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La storia dell’arte ha visto protagonisti gli uomini per effetto di una grave, secolare e costante discriminazione. Alle donne non era permesso diventare artiste. Esse tendenzialmente non lavoravano fuori casa, perché dovevano occuparsi delle faccende domestiche e della famiglia, e quando lavoravano erano comunque in posizione subalterna all’uomo. Doni, Tintoretta, Anguissola e Fontana.
Risultava quindi accettabile che una donna facesse la contadina o la fruttivendola o la macellaia accanto al marito oppure, se lavorava a servizio, la domestica o la cuoca. Ma gli artisti erano liberi professionisti, che si procacciavano le commissioni, contrattavano i compensi, viaggiavano per l’Italia o l’Europa; e questo era considerato un lavoro da uomini. Inoltre, la preparazione del pittore e dello scultore richiedeva necessariamente un lungo studio della figura umana, copiata dal vero su modelli che di norma posavano nudi.
Una donna che disegnava uomini nudi faceva scandalo. Insomma, la legge non vietava alle donne di diventare «pittoresse», per dirla con Vasari, ma se queste decidevano di farlo si assumevano tutte le responsabilità, rischiando di andare contro tutto e tutti. Le prime pittrici di cui abbiamo notizia furono figlie d’arte e lavorarono perlopiù nel cono d’ombra dei padri.
Antonia Doni (1446-1491), fiorentina, primogenita del grande pittore quattrocentesco Paolo Uccello, fu una suora carