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La Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, collocata sulla sommità del colle Esquilino, è una delle quattro basiliche papali della Città Eterna, ed anche la più grande dedicata alla Vergine Maria, e per questo motivo è nota con l’appellativo di “Maggiore”. Nonostante le successive manomissioni, si presenta come la meglio conservata di epoca paleocristiana. Fu fatta erigere da papa Sisto III tra il 432 e il 440. La costruzione fu avviata su una chiesa precedente della metà del IV secolo, che la tradizione voleva fosse stata la Madonna stessa ad ispirare, facendo nevicare ad agosto proprio sopra quell’area. Per questo, l’edificio è noto anche come Basilica Liberiana (da Papa Liberio che avrebbe fatto costruire l’edificio precedente) o come Santa Maria della neve.
La basilica, nel tempo, ha subito alcuni interventi, anche se nel complesso ha conservato il suo impianto originario. Per questo motivo, essa si presenta grosso modo come doveva apparire all’epoca della sua costruzione ed essendo una delle più antiche di Roma riesce a restituirci anche l’aspetto delle basiliche pagane di cui ripropone la tipologia.
Verso la fine del XIII secolo, papa Niccolò IV (1288-1292) fece aggiungere un transetto, appena sporgente dai muri laterali, con la conseguente distruzione dell’antica zona absidale e la costruzione di una nuova abside, più ampia ed esternamente poligonale. Nel XV secolo, la navata centrale fu decorata da un ricco soffitto a cassettoni. Tra Cinquecento e Seicento, infine, si interruppe la continuità della trabeazione aprendo due arconi di passaggio a nuove cappelle laterali: la grande Cappella del SS.Sacramento, o Cappella Sistina, e la Cappella Paolina.
Gli ultimi interventi sulla basilica risalgono al XVIII secolo. Durante il pontificato di Benedetto XIV, l’architetto Ferdinando Fuga, tra il 1741 e il 1743, realizzò una nuova facciata, che si sovrappone a quella originaria, con un grande portico e da una loggia per le benedizioni. È del Fuga anche il grande baldacchino dell’altare maggiore, eretto su colonne di porfido e realizzato su modello di quello barocco di Bernini per la Basilica di San Pietro.
In origine, la Basilica di Santa Maria Maggiore presentava una semplice pianta rettangolare a tre navate. Quella principale era coperta da un soffitto a capriate ed era conclusa da un’abside semicircolare. I due colonnati, costituiti da 22 colonne di spoglio ciascuno, presentano capitelli ionici e sostengono una trabeazione continua, secondo la tradizione architettonica greca e romano-imperiale. La sequenza degli archi su colonne, presente invece nella coeva Basilica di Santa Sabina, sempre a Roma, costituì una novità tardoimperiale.
La chiarezza delle forme architettoniche delle basiliche paleocristiane è l’espressione simbolica della semplicità e dell’armonia che regna nella comunità dei fedeli. Le due file di colonne, il motivo architettonico portante di tutta l’architettura, fungono da pareti-filtro e dividono lo spazio interno in parti gerarchicamente organizzate; ma sono anche direttrici dello sguardo, che va sempre direttamente al tabernacolo; scandiscono ritmicamente il percorso verso l’altare, accompagnando il cammino del fedele verso Dio. L’altare è, insomma, il punto di fuga visivo e la meta ideale di un percorso obbligato, di un cammino di progressiva e simbolica purificazione.
La chiesa è anche un funzionale ambiente di riunione, un’aula magna, una ecclesia per eccellenza. La luce del sole vi gioca un ruolo primario: il grande spazio della navata centrale – su cui un tempo si aprivano, in corrispondenza degli interassi di ogni coppia di colonne, 21 finestre per lato (la metà delle quali oggi risulta tamponata) – è illuminato direttamente da una luce chiara e uniforme che colpisce le ampie superfici coperte dai mosaici, lambisce le colonne e rischiara le piccole navate laterali.
La continuità fra mondo pagano e cristiano è testimoniata nel campo delle tecniche dal grande favore che incontrò, nell’arte paleocristiana, il mosaico, affermatosi pienamente con l’inizio del V secolo. Usato in epoca imperiale per decorare i pavimenti delle ville e degli edifici pubblici (e, più raramente, pareti e fontane), il mosaico cominciò a ricoprire le pareti dei nuovi templi cristiani fino a invadere interamente l’architettura, trasformando le chiese, i battisteri e i mausolei in ambienti di altissima suggestione, capaci di elevare lo spirito del fedele a una dimensione intensamente spirituale.
