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Roma, luglio 1600. Monsignor Tiberio Cerasi, tesoriere di Papa Clemente VIII, acquistò una piccola cappella nella Chiesa di Santa Maria del Popolo, destinandola alla sua sepoltura. Affidò la ristrutturazione architettonica del vano a Carlo Maderno, in quegli anni il miglior architetto di Roma; per la sua decorazione, invece, contattò i due pittori più famosi della città: Annibale Carracci e Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610). Ad Annibale commissionò la pala d’altare con l’Assunta, mentre a Caravaggio richiese i due quadri su tavola per le pareti laterali, con la Crocifissione di San Pietro e la Conversione di San Paolo. Cerasi, grande estimatore del pittore lombardo, lasciò Caravaggio libero di realizzare le opere «ex sui inventione et ingenio», cioè in assoluta libertà, chiedendogli solo di dipingere su tavole di cipresso.
Merisi si impegnò a consegnare le due tavole entro otto mesi dalla stipula del contratto. Nel maggio del 1601, tuttavia, Tiberio Cerasi morì, lasciando a chi avrebbe goduto della sua eredità, l’Ospedale della Consolazione, il “comando” di completare la cappella. Nel maggio 1601, insomma, la ristrutturazione architettonica non era finita; d’altro canto, dopo questa data, la vicenda divenne complicata. Caravaggio fu, come sempre, assai rapido nell’eseguire il proprio lavoro: fin troppo, giacché al momento della consegna, il 10 novembre del 1601, i lavori nella cappella erano ancora in alto mare. Cosicché, gli fu chiesto di tenere le due tavole nel suo studio ancora per un po’.
Intorno a questi due dipinti, però, si è creato una sorta di giallo: siamo infatti certi che non furono mai appesi alle pareti cui erano destinati. Al loro posto si trovano altre due tele con il medesimo soggetto, che Caravaggio medesimo realizzò in sostituzione delle prime e che furono collocate solo nel maggio del 1605. Cosa successe nel frattempo?
Una possibile spiegazione ci viene fornita dal pittore Giovanni Baglione, che nelle sue Vite, pubblicate nel 1642, racconta di come le due prime versioni su tavola di Caravaggio «non piacquero al padrone (e) se li prese il card. Sannesio». Questa clamorosa notizia del rifiuto delle tavole, riferita dal Baglione, non ci convince. Prima di tutto non è riportata da altre fonti seicentesche; poi è molto evasiva e lascia aperte alcune questioni. Infatti, quando si decise di sostituire i dipinti caravaggeschi con le nuove versioni su tela? E, soprattutto, chi lo avrebbe deciso? Quale “padrone”? Cerasi prima di morire o i responsabili dell’Ospedale della Consolazione, suoi eredi, che comunque pagarono regolarmente i quadri nel novembre 1601? Non è invece più probabile che Baglione, il quale odiava Caravaggio, abbia diffamato il collega-rivale?
Cerchiamo una risposta interrogando direttamente le opere. Le seconde versioni sono infatti ancora appese nella Cappella Cerasi e lì si possono ammirare. Le due prime versioni dei dipinti caravaggeschi (sia la Conversione di san Paolo sia la Crocifissione di Pietro) passarono invece di mano in mano diverse volte: furono, effettivamente, acquistate dal cardinale Giacomo Sannesio, che poi a sua volta le rivendette. La Conversione di san Paolo, dopo essere transitata per Madrid, fu in seguito venduta a un nobile genovese e finì, per via ereditaria, nella raccolta della famiglia Odescalchi di Roma, che ancora oggi la possiede. La Crocifissione di san Pietro, presente ancora nel 1691 in Spagna, è andata, invece, sciaguratamente persa. Una sua possibile copia è conservata all’Ermitage di San Pietroburgo.
La prima Conversione di San Paolo, detta oggi Odescalchi, presenta un celebre episodio tratto dagli Atti degli Apostoli. Sappiamo che Paolo non conobbe Gesù, anzi, come tanti altri ebrei, avversò il nascente cristianesimo. Mentre era in viaggio per la città di Damasco, all’improvviso vide una luce dal cielo e cadendo a terra udì la voce di Cristo che gli diceva: «perché mi perseguiti?». Fu così che credette e si fece battezzare. Nella tavola di Caravaggio, in un gran turbinio di figure, Cristo, a stento trattenuto da un angelo adolescente, piomba dall’alto sulla scena, confondendo il vecchio armigero che, disorientato, si difende puntando istintivamente la sua lancia contro un nemico per lui invisibile. Paolo, scalzato dal cavallo imbizzarrito, precipita a terra e con le mani si scherma gli occhi feriti dalla luce divina. Caravaggio aveva adottato un modello di riferimento assai autorevole: la Conversione di San Paolo di Michelangelo, affrescata nella Cappella Paolina. Le due opere hanno infatti in comune la posizione e anche la fisionomia del santo, così come la figura di Cristo che piomba dall’alto. Caravaggio, tuttavia, volle enfatizzare questa presenza divina, trasformandola in uno scontro quasi fisico.
