriose e supponenti, e che molto probabilmente le parlano in modo asciutto e sbrigativo se non addirittura scortese.
Un gioco prospettico
È solo una illusione, insomma, che la barista rivolga lo sguardo verso di noi che osserviamo il dipinto. Il riflesso sullo specchio, d’altro canto, nega definitivamente questa possibilità, con un effetto curiosamente spiazzante. Infatti, la prospettiva usata dall’artista, falsata ad arte, ci permette di vedere nello specchio allo stesso tempo la donna di spalle e l’uomo che si avvicina e che sta per rivolgerle la parola. Fu l’ultimo esperimento di Manet, e probabilmente il più riuscito, sul rapporto tra spettatore e immagine. In effetti, la posizione rigorosamente frontale della donna dovrebbe far sì che la sua immagine si sovrapponga a quella riflessa; tuttavia, bisogna considerare che il vero punto di vista della scena è più angolato.
La natura morta
Gli oggetti del bar in primo piano testimoniano anche della maestria di Manet come pittore di nature morte. Vediamo, alle due estremità, alcune bottiglie di champagne e di liquore e anche un paio di birre inglesi, di una marca molto apprezzata nella Parigi dell’epoca (con il triangolo rosso sull’etichetta); al centro spicca un calice in cui la ragazza ha immerso due rose dalle tonalità lievemente rosate e aranciate e, accanto, ammiriamo una fruttiera di cristallo colma di arance e ricca di riflessi luminosi.
La tecnica
Come si vede, la tecnica utilizzata da Manet è molto prossima a quella dei suoi amici impressionisti. Abbandonata la costruzione dell’immagine per grandi macchie di colore, soluzione già di per sé rivoluzionaria e adottata nei primi anni Sessanta, qui la scena è composta da una miriade di pennellate, che soprattutto nella parte riflessa nello specchio creano le figure in modo approssimativo, lasciandole indistinte e affidando all’occhio il compito di ricomporle. Certo, osservando il quadro da vicino tutto appare veramente molto confuso e non stupisce che il pubblico dell’epoca, abituato al miniaturismo lenticolare della pittura accademia, potesse rimanere sconcertato.
Ma se contempliamo l’opera alla giusta distanza, quelle pennellate creano lo straordinario effetto flou di uno specchio antico, che non ha la medesima capacità riflettente degli specchi moderni, e rende molto veritiero il rapporto di messa a fuoco tra ciò che si trova in primo piano e quanto resta sullo sfondo. Inoltre, la resa della folla indistinta, che richiama la strepitosa soluzione del Moulin de la Galette di Renoir, è di una tale efficacia che sembra quasi di sentire il festoso mormorio dei clienti e la musica di sottofondo.
L’ostilità della critica
Poco prima di morire, a soli 51 anni, Manet apostrofò l’influente critico di «Le Figaro», Albert Wolff, con il consueto spirito provocatorio: «Non mi dispiacerebbe leggere finalmente, mentre sono ancora vivo, il meraviglioso articolo che mi dedicherete non appena sarò morto». In verità, Wolff non fu così generoso con il pittore scomparso: «Morire a cinquant’anni, lasciando due opere eccellenti che meritano di essere ammesse tra le espressioni dell’arte francese, è per un artista gloria sufficiente». Non sapremo mai quali “opere eccellenti” di Manet, secondo il critico, erano degne di entrare al Louvre: probabilmente, non questa. Tuttavia, è chiaro che anche Wolff aveva ampiamente sottovalutato l’arte di questo straordinario pittore.