Anche la Basilica di Santa Maria Maggiore venne riccamente ornata con mosaici sin dalla prima metà del V secolo, sotto papa Sisto III. È ragionevole che si tratti della più antica decorazione presente a Roma in una chiesa cristiana.
I mosaici dell’arco trionfale mostrano scene piuttosto schematiche dell’Infanzia di Cristo organizzate su fasce sovrapposte e parallele, contro sfondi monocromi che non suggeriscono l’idea di spazio. I personaggi appaiono frontali, il senso dello spazio tende ad annullarsi, le prospettive sono molto approssimative e i fondi quasi piatti.
Nelle navate, sotto le finestre, furono realizzati dei riquadri, in origine racchiusi da edicolette, con Storie del Vecchio Testamento (Storie di Abramo, Giacobbe e Isacco sul lato sinistro, Storie di Mosè e Giosuè su quello destro). In origine i riquadri erano 42 (alcuni presentavano due scene sovrapposte); oggi ne restano solo 27 (12 sulla parete sinistra e 15 sulla destra) perché gli altri sono stati distrutti con le successive ristrutturazioni della chiesa.
Tutti questi mosaici presentano una certa vivacità narrativa e uno stile compendiario ma piuttosto naturalistico. Qui le composizioni sono articolate, le figure hanno ancora pose differenziate e sono dotate di consistenza volumetrica.
In vista del Giubileo del 1300, durante il pontificato del francescano Niccolò IV, alla basilica venne aggiunto il transetto e creata una nuova abside, la cui decorazione venne affidata a Jacopo Torriti. L’artista, intorno al 1295, realizzò una grandiosa Incoronazione della Vergine e una sottostante Dormitio Virginis, considerate tra le prove migliori di mosaico duecentesco in Italia. Nello stesso periodo, Filippo Rusuti, come il Torriti esponente della scuola romana capitanata dal Cavallini, creò i mosaici per la facciata, che oggi risultano nascosti alla vista, dalla piazza, per la presenza della nuova facciata settecentesca del Fuga.
Sempre per volontà di Niccolò IV, all’interno della basilica venne allestito, nel 1291, il primo presepe inanimato della storia, a poco meno di settant’anni dal primo presepe “vivente”, ideato nel Natale del 1223 da san Francesco d’Assisi a Greccio. L’incarico venne affidato allo scultore, e architetto, Arnolfo di Cambio, che realizzò una serie di sculture in marmo (la Vergine con il Bambino, San Giuseppe, i Re Magi, l’asino e il bue), ad altorilievo, per il preesistente Oratorio del Presepe (risalente alla metà del VII secolo), che si affacciava sulla navata destra della basilica, in prossimità dell’altare.
Questo oratorio conteneva le reliquie della Natività, ossia alcuni frammenti della mangiatoia – in cui, secondo la tradizione, Gesù sarebbe stato deposto la notte di Natale – e anche le fasce in cui il Bambino sarebbe stato avvolto alla nascita. Per questo motivo, la Basilica è conosciuta anche come Sancta Maria ad Praesepe. I frammenti della mangiatoia, nel 2019, sono stati riportati a Betlemme.
Si consideri che questo Oratorio del Presepe assunse, per l’Occidente cristiano, il medesimo ruolo della Basilica della Natività a Betlemme, anzi l’intera Basilica di Santa Maria Maggiore venne considerata una “Seconda Betlemme”, diventando meta di pellegrinaggio in occasione delle festività natalizie.
Le reliquie furono conservate nell’antica cappella fino al 1585, quando un nuovo pontefice francescano, papa Sisto V, fece costruire da Domenico Fontana la monumentale Cappella del SS. Sacramento, detta anche Cappella Sistina. L’intero Oratorio venne trasferito nella cripta sottostante alla nuova cappella. Fontana progettò un sistema assai ingegnoso per trasportare l’antico ambiente medievale, racchiudendolo in una gabbia di legno sollevata da carrucole e argani. Nell’Oratorio ricostruito, le sculture di Arnolfo vennero collocate da Fontana in un “nicchio quadro”, ossia una scarsella rettangolare posta alle spalle dell’altare, con un criterio molto distante da quello pensato in origine dallo scultore gotico. La scultura della Vergine, che Arnolfo aveva concepito probabilmente sdraiata, è andata persa in occasioni mai chiarite e venne sostituita nel tardo Cinquecento con quella che attualmente vediamo.