Puoi ascoltare il mio podcast su: Apple Podcasts | Google Podcasts | Spotify | Cos'è?
Nel 1964, Andy Warhol (1928-1987), maestro della Pop Art americana, realizzò una serie di sculture in cui riproduceva fedelmente delle scatole di pagliette saponate per pulire le stoviglie, marca Brillo, in vendita nei supermercati per pochi centesimi: le cosiddette Brillo Box, divenute subito famosissime almeno quanto le sue serigrafie con le lattine di zuppa Campbell.
La critica fece non poca fatica a classificare queste opere. Sculture, propriamente, non sono; ready-made, alla maniera del dadaista Duchamp, neppure, perché non sono scatole originali (anche se identiche nelle dimensioni, nel colore, nella grafica). In questo senso, l’opera di Warhol si colloca sulla scia di quella, appena precedente, del new dada artist americano Jasper Johns.
Sculture o meno, il significato delle Brillo Box è il medesimo delle Green Coca Cola Bottles, in cui Warhol riprodusse in serigrafia l’immagine delle comuni e diffusissime bottigliette della bevanda, ma con un effetto mimetico-spiazzante più efficace.
Quando, nel 1964, Andy Warhol, in occasione di una sua esposizione presso la Stable Gallery di New York, ammucchiò le sue scatole di Brillo poggiandole l’una sull’altra, gli interni della galleria d’arte assunsero l’aspetto di un supermercato.
Dalle Brillo Box di Warhol è partito uno dei più autorevoli critici d’arte americani, Arthur Danto (1924-2013), considerato anche un filosofo contemporaneo, per una riflessione sullo stato dell’arte oggi. Nella sua opera Oltre il Brillo Box. Il mondo dell’arte dopo la fine della storia (2010), Danto considera le Brillo Box come il discrimine storico-artistico di una nuova era, in cui ogni cosa si può convertire in arte, e di fatto sancisce la fine dell’arte medesima. Danto riprende, infatti, la tesi del «procedere dell’arte al di là di sé stessa» già formulata dal filosofo tedesco Friedrich Hegel (1770- 1831) il quale, nella raccolta intitolata Estetica (1835), aveva, di fatto, introdotto nel dibattito filosofico il problema della “morte dell’arte” o della “fine dell’arte” (Hegel, in verità, parlò di “scioglimento” dell’arte).
La questione di partenza è la seguente: perché le scatole di Brillo contraffatte da Andy Warhol sono “arte” mentre le originali acquistabili al supermercato non lo sono? Se due cose risultano percettivamente identiche, perché una è un’opera d’arte mentre l’altra resta semplice oggetto? È una domanda che si può porre, a maggior ragione, a proposito di un qualunque ready-made dadaista o neodada. Il motivo di tale differenza non andrà ricercato negli oggetti in sé, evidentemente, ma dovrà risiedere altrove, ossia in una proprietà concettuale, rigorosamente indifferente alla percezione.
Le scatole di Brillo sono un detersivo; le Brillo Box di Warhol sono una sua rappresentazione, per quanto fedelissima. E hanno un titolo, “Brillo Box”, mentre, nel caso del detersivo, “Brillo” è solo una marca. In quanto rappresentazione, e in quanto dotate di titolo, le Brillo Box sono soggette a una qualche interpretazione, che può essere la stigmatizzazione ironica della società dei consumi, la quale idolatra il mondo delle merci, o, al contrario, l’apologia del consumismo.
In tutto questo, è chiaro che l’estetica non riveste più alcun ruolo nella definizione dell’arte. Dunque, secondo Danto, l’arte, almeno quella tradizionalmente intesa, è giunta alla fine della propria storia. L’arte contemporanea è diventata una forma di filosofia dell’arte, che ignora il ruolo dei sensi, dei sentimenti, della bellezza e del gusto, e conferisce importanza solo a fattori concettuali. L’arte vale solamente in quanto tale. Lo aveva detto, Hegel: «l’arte è e rimane per noi, quanto al suo supremo destino, una cosa del passato».
Difficile fare un commento sentito,il solo pensare la fine dell’arte, in considerazione quando tutto è arte nulla è arte. Il pensare che solo l’idea, senza manufatto dall’artista, senza tecnica, senza partecipazione diretta della costruzione dell’opera, senza il suo continuo gioco nella ricerca del linguaggio, senza il rapporto della composizione nello spazio della tela come spazio dell’anima, senza senza sensazioni della scoperta, della ricerca, senza l’ebrezza dell’impasto magico dei colori, senza la gestualità della pennellata, della spatola, dello scalpello. Tutto questo lo cancelliamo dalla vita dell’uomo di cui ne è testimone da millenni? Per dare spazio a dei filosofanti. credino pure quel che vogliano ma non sarà mai possibile la fine di tutto questo.
Gilberto Carpo pittore, scultore maestro d’arte