Puoi ascoltare il mio podcast su: Apple Podcasts | Google Podcasts | Spotify | Cos'è?
Giotto (1267 ca. – 1336 ca.) fu un impareggiabile caposcuola, uno degli artisti più influenti del Trecento e uno dei capisaldi della storia dell’arte di tutti i tempi. Ricordato soprattutto per i suoi cicli di affreschi, le Storie di San Francesco nella Basilica del Santo ad Assisi, e le Storie di Anna e Gioacchino, di Maria e di Cristo nella Cappella degli Scrovegni a Padova, Giotto fu tuttavia autore di numerose pale d’altare e di crocifissi.
L’iconografia del crocifisso era da anni consolidata; Gesù appeso alla croce aveva già perduto la rigidità innaturale dei primi esempi duecenteschi, in cui veniva mostrato vivo e trionfante sulla morte, e, abbandonatosi alla sofferenza, aveva incurvato il proprio corpo, reclinato la testa e chiuso gli occhi, accettando paziente quel destino di morte che il Padre aveva stabilito per lui. Con Giotto, l’immagine di Cristo in croce subì una ulteriore, profonda trasformazione, testimoniata da una serie di opere replicate quasi in serie ma che all’epoca vennero accolte come una vera e propria rivoluzione artistica.
Fu a Firenze, dove spesso si recò lasciando testimonianze artistiche di altissimo livello, che Giotto dipinse il grande Crocifisso di Santa Maria Novella, databile al 1295 circa, o poco prima, dunque agli anni in cui, giovane, il pittore stava ancora lavorando ad Assisi e alle Storie di san Francesco.
Attraverso quest’opera, Giotto rese ancora più marcata la propria autonomia artistica rispetto a Cimabue, il quale era considerato, a quei tempi, come il migliore pittore italiano di Croci. Il Cristo di Giotto non ha infatti precedenti nell’arte europea, compare nel panorama della pittura occidentale come una folgorazione. Per la prima volta dall’esordio del cristianesimo, Cristo è presentato come un uomo, un uomo “vero”, per giunta inchiodato al patibolo. Gesù, oramai morto, non è più inarcato a destra, come nei crocifissi precedenti, ma piegato in avanti, trascinato dallo stesso peso del suo corpo, in modo del tutto naturale.
Le braccia sono oblique e non più parallele al terreno; le ginocchia sono piegate, i piedi (forati da un solo chiodo) sono correttamente sovrapposti e le mani, a differenza che negli esempi duecenteschi, non sono più rappresentate di piatto, completamente aperte, ma in prospettiva, contratte a cucchiaio e con il pollice davanti al palmo. Il busto, le braccia e le gambe hanno una consistenza volumetrica e muscolare del tutto nuova.
Il bel volto, dagli occhi chiusi e la bocca semiaperta, è visto leggermente di scorcio e non è più appoggiato lateralmente a una spalla. Il sangue schizza dal costato che il colpo di lancia ha appena squarciato; la ferita appare concreta, non è più la simbolica rossa mezzaluna bizantina orlata di goccioline. Il torace è rimasto sotto sforzo per le precedenti difficoltà di respirazione: si comprende osservando il ventre gonfio e le costole che affiorano sotto i muscoli tesi.
Il Crocifisso di Santa Maria Novella è considerato un’opera fondamentale per la storia dell’arte italiana, in quanto si pone come un vero e proprio punto di svolta. Dipingendo il suo crocifisso una cinquantina d’anni dopo quelli di Giunta e una ventina d’anni dopo quelli di Cimabue, Giotto decise, infatti, di rinnovare profondamente l’iconografia del Christus Patiens. In particolare, accostando il Crocifisso di San Domenico di Cimabue e il Crocifisso di Santa Maria Novella di Giotto, quindi due uguali soggetti del maestro e dell’allievo, si comprende con un colpo d’occhio tutta la novità della pittura giottesca.
