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Durante gli ultimi mesi della sua vita, trascorsi dolorosamente a Napoli, esiliato, braccato, in attesa di una grazia che gli avrebbe concesso di tornare nella sua amata Roma, Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610) dipinse alcune tele che si possono considerare come una sorta di suo testamento spirituale. Esse testimoniano lo stato di prostrazione e di paura in cui l’artista si era ridotto. Sappiamo che in ottobre venne perfino aggredito da alcuni sicari, rimanendo ferito e sfigurato. Di lì a poco, nel luglio del 1610, sarebbe morto a Porto Ercole, quasi certamente nella solitudine e nella disperazione. Caravaggio: il David e le ultime opere.
Il David con la testa di Golia, forse dipinto alla fine del 1609, è certamente l’opera più intima, personale e toccante di tutta la sua carriera. Il giovane eroe d’Israele sbuca da un buio cupo e inquietante, vero e proprio gorgo infernale che sembra volerlo inghiottire, e porge allo spettatore il capo mozzato del gigante. La testa di Golia, segnata da rughe e ferite, abbrutita dal dolore, spaventosamente umana nella sua sofferenza, è l’ultimo angosciato autoritratto dell’artista. Notiamo la crudele, impietosa rappresentazione della fronte ferita, sulla quale si raggruma il sangue, dell’occhio sinistro in cui si coglie una fugace scintilla di vita, della bocca aperta che congela l’ultimo respiro mostrando i denti ingialliti. Caravaggio: il David e le ultime opere.
Il volto di David potrebbe essere quello turbato e malinconico di Cecco, il fedele amico con cui Caravaggio aveva condiviso il successo degli ultimi anni romani, che molto probabilmente per qualche tempo volle seguirlo nel suo esilio, prima di iniziare una carriera in proprio come pittore. Oppure, secondo una recente interpretazione, è anch’esso un ideale autoritratto, di un Caravaggio stavolta giovane che guarda dolorosamente la triste fine che gli viene riservata, che contempla un destino avverso che si era messo di traverso ai sogni di gloria e di fama.
D’altro canto, sulla lama della spada che David stringe in mano si possono leggere le lettere “H-AS OS”, acronimo del motto agostiniano Humilitas Occidit Superbiam, l’umiltà uccise la superbia. Questo dipinto, che oggi si trova presso la Galleria Borghese, venne probabilmente inviato dall’artista al potentissimo cardinale Scipione Borghese, assieme alla preghiera di intercedere per lui al fine di ottenere la grazia così agognata.
Il Martirio di sant’Orsola
Appartiene al gruppo delle ultimissime opere dipinte da Caravaggio a Napoli anche il Martirio di sant’Orsola, commissionatogli dal banchiere genovese Marcantonio Doria per essere poi spedito nella città ligure. Secondo alcuni studiosi, potrebbe trattarsi proprio dell’ultima opera dipinta dal Merisi. Il dipinto appare infatti realizzato in tutta fretta e per accelerare il processo di asciugatura della vernice venne anche esposto al sole, come attesta chiaramente un documento.
Caravaggio scelse di affrontare il momento più drammatico della vicenda della santa e di rappresentare l’istante esatto in cui una freccia le trapassa il petto: un fermo immagine di incredibile potenza comunicativa. Pochi artisti, al pari di Caravaggio, seppero fermare l’attimo del divenire di una scena con tale efficacia. Come di consueto, tutti i protagonisti vestono gli abiti seicenteschi; la scena, cioè, viene ambientata nel presente, al tempo della realizzazione del quadro. Attila, il celebre sovrano unno vissuto nel V secolo, ha qui le sembianze di un vecchio soldato, protetto da una robusta armatura metallica.
Orsola, una fanciulla delicata e dal pallidissimo incarnato, guarda attonita la freccia che l’ha appena colpita. Attorno a lei si accalcano diversi personaggi maschili, uno dei quali tende la mano, come a tentare istintivamente di fermare la freccia assassina. Tutte queste figure riempiono lo spazio della tela rendendolo angusto, claustrofobico, quasi senz’aria. Il secondo spettatore da destra, la cui testa sbuca come a voler vedere cosa stia succedendo, potrebbe essere un ennesimo autoritratto dell’artista. Egli è così vicino alla santa, i loro corpi sono talmente prossimi che quasi pare la freccia abbia colpito anche lui. Il tema della morte che lo braccava stava andando oltre la semplice premonizione psicologica, diventava una vera e propria ossessione.
