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Claude Monet (1840-1926) è stato il più autorevole esponente del movimento impressionista, nonché il più acceso sostenitore di quella vera e propria rivoluzione artistica che l’Impressionismo condusse nell’ultimo scorcio del XIX secolo. Come testimoniano ampiamente le sue opere, Monet fu soprattutto interessato a quanto si imprime sulla retina, non a quello che si sviluppa nella mente umana: volle indagare il processo percettivo, non quello concettuale. Nelle sue tele, i soggetti persero il loro intrinseco valore e trassero ispirazione dalla vita vera, mobile e inafferrabile, non imprigionabile entro forme delineate e contorni definiti. Le Cattedrali di Monet.
Un quadro impressionista di Monet è prima di tutto una suggestiva composizione di vibrazioni luminose, ottenuta attraverso l’adozione di una tavolozza molto semplificata. I brillanti colori dello spettro solare sono usati puri, stesi a piccole pennellate, non mescolati ma giustapposti: è infatti l’occhio di chi osserva da un’adeguata distanza, a compiere la sintesi necessaria. In questo, l’artista fu confortato dai risultati della contemporanea ricerca scientifica nel campo della visione, che stava sconfessando la comune percezione del reale e minando alla base i concetti ormai secolari di materia e forma. Si può, dunque, «parlare legittimamente di scienza del colore in riferimento all’Impressionismo? Se per scienza intendiamo l’interpretazione sistematica degli effetti in relazione alle leggi della natura, la risposta è negativa.
Comunque, ciò non significa che si possa spiegare il colore degli impressionisti senza fare riferimento ai concetti scientifici, siano essi trasmessi dai dipinti di altri artisti o, in termini più generali, derivati da supposizioni comunemente accettate circa la relazione tra luce e colore» (M. Kemp). In altre parole, le leggi ottiche dei colori complementari sono applicate nella pittura di Monet in modo del tutto intuitivo ed empirico, senza il rigore scientifico che avrebbe caratterizzato il successivo Neoimpressionismo di Seurat; i quadri di Monet sono infatti concepiti come giochi di luci e di ombre, dotate di colori propri e dunque capaci di attribuire profondità agli spazi e qualità tridimensionali agli oggetti.
A partire dagli anni Novanta dell’Ottocento, quindi nella fase tarda della sua carriera, Monet si dedicò alla realizzazione di alcune “serie” di dipinti. Nel 1890, iniziò quella dei Covoni, nella quale studiò le variazioni della luce osservando lo stesso soggetto da un punto di vista sostanzialmente invariato. Seguirono le serie dei Pioppi, delle Cattedrali e infine quella delle Ninfee, la più famosa.
Fu tra il 1892 e il 1894 che Monet dipinse le molte riproduzioni della Cattedrale di Rouen, un’imponente costruzione gotica iniziata intorno al 1145 e terminata nel 1250. Studiò questo grandioso monumento in una cinquantina di tele (48 in tutto), al variare delle condizioni atmosferiche, osservandolo in più fasi da punti di vista differenti. Questa ossessiva ripetizione di un medesimo soggetto consentiva all’artista, restio a considerare conclusa un’opera, una continua rielaborazione del tema.
Egli stesso spiegò le ragioni di questa sua pittura in serie. Raccontò che all’inizio aveva programmato di dipingere solo due tele, una sotto il cielo grigio e l’altra durante una giornata di sole. Poi scoprì che gli effetti della luce cambiavano continuamente, con il trascorrere delle ore e anche dei minuti; così, decise di registrare la successione di questi mutamenti in una serie di quadri, destinandone uno ad ogni specifico effetto. Ogni volta che l’effetto della luce cambiava, Monet smetteva di lavorare ad una tela e continuava su un’altra, «in modo da ottenere l’impressione vera di un aspetto della natura e non un dipinto composito». In questo modo poteva raggiungere un effetto di “istantaneità”.
