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Festival di Sanremo del 1958. Vince, a sorpresa, Nel blu, dipinto di blu, presentato da Domenico Modugno (1928-1994) in coppia con un quasi sconosciuto Johnny Dorelli (1937).
Il brano, scritto da Modugno con il paroliere Franco Migliacci (1930), rompeva tutti gli schemi all’epoca consolidati del mondo della canzone leggera e, nello specifico, festivaliera. Musica, arrangiamento e soprattutto testo ne facevano un brano che apparve subito a tutti rivoluzionario. Perfino il finale, secco e privo di enfasi, era diverso da qualsiasi cosa ascoltata prima.
Non meno spiazzante fu la straordinaria interpretazione di Modugno che, intonando il ritornello sul palco del Salone delle Feste del Casinò, spalancò le braccia mimando il gesto del volo: un autentico azzardo, considerando che in quegli anni vigeva la prassi di cantare immobili.
Quel grido liberatorio sembrò spazzare via, in un attimo, la vecchia Italia della difficile ricostruzione postbellica, inaugurando, simbolicamente, il successivo boom economico. «Era un periodo magmatico, ma anche chiuso, noioso, eravamo giovani, volevamo rivoluzionare tutto», ricorda Migliacci. «La canzone corrispondeva a tutte le aperture di quel momento: i satelliti artificiali nello spazio, l’apertura del Festival dei Due Mondi, la stereofonia, sembrava che tutti i sogni si realizzassero».
Ribattezzata subito Volare (titolo con il quale è ancora oggi ricordata), la canzone ebbe un successo planetario. Conquistò la prima posizione della classifica americana per 5 settimane, fu terza classificata all’Eurovision Song Contest del 1958 e nel 1959 vinse due Grammy Awards come Canzone e Disco dell’anno. Reinterpretata da moltissimi artisti nel corso degli anni, Volare è diventata una delle canzoni italiane più famose nel mondo, contendendo questo primato a ‘O sole mio, il classico della canzone napoletana.
Il testo di Volare è visionario e poetico. Il protagonista sogna di ritrovarsi la faccia dipinta di blu e di volare nel cielo “trapunto di stelle”, perdendosi felice nell’infinito. Secondo quanto raccontato di due autori, questa idea venne a Migliacci di fronte a un quadro di Marc Chagall, Le Coq rouge dans la nuit.
In effetti, il testo non solo presenta una impostazione fortemente visiva, e come tale marcatamente pittorica, grazie alla sua sequenza di immagini descritte, ma rivela con evidenza una generale ispirazione chagalliana. È quindi proprio da Chagall che partiamo in questo nostro breve percorso artistico, o forse dovremmo dire volo della fantasia.
Penso che un sogno così non ritorni mai più
Mi dipingevo le mani e la faccia di blu
Poi d’improvviso venivo dal vento rapito
E incominciavo a volare nel cielo infinito
Marc Chagall (1887-1985) è stato il pittore dell’amore ma soprattutto il pittore del volo. Resi leggeri dalla loro capacità di amare, i personaggi dei suoi dipinti vengono letteralmente sospinti verso intensi cieli blu e in essi si librano, solitari o accompagnati da animali reali e fantastici, dai protagonisti delle fiabe, da giovani donne spesso in abito da sposa. Vestiti di bianco (colore della purezza), sospinti da un soffio magico e invisibile, gli uomini di Chagall volteggiano nel cielo blu come palloncini, come aquiloni, come sottili fogli di carta, sorvolando paesi e città, superando distese di cupole o di tetti addormentati, non di rado mostrati con le gambe divaricate, simili a ballerini o saltimbanchi, privati di consistenza corporea, tanto da potersi piegare innaturalmente, con la testa staccata dal tronco o ritrovata sul collo a rovescio.
Il mondo che Chagall raffigura è, nel vero senso del termine, un mondo rovesciato se non addirittura sottosopra. «Molti hanno fatto dell’umorismo sui miei dipinti, soprattutto sui miei quadri con le teste all’ingiù», scrisse l’artista. «Non ho fatto niente per evitare quelle critiche. Al contrario. Sorridevo – tristemente, certo – della meschinità dei miei giudici. Ma avevo, malgrado tutto, dato un senso alla mia vita. Se sei pittore, puoi avere la testa al posto dei piedi, e resterai pittore». Non a caso, infatti, spesso giocò a firmare le opere al contrario.
Volare oh, oh
Cantare oh, oh, oh
Nel blu dipinto di blu
Felice di stare lassù
E volavo, volavo felice più in alto del sole
Ed ancora più su
Mentre il mondo pian piano spariva lontano laggiù
Una musica dolce suonava soltanto per me
Volare oh, oh
Cantare oh, oh, oh
Nel blu dipinto di blu
Felice di stare lassù
Ma tutti i sogni nell’alba svaniscon perché
Quando tramonta la luna li porta con sé
Ma io continuo a sognare negli occhi tuoi belli
Che sono blu come un cielo trapunto di stelle
Negli anni Quaranta, verso la fine della sua carriera, il grande pittore espressionista Henri Matisse (1869-1954), malato e incapace di reggere la matita o il pennello, inventò i papiers découpés (letteralmente, ‘carte ritagliate’), fogli colorati a tempera e ritagliati per formare delle figure: una tecnica che gli permise di «disegnare nel colore». D’altronde, Matisse era nato in una famiglia di mercanti di stoffe e di tessitori e sin dall’infanzia fu sempre bravo con le forbici. Le semplicissime forme ritagliate, liberate dai vincoli della tela, sembrano totalmente dominare e invadere lo spazio circostante. Esse medesime, divenute pura espressione di colore e forma, creano lo spazio, sono spazio.
Icaro è forse uno dei suoi papiers découpés più intensamente poetici. L’opera rivisita il mito classico di Icaro, che munito di ali costruite con piume e cera iniziò a volare ma, avvicinatosi troppo al sole, le fece sciogliere precipitando in mare. Una storia il cui esito drammatico, tuttavia, nella fantasia di Matisse non sembra affatto evocato. Il suo Icaro è un uomo-ombra che non ha le ali e quindi, paradossalmente, non rischia di cadere. Egli, apparentemente incerto e goffo, vola fiducioso verso il cielo sospinto solamente dal suo anelito di libertà, spinto da quel piccolo cuore pulsante, rosso rubino, che ci racconta della sua capacità di amare. Il piccolo cuore, dialogante con le stelle ardenti che tuttavia non bruciano, è il vero protagonista dell’opera. I voli d’artista nel blu, dipinto di blu.
L’artista qui sta omaggiando l’ampiezza del desiderio di infinito dell’uomo, sempre alla ricerca di un compimento, di qualcosa di più grande, capace di soddisfare la sua brama. La parola desiderio proviene dal latino “de-sidere”, che significa “senza stelle”. Noi desideriamo ciò che ci manca, e tale desiderio ci provoca la nostalgia del bene assente spingendoci a cercarlo. L’Icaro di Matisse, ignorando provocatoriamente il significato del mito, diventa quindi simbolo dell’aspirazione dell’uomo al bello, al bene e all’eternità, un’aspirazione che lo spinge costantemente ad esplorare, pieno di speranza, il cielo dell’esistenza. Vecchio e quasi paralizzato, costretto in carrozzina, sopravvissuto a due guerre mondiali, provato, come tanti, degli orrori dell’Olocausto, Matisse contrastò l’ombra scura che aleggiava sull’umanità ribadendo pervicacemente la sua fiducia nella vita.
Volare oh, oh
Cantare oh, oh, oh
Nel blu degli occhi tuoi blu
Felice di stare quaggiù
E continuo a volare felice più in alto del sole
Ed ancora più su
Mentre il mondo pian piano scompare negli occhi tuoi blu
La tua voce è una musica dolce che suona per me
Anche l’arte del pittore e poeta marchigiano Osvaldo Licini (1894-1958), autore di quadri fortemente onirici e intensamente poetici, vede protagonisti cieli sconfinati, abitati da volti di luna e misteriosi personaggi, un po’ uomini volanti, un po’ angeli eroici. Grazie ai suoi miraggi, ai suoi sogni dipinti, frutto di una vera e propria ricerca esistenziale, così potentemente capaci di esprimere un primordiale ma inesausto desiderio di libertà, nel 1958, già alla fine dei suoi giorni, Licini vinse alla Biennale di Venezia l’ambìto Gran Premio per la pittura. «La pittura – scrisse l’artista – è l’arte dei colori e delle forme, liberamente concepite, ed è anche un atto di volontà e di creazione, ed è, contrariamente a quello che è l’architettura, un’arte irrazionale, con predominio di fantasia e immaginazione, cioè poesia». E ancora: «L’arte è per noi di natura misteriosa e non si definisce.
Confessiamo che la bellezza sfuggirà sempre ai nostri calcoli. Ed è bene che sia così. Come tutte le cose della natura, enigmatica, menzognera, bella, ma con frode. L’importante è che la menzogna sia geniale». Leggiamo in una sua poesia: Chi cerca suole mai trovar certezza. | Io cerco spesso senza mai trovarla | una certezza dove poter gettare tutte le forze d’una mia lontana | miracolosa vita forse sognata | forse trascorsa un poco troppo | col cuore nella mano | col cuore e col pensiero nella mano | un poco troppo bella dell’anima | ch’io cerco ancora | senza mai stancarmi | troppo sperando d’incontrarla un giorno.
Gli angeli di Licini hanno ben poco a che spartire con l’iconografia cattolica: solo potenti, atletici, dissacranti. Creature fantastiche e tuttavia umanissime, prive di braccia ma dotate di cuore, talvolta munite di coda, ribelli dunque (ce lo dice l’artista) e tuttavia rassicuranti, niente affatto luciferine. Disubbidienti ma buone, vogliono solo superare i limiti imposti, saltare gli ostacoli frapposti e conquistare il cielo della loro libertà. Ci assomigliano, sono come noi. Siamo noi. Pazzi quando osiamo, grandi perché osiamo. «Che un vento di follia totale mi sollevi», è l’auspicio del pittore.
Raramente, gli artisti del Novecento hanno avuto l’animo e l’inclinazione per raccontare l’amore con tale intensità poetica e soprattutto di celebrare la levità della vita, in un’epoca in cui, effettivamente, l’ombra della tragedia (guerre mondiali, efferate dittature) tendeva a coprire tutto. Tra chi è riuscito nell’intento, merita una citazione il pittore belga Jean-Michel Folon (1934-2005), che fu anche celebratissimo illustratore e apprezzato scultore. Nelle sue tenere immagini acquerellate, spesso attraversate da uomini in volo come gabbiani, Folon ha ricercato «la bellezza nascosta della realtà».
Perseguendo la difficile virtù della leggerezza e con ottimismo ostinato, e perfino ingenuo, egli cercò di guardare il mondo con gli occhi puri di un bambino. «Quando disegnano, i bambini cominciano dal sole e dagli elementi naturali. Anch’io parto dagli elementi più semplici, il mare, un occhio, una nuvola, per scoprire l’incanto del mondo», usava dire. «L’arte è un rifugio. [Io] ho soltanto cercato di fissare i miei sogni, con la speranza che qualcuno ci attacchi i suoi».
Volare oh, oh
Cantare oh, oh, oh
Nel blu degli occhi tuoi blu
Felice di stare quaggiù
Anche in alcune celebri fotografie novecentesche, oramai diventate iconiche, figure e scorci rimandano alla dimensione gioiosamente onirica della fiaba. L’ungherese Martin Munkácsi (1896-1963), il francese Henri Cartier-Bresson (1908-2004), l’americano Richard Avedon (1923-2004) e il francese Elliott Erwitt (1928) hanno saputo cogliere con artistica maestria l’attimo fuggente di un semplice salto. «In realtà, la fotografia di per sé non mi interessa proprio; l’unica cosa che voglio è fissare una frazione di secondo di realtà», disse una volta Bresson. Ed è proprio in quella frazione di secondo, capace di fermare il tempo e di renderlo eterno, che gli uomini e le donne di Munkácsi, Bresson, Avedon ed Erwitt, catturati dagli obiettivi mentre corrono o scavalcano una pozzanghera, restano come intrappolati. Trasformati in ombre senza corpi o in corpi senza ombre, volano per sempre, attaccati ai loro ombrelli, come tante Mary Poppins.
Nel blu dipinto di blu
Felice di stare quaggiù
Nel blu dipinto di blu
Felice di stare quaggiù
Con te
la seguo sempre; lei è coinvolgente ed esaustivo nei suoi commenti…
Come l’incontro, la congiunzione dell’estro di due o tre artisti, uno nell’arte della pittura e l’altro nell’arte della musica, genera una poesia e una musica interpretate in post guerra dove il sogno di libertà e indipendenza lo era in ogni abitante della terra.
Meravigliosa e rivoluzionaria poesia e musica che oggi è conosciuta da tutto il mondo, che non smette mai di emozionare chi la ascolta