Tornando alle illazioni di Baglione, davvero non si comprende cosa avesse potuto offendere i committenti: forse la figura di Paolo, mostrato avanti negli anni ma con il corpo seminudo di un giovane atleta; forse il Cristo irruente e aggressivo, troppo fisico, anzi così tangibile da spezzare il ramo di un albero mentre si fionda sulla scena; o forse quell’angelo ragazzino che lo abbraccia stretto stretto, colpevole di avere le sembianze di Cecco Boneri, il modello dell’artista che le malelingue volevano fosse diventato anche il suo amante. Queste ipotesi sono tutte molto deboli.
È assai più facile che sia stato Caravaggio medesimo a decidere di ridipingere la scena. Se confrontiamo le due Conversioni di San Paolo ci accorgiamo a colpo d’occhio di quanto siano differenti, da un punto di vista compositivo e stilistico. La tavola Odescalchi è ancora molto legata alla tradizione cinquecentesca; la nuova versione, della Cerasi, ben più rivoluzionaria della sua gemella, è invece esemplare del percorso artistico intrapreso dall’artista nell’ultima fase della sua vita. È lecito pensare che Caravaggio, guardando le tavole appoggiate a un muro del suo studio, le abbia considerate poco rispondenti alle sue nuove idee e soprattutto poco adatte allo spazio angusto della Cappella Cerasi. Gli eredi del cardinale non avrebbero avuto problemi ad assecondare una esigenza artistica dell’autore. D’altro canto, tempo ce n’era.
La seconda versione della Conversione di San Paolo si concentra sull’esatto momento in cui Paolo si converte, prima di diventare apostolo di Cristo. Attenendosi al testo evangelico e differenziandosi dagli esempi precedenti (incluso il suo, quello della prima versione), Caravaggio decise di eliminare dalla scena la figura di Cristo (in fondo gli Atti parlano di una luce e di una voce). A un primo sguardo, l’opera rappresenta una drammatica caduta da cavallo e la mole dell’animale è così prevalente in termini visivi e di spazio che il dipinto, ha scritto ironicamente Roberto Longhi, grande storico dell’arte del Novecento, potrebbe intitolarsi «Conversione di un cavallo». Tuttavia, proprio tanta staticità, tanto silenzio riescono a rendere con forza l’idea della folgorazione che lasciò un segno indelebile nell’anima di Paolo: un fatto «compiuto e compiuto per sempre, incancellabile», chiosa Giulio Carlo Argan, altro grande maestro della storiografia novecentesca.
L’assenza di azione di questa scena caravaggesca è dunque funzionale a rendere visibile la misteriosa circostanza di un incontro con Dio. Un Dio il quale è assente ma solo in apparenza; sono gli occhi sigillati del futuro apostolo a contemplarne la visione, in un rapporto intimo ed esclusivo. La grazia divina, secondo Caravaggio, cala direttamente nel cuore degli uomini. Disarcionato e vulnerabile, ma quasi pacificato, Paolo tiene le braccia spalancate al cielo, come se volesse abbracciare qualcosa o qualcuno, ed è illuminato da una luce che proviene dall’alto e che sembra accarezzare l’animale prima di arrivare a lui: una luce soprannaturale, per nulla violenta, a differenza di quanto il testo evangelico lascerebbe intendere.
E, in effetti, proprio il grande cavallo assume un ruolo inedito da protagonista: ancora ansimante dopo la lunga corsa, si pone di traverso, quasi volesse sbarrare il cammino al futuro apostolo, impedirgli di perseverare nel suo errore, e solleva dolcemente la zampa per non ferirlo. Un tempo, chi cavalcava, guardando gli altri uomini dall’alto, deteneva il potere, aveva una dignità superiore; qui, invece, Paolo è disarcionato, nella polvere, vulnerabile, in balia del suo stesso animale. Ma, sembra volerci dire l’artista, è solo da questa prospettiva apparentemente così sfavorevole che egli è davvero pronto ad incontrare Dio. A volte, per vedere davvero in alto bisogna guardare da molto in basso.
Bella ed interessante.
L’audio è molto comodo, grazie!
Grazie mille!
Bell’articolo, ben fatto e dettagliato
Grazie mille!