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James Ensor (1860-1949), pittore belga, è considerato uno dei grandi maestri del Simbolismo europeo. A partire dal 1884, egli fu uno dei più attivi promotori del Salon des XX di Bruxelles. Insofferente, acuto, caustico, narcisista introverso, respinto da una società che egli considerava ipocrita, Ensor fu un moralista amaro. Abbracciò una posizione di ribellione individuale; usando come armi l’allegoria, la deformazione delle figure, l’aggressività dei colori e soprattutto la concezione trasgressiva delle sue composizioni, attaccò il mondo e la società con spirito anarchico.
Nell’Ingresso di Cristo a Bruxelles, capolavoro del 1888, Ensor profuse il meglio della sua vena satirico-grottesca, producendo un’opera dalla marcata dimensione allegorica, così violenta nel denunciare l’ipocrisia e l’immoralità della società borghese di fine secolo, e così brutale nelle soluzioni stilistiche adottate, che persino gli organizzatori del Salon des XX decisero di rifiutarla.
Sebbene molti critici abbiano cercato in questo quadro riferimenti politici precisi, l’opera sembra concepita solo come una parata carnevalesca, una sfilata irriverente della società contemporanea, una bizzarra sequenza di scherni, smorfie e sberleffi che danno al quadro una crepitante, irresistibile energia satirica.
La tela, vitalizzata dalle acide dissonanze cromatiche, dalla cruda violenza della tavolozza, è popolata da una folla assiepata di soldati, buffoni, prostitute, maschere, scheletri con la tuba da gentiluomini, autorità religiose e civili ridotte a figure burlesche, con i volti deformati, brutali, clowneschi. In questo clima da fiera e da baraccone, travolto dall’eccitazione festivaliera di questi personaggi, Cristo, appena riconoscibile sul fondo e praticamente ignorato da chi lo circonda, procede più indifeso che trionfante in groppa al suo asinello.
Ensor fece spesso sprigionare dalle sue tele un’amara vis comica, una ‘forza comica’, attraverso uno spiccato gusto macabro, con lo spirito della sagra popolaresca. In altri quadri, il pittore espresse la sua vena satirica, la sua esasperata visione critica della società umana, sia adottando la deformazione grottesca sia rappresentando mostri, scheletri e spettri: elementi fantastici e macabri che oggi vengono associati al suo nome e che rimandano con evidenza ai lavori di Bosch e Bruegel, come in Il mio ritratto scheletrico, del 1889, e ancora in Scheletri che si disputano un impiccato o Scheletri che si contendono un’aringa affumicata, due opere del 1891.
Nel ritrarsi con un teschio al posto del volto, Ensor vuole mettere in evidenza che la morte convive con ognuno di noi, anzi è già dentro di noi, e ricordarci in questo modo che con questa condizione di fragilità dobbiamo convivere tutti i giorni.
Autoritratto con maschere, del 1899, è una pantomima di scheletri bardati di piume e di stracci colorati, una fantasia grottesca di maschere e di teschi che dà vita ai suoi umori più acri, mordenti, cinici e patetici allo stesso tempo. L’artista, al centro del quadro, guarda fisso lo spettatore e si presenta come l’unico essere umano “normale” in una folla di mostri: schiacciato e compresso, nella sua condizione di diversità si ritrova irrimediabilmente solo.
Queste maschere bizzarre e mostruose, prive di ogni umanità, che egli amava definire «sofferenti, scandalizzate, insolenti, crudeli e maliziose», hanno dunque un significato enfaticamente simbolico e presentano la vita come una sorta di orrido e grottesco carnevale.
Tutto il mondo poetico di Ensor, fitto di allusioni, simboli, allegorie, è un mondo di commedia assurda, un’esilarante kermesse di contraddizioni e di nonsense. Ensor fu uno dei primi artisti ottocenteschi ad approdare all’anarchismo intellettuale: «Si brucia sempre ciò che si è adorato», scrisse. «Dobbiamo essere ribelli alle comunioni! Per essere artisti si deve vivere nascosti!».
Egli decise di abbracciare polemicamente proprio la solitudine reale, una solitudine critica, spregiudicata, beffarda, che l’artista si costruì a Ostenda, città belga sulla costa del mare del nord, dentro la sua casa, non abbandonandola mai, neppure durante la seconda guerra mondiale, per morirvi all’età di 89 anni. Denunciando con le sue tele la dilagante ipocrisia borghese, Ensor volle dare un senso a questo esilio volontario e conquistare la libertà del proprio spirito: quella libertà che fuori dalla sua casa-prigione si sentiva negata.