Sappiamo che, nell’ultimo viaggio che avrebbe dovuto restituirgli la libertà e che invece lo consegnò a un ben più triste destino, Caravaggio portò con sé tre dipinti, oggi riconosciuti in una Maria Maddalena in estasi, un Buon Pastore (un tempo identificato come il Battista) e un San Giovanni Battista sdraiato. Erano, questi quadri, destinati a chi si stava interessando per fargli concedere la grazia tanto sospirata.
Del dipinto Maria Maddalena in estasi esistono almeno otto copie, e per anni gli studiosi hanno cercato di capire quale fosse l’originale. Sappiamo che Caravaggio lavorò a questo soggetto la prima volta nel 1506, subito dopo la sua precipitosa fuga da Roma, seguita all’uccisione di Ranuccio Tomassoni, e prima del suo arrivo a Napoli. È molto recente, del 2014, il riconoscimento, ad opera di Mina Gregori (una studiosa di Caravaggio di altissimo livello), della tela oggi riconosciuta come autografa: quella, conservata presso una collezione privata, dotata di un biglietto, forse scritto dal Caravaggio stesso, che riportava la seguente scritta: «Madalena reversa di Caravaggio a Chiaia ivi da servare pel beneficio del Cardinale Borghese di Roma».
Accurate analisi scientifiche hanno confermato questa attribuzione. L’ipotesi è che Caravaggio dipinse il quadro nel 1606 ma vi rimise mano nel 1610, con l’intento di consegnarlo a Scipione Borghese.
Maddalena, giovane e bella, è mostrata a mezza figura, seduta ma inclinata verso destra, dunque parzialmente distesa, con le dita delle mani intrecciate, la testa reclinata all’indietro, gli occhi appena dischiusi così come la bocca, totalmente rapita dal suo dialogo interiore con Cristo. Una luce violenta la colpisce: è la tipica luce caravaggesca, ancora una volta eletta a metafora della luce della Grazia, che si posa su tutti i peccatori in virtù della misericordia divina. Un tempo, dallo sfondo scuro emergevano elementi vegetali, come arbusti e fogliame. Fu probabilmente lo stesso Caravaggio a decidere di coprirli di nero, per rendere la scena più drammatica e intensa, e forse anche per dare maggior risalto al tema della penitenza, collegandolo alla propria persona.
Su quella barca che lo portava lontano da Napoli, verso l’agognata Roma, Caravaggio portava con sé anche il dipinto del Buon Pastore, da sempre identificato, grazie ai documenti antichi, con un giovanissimo san Giovanni Battista. Mancano, tuttavia, i tipici attributi iconografici di questo santo, come le pelli di animale, il verbasco, la croce, la ciotola, il cartiglio con la scritta “ecce agnus dei”, e soprattutto l’agnello o l’ariete, qui sostituiti da una pecora appenninica, dotata di corna. Ciò spiega la recente proposta di un nuovo titolo.
Questo quadro fu sicuramente dipinto per Scipione Borghese, come forma di ringraziamento per l’opera di persuasione che questi stava conducendo presso il papa. Il potente cardinale, allora ministro di Giustizia, si sarebbe potuto facilmente riconoscere nella figura del pastore che si cura delle proprie pecore, secondo la celebre parabola evangelica, laddove l’artista che chiedeva perdono è da identificarsi, simbolicamente, nel placido animale alle sue spalle. Questo, brucando i pampini della vite eucaristica, può ritornare alla vita, proprio come Caravaggio sperava per sé.
Il terzo dipinto che sappiamo l’artista stava portando a Palo, rappresentante, questo sì, un san Giovanni Battista, è stato a lungo considerato disperso. Oggi la proposta è di riconoscerlo nel San Giovanni Battista disteso conservato in una collezione privata di Monaco. Un’ipotesi avvincente ma non ancora condivisa. Il santo è mostrato appena adolescente, avvolto nel consueto drappo rosso (tanto frequente nelle opere di Caravaggio), disteso in meditazione o in contemplazione, contro un brullo paesaggio roccioso appena vitalizzato da poche piantine. Accanto a Giovanni, notiamo la canna crociata poggiata per terra.
È davvero difficile ricostruire gli ultimi giorni di Caravaggio, sia per le poche informazioni in nostro possesso, sia per le circostanze della sua morte, tanto improvvisa quanto misteriosa, che certamente alimentano la tentazione di fornirne versioni fantasiose e romanzesche. Caravaggio: il David e le ultime opere.
Saputo che papa Paolo V, per intercessione di Scipione Borghese, stava concedendo la revoca della sua condanna alla pena capitale, spinto da una impazienza che gli sarebbe stata fatale, Caravaggio partì da Napoli, dove abitava nel Palazzo Cellammare, ospite della marchesa Costanza Colonna, imbarcandosi su una feluca-traghetto diretta a Porto Ercole, oggi in Toscana. L’idea era, probabilmente, di sbarcare segretamente a Palo, in territorio papale, a circa 40 km da Roma, e di aspettare, protetto dagli Orsini, che la grazia pontificia diventasse ufficiale. Qui accadde, però, l’imponderabile. A Palo, Caravaggio venne sottoposto a fermo per accertamenti e trattenuto in prigione due giorni. Il suo bagaglio, tuttavia, era rimasto sulla feluca, la quale ripartì in direzione Porto Ercole.
Per Caravaggio, una vera tragedia: sulla nave c’erano i tre dipinti che aveva già promesso a Scipione Borghese. Disperato, l’artista raggiunse in modo rocambolesco (forse con una imbarcazione offerta dagli Orsini) la nave a Porto Ercole, per scoprire che questa era già ripartita per tornare a Napoli. E qui, stremato, forse malato di malaria, forse vittima di un’infezione intestinale trascurata, Caravaggio morì, dopo un breve quanto vano ricovero nell’ospedale della Compagnia della Santa Croce. Uno degli artisti più grandi di tutti i tempi concluse la propria vita a soli 39 anni, nell’abbandono e nella solitudine, per essere poi seppellito in una fossa comune.
Perfida è la ricostruzione di Giovanni Baglione, suo rivale, che non mancò di stigmatizzare, nelle sue Vite, una morte ingiuriosa ma coerente con una biografia (a suo parere) dissoluta: «la feluca non ritrovava, sicché postosi in furia, come disperato andava per quella spiaggia sotto la sferza del Sol Leone a veder, se poteva in mare ravvisare il vascello, che le sue robe portava. Ultimamente arrivato in un luogo della spiaggia misesi in letto con febbre maligna, e senza aiuto umano tra pochi giorni morì malamente, come apponto male aveva vivuto».
Non tutti concordano con questa tesi ufficiale. Secondo alcuni studiosi, Caravaggio sarebbe morto a Palo, assassinato da sicari maltesi, con il tacito assenso della Curia Romana. Ipotesi quanto mai improbabile, giacché il suo decesso è registrato in un promemoria scritto dal cancelliere della Compagnia di santa Croce a Porto Ercole: «nel’ospitale di S. Maria Ausiliatrice morse Michelangelo Marisi da Caravaggio, dipintore per malattia». Il materiale per trarne dei gialli storici, dobbiamo tuttavia riconoscerlo, non manca.
Il grande poeta barocco Giovan Battista Marino, suo amico, gli dedicò questi versi:
Fecer crudel congiura,
Michele, a’ danni tuoi Morte e Natura:
Questa restar temea
Da la tua mano in ogni imagin vinta,
Ch’era da te creata e non dipinta;
Quella di sdegno ardea
Perché con larga usura,
Quante la falce sua genti struggea,
Tante il pennello tuo ne rifacea.
(G.B. Marino, Galeria).
E i dipinti? Questi, secondo una ricostruzione, tornati a Napoli sarebbero stati riconsegnati a Costanza Colonna, la quale avrebbe ceduto a Scipione Borghese, per rispettare la volontà di Caravaggio, solo il Buon Pastore. Del San Giovanni disteso venne invece in possesso Pedro Fernandez de Castro, vicerè di Napoli; la Maddalena in estasi, infine, rimase per qualche anno a Napoli, probabilmente presso palazzo Colonna, dove fu copiata prima di essere portata a Roma, ceduta e poi dimenticata. Sino al suo fortuito ritrovamento e riconoscimento, solo pochi anni fa.
Semplice, chiara, esaustiva.
Grazie mille!