È chiaro che, per quanto ammirasse la magnifica costruzione gotica, Monet non era interessato alla chiesa in sé, né ai suoi specifici caratteri architettonici, anche se si tratta di uno dei più importanti monumenti gotici di Francia, una vera e propria icona nazionale; egli scelse questo soggetto unicamente come un pretesto per indagare le problematiche relative alla luce ed al colore, in quanto colpito dal come i chiaroscuri e gli effetti cromatici della facciata, così plastica e articolata, mutassero al variare delle stagioni, delle condizioni atmosferiche e delle ore del giorno. «Ogni giorno», osservò Monet, «aggiungo e scopro qualcosa che non avevo ancora visto». «Le tele avrebbero potuto essere cinquanta, cento, mille, tante quante i minuti della vita», chiosò, a lavoro concluso, Georges Clemenceau.
Le prime immagini della Cattedrale di Rouen vennero realizzate da Monet nel 1892, durante il suo primo soggiorno nell’omonima cittadina francese dell’Alta Normandia. L’artista, che soggiornava al numero 31 della Place della Cathédrale, aveva posizionato il suo cavalletto sia nel cortile d’Albane, più o meno a nord-ovest della chiesa, sia in una delle stanze dell’appartamento che occupava, con vista sul monumento. A causa di alcuni lavori che dovevano effettuarsi nell’edificio in cui soggiornava, Monet dovette interrompere il lavoro e tornare temporaneamente a Giverny, dove abitava abitualmente.
Qualche settimana dopo, tornò a Rouen per riprendere la sua serie e questa volta scelse come punto di vista il camerino di un ex negozio di lingerie, molto vicino alla sua precedente abitazione. Nel 1893, si trasferì al numero 81 di rue du Grand-Pont, dove realizzò le ultime tele della Cattedrale. Le diverse inquadrature della chiesa, nelle varie tele della serie, dipendono proprio da queste differenti fasi esecutive.
Le tele più famose vedono la facciata dell’edificio parzialmente inquadrata, leggermente di scorcio, con l’ampio portale centrale in basso affiancato dai due ingressi minori, il grande rosone visibile in alto, i pilastri e le guglie sovrastanti. Le due grandi torri laterali, tagliate superiormente e lateralmente, si intravedono appena.
Nel 1895, Monet espose al pubblico una ventina delle sue Cattedrali. In tale circostanza, Georges Clemenceau (1841-1929), un importante e colto esponente politico (era anche giornalista e autore di libri di storia, filosofia ed estetica), destinato a diventare l’uomo più potente di Francia nel primo Novecento, scrisse una recensione della mostra. Clemenceau, che da pochi anni era diventato amico dell’artista, osservò con grande acume critico: «Sono entrato nella galleria di Durand-Ruel per vedere ancora una volta con tutta calma gli studi della cattedrale di Rouen che avevo già avuto la gioia di vedere nello studio di Monet a Giverny, ed ecco che questa cattedrale dalle molte facce l’ho portata via con me, senza sapere come. […]
L’oggetto, di per sé privo di luce, riceve dal sole la vita, e ogni capacità di impressione visiva. Ma le onde luminose che lo avvolgono, che lo penetrano, che lo fanno irradiare nel mondo, sono in perpetua turbolenza: sciabolate di lampi, nebbioline di luce, tempeste di splendore. Che sarà del modello sotto questa furia di atomi viventi attraverso la quale traspare, attraverso la quale ci è manifesto, grazie alla quale, per noi, “esiste” realmente?
Ecco ciò che adesso va necessariamente visto, ciò che la pittura deve esprimere, ciò che l’occhio deve scomporre e la mano ricomporre. […] Per tutto il tempo che il sole resterà su di lei, ci saranno tanti modi di essere della cattedrale di Rouen quante scansioni del tempo l’uomo sarà in grado di effettuare. L’occhio perfetto li distinguerebbe tutti perché si riassumono in vibrazioni percettibili anche per la nostra retina. L’occhio di Monet, precursore, ci precede e ci guida nell’evoluzione visuale che rende più penetrante e più sottile la nostra percezione del mondo».
In una lettera del 1899, Clemenceau scrisse a Monet: «Ho potuto giudicare che in voi l’uomo è all’altezza dell’artista, e non è cosa da poco. Voi ritagliate dei pezzetti di cielo e li gettate in faccia alla gente. Niente sarebbe così stupido come dirvi grazie: non si ringrazia un raggio di sole».
articolo molto interessante