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Non sono stati molti gli artisti che, nel corso della storia dell’arte, hanno fatto dei propri genitori un soggetto da dipingere o da scolpire. Raccontare del proprio padre e della propria madre è anche un raccontarsi, consentire al pubblico di entrare in una sfera molto intima del privato. Attraverso il ritratto di un genitore di artista si può capire molto dell’artista medesimo e anche dei tempi in cui questi visse.
Si consideri per esempio un ritratto di padre contemporaneo. Si tratta di Dead Dad (Papà morto), una piccola scultura iperrealistica dell’artista australiano Ron Mueck (1958). L’opera riproduce con inquietante precisione, ma in dimensioni non realistiche e ridotte, il cadavere del padre appena deceduto, completamente nudo e disteso per terra.
Si tratta di una immagine da obitorio, in niente nobilitata e per nulla nobilitante, sebbene questa cruda immagine di morte richiami certe opere rinascimentali del Nord Europa, soprattutto tedesche, che riproducono il corpo di Gesù nel sepolcro.
Ma il padre di Mueck non è Cristo e la sua immagine non ha nulla di divino. È un uomo qualunque, piuttosto esile e con le spalle strette. La sua nudità mette a disagio perché non è esteticamente appagante: d’altro canto imbarazza la sola idea che l’artista abbia potuto rappresentare nudo il proprio padre.
Mueck affronta il tema della morte e della perdita in un modo talmente crudo e diretto da risultare disturbante. Suo padre è morto e lui ci presenta l’oggettività del suo cadavere, senza infingimenti. Che padre è stato? E l’artista che visione aveva di lui?
Non è dato a sapersi, quel corpo non lo racconta. Però ci comunica un senso profondo di precarietà, di vulnerabilità, sicuramente accentuata dalle ridotte dimensioni dell’opera. Ci chiediamo, legittimamente, se questa è la piccola riproduzione di un padre morto o la rappresentazione della morte di un piccolo padre, metaforicamente parlando.
Cos’è dunque Dead Dad? Una cinica visione di assenza? Un memento mori, una riflessione amara sulla transitorietà della nostra esistenza? Non è facile a stabilirsi. Mueck avrebbe potuto commemorare suo padre presentandolo come l’eroe invincibile e immortale che ogni bambino vede nel proprio genitore e invece ne ha fatto una dolente testimonianza della sua, e quindi nostra, umana finitezza.
lo ho visto a Londra in una sala di non ricordo quel mostra. Quel piccolo ometto posizionato, nudo in mezzo alla stanza, illuminata solo dal riflesso del riquadro di luce dove pareva. Ho sentito che c’erano diverse domande che l’osservatore era chiamato a farsi, al di la della percezione della situazione: dove mi colloco io rispetto alla morte, e viceversa. Dove si colloca il pubblico in relazione alla morte, alla sua rappresentazione e viceversa. Dove mi colloco io in relazione al pubblico e viceversa. Domande analoghe per quanto riguadava lo spazio chiaro e lo spazio scuro, il vedibile e i’invisibile. In ultima analisi mi e’ sembrata essenziale la relazione fra io/me e la distanza incolmabile che si separa dalla morte per quanto sia un presenza con cui condividiamo il cammino dal momento della nostra nascita. Non posso davvero dire “in ultima analisi, perche’ sforerei nell’ambito proprio della morte” mentre io/me sono vivo. Per finire, la domanda da porsi e’ la lorenziana “Ich bin hier. Wo bist du?”