Il Cristo di Cimabue è un’astratta celebrazione del dolore resa attraverso la schematica rappresentazione di un corpo; quello di Giotto è un nudo realistico, abbandonato in modo naturale. D’altro canto, il realismo di quest’opera rispecchiava perfettamente la lotta che i domenicani, suoi committenti, stavano conducendo contro gli eretici catari, i quali sostenevano che la materia, quindi anche la carne, è di origine diabolica e che Gesù, essendo Dio, ebbe solo in apparenza un corpo mortale.
Per altri aspetti, Giotto scelse di mantenersi fedele alla tradizione: conservò, per esempio, la forma complessa della croce, integrando il palo verticale e i bracci orizzontali con pannelli accessori. Agli estremi dei bracci orizzontali, dunque nei capicroce, si affacciano, come di consueto, i due dolenti, ossia la Vergine e Giovanni Evangelista, mostrati a mezzo busto. Gli scomparti che affiancano il palo verticale sono invece ornati con motivi geometrici che ricordano i disegni di una stoffa. Il piede della croce, trapezoidale, presenta la riproduzione di una roccia.
Questa allude al monte Calvario, la collina appena fuori Gerusalemme in cui era stato piantato il patibolo di Cristo. Si scorgono, in una fenditura, un teschio e alcune ossa umane. Calvario (Golgota in aramaico) vuol dire infatti “luogo del cranio”. Inoltre, secondo un’antica leggenda, la croce di Cristo venne piantata proprio sul luogo di sepoltura di Adamo, primo uomo e artefice del Peccato Originale. Cristo, definito Nuovo Adamo, perché con il suo sacrificio ha riportato la storia dell’umanità al grado zero, bagnando con il suo sangue quelle ossa compì la propria missione salvifica, per la quale si era incarnato ed era morto.
Di poco posteriore al crocifisso fiorentino di Santa Maria Novella è il Crocifisso di Rimini, realizzato da Giotto attorno al 1301-1302 e oggi conservato nel Tempio Malatestiano di Rimini.
Assegnata a Giotto solo negli anni Trenta del Novecento, dal grande storico dell’arte Roberto Longhi, questa Croce è oggi unanimamente attribuita al grande maestro toscano. D’altro canto, è testimoniata dalle fonti la permanenza di Giotto a Rimini, nel periodo intercorso tra gli affreschi di Assisi e la commissione padovana degli Scrovegni. Una tappa importante della sua carriera, purtroppo non certificata da altre opere giottesche, un tempo certamente presenti in città, giacché nel corso del Trecento proprio a Rimini si sviluppò un’importante scuola giottesca.
Rispetto al precedente crocifisso fiorentino, questo riminese presenta una figura di Cristo più snella e un chiaroscuro più morbido e sfumato, già prossimo a quello delle figure padovane del maestro. La croce è giunta a noi mutila di alcune parti, per esempio sono andati perduti il piede e i dolenti dei capicroce, anche se nel 1957 lo storico dell’arte Federico Zeri riconobbe la cimasa rotonda, ossia la parte alta del palo verticale, presso una collezione privata londinese. Del pezzo, che riporta la figura di Cristo redentore, circolano solo vecchie fotografie in bianco e nero, tratte dall’Archivio Zeri.
Il Crocifisso di Padova è il terzo crocifisso attribuito a Giotto. Datato tra il 1303 e il 1305, proviene dalla Cappella degli Scrovegni e oggi è conservato presso il Museo degli Eremitani a Padova.
La croce venne dipinta probabilmente dal maestro mentre era impegnato a realizzare gli affreschi della cappella padovana; il cattivo stato di conservazione ne ostacola la lettura, tanto che alcuni studiosi si sono spinti ad attribuire l’opera ad altri artisti, attivi all’interno della bottega giottesca: ipotesi che tuttavia non ha trovato molti sostenitori. Sappiamo infatti che Enrico Scrovegni, committente di Giotto a Padova, pretese che il maestro lavorasse agli affreschi riducendo al minimo gli aiuti di bottega, ed è verosimile che analoga richiesta sia stata fatta per il crocifisso, considerato parte integrante della decorazione. La croce padovana è inoltre ricca, dipinta su entrambi i lati (il retro, molto rovinato, presenta l’Agnello mistico al centro e i simboli degli Evangelisti), caratterizzata da un complesso e fastoso profilo mistilineo, decorata ai bordi con motivi vegetali.
Giunta a noi completa di tutti i pannelli accessori, presenta anche i capicroce con i dolenti, il piede con la rappresentazione del Golgota e del teschio di Adamo e sulla cimasa, alla sommità del palo verticale, un’immagine del Redentore, che allude al Cristo risorto e identifica la sua figura con quella dell’Eterno, ossia di Dio Padre.
Nel Crocifisso di Padova, la figura di Cristo è trattata con uno stile più spiccatamente naturalistico, evidente nella resa delle mani e dei piedi, nell’atteggiamento più espressivo dei dolenti, nel chiaroscuro più morbido che tiene maggiormente in conto gli effetti reali della luce. Le ossa della gabbia toracica affiorano dalla pelle tesa; le vene e i tendini sono ben delineati. Come nel Crocifisso di Rimini, qui Gesù è mostrato con un fisico più longilineo, rispetto al modello di Santa Maria Novella, dove Cristo presentava una maggiore possanza fisica. Anche l’espressione di Gesù appare qui più intensa e invita il fedele a un maggiore coinvolgimento emotivo.
La quarta ed ultima croce dipinta attribuita a Giotto, tra quelle giunte fino a noi, è il Crocifisso di Ognissanti, databile tra il 1315 e il 1320 e conservato presso la Chiesa di Ognissanti a Firenze, chiesa da cui proviene anche la bellissima pala giottesca con la Maestà, oggi agli Uffizi, dipinta dal maestro alcuni anni prima.
L’attribuzione di questo crocifisso a Giotto è molto antica, giacché il Ghiberti, scultore e trattatista rinascimentale, aveva ricordato nei suoi Commentari la presenza, in Ognissanti, sia della Maestà sia di un Crocifisso sia di un dossale con la Dormitio Virginis, ossia la Morte della Vergine, oggi a Berlino. Nel tempo, il Crocifisso venne sempre meno considerato, anche perché le vernici mescolate alla polvere e ai fumi grassi delle candele ne avevano reso l’immagine assai meno leggibile.
A lungo attribuito alla bottega del maestro, ai primi del Novecento trovò una mortificante collocazione nella sagrestia, risultando praticamente invisibile ai fedeli. Solo da poco, e a seguito di un ottimo restauro che nel 2005 ha restituito gli smaglianti colori dell’opera, l’autografia di Giotto è stata nuovamente riconosciuta. Il Crocifisso è tornato nella sua chiesa e dal 2010 è appeso all’interno del transetto.
La croce è purtroppo mutila della parte inferiore, con il piede che sicuramente rappresentava il Golgota, secondo l’invenzione del maestro. Il profilo mistilineo, con la cimasa e i capicroce quadrilobi, richiama l’esemplare padovano, cui l’opera è, effettivamente, molto prossima. Il preziosissimo blu lapislazzulo, utilizzato per i pali della croce, il manto della Vergine e quello del Redentore sulla cimasa, è magnifico. Ritroviamo anche la soluzione decorativa dei vetri decorati nell’aureola del Cristo, così come nella Croce di Santa Maria Novella.
Il corpo del Cristo, pallidissimo e cadaverico, ritrova il vigore e la potenza fisica della prova giovanile fiorentina ed è sicuramente molto più scultoreo dei modelli di Rimini e Padova. Il ventre si gonfia in avanti, i muscoli si tendono sotto la pelle sottile che lascia intravedere le ossa del torace. I volti dei dolenti, ossia di Maria e di Giovanni, sono intensamente espressivi e si riducono a maschere tragiche di dolore.
Complimenti, molto interessanti
Grazie di cuore
Molto interessante, mi ha aiutato in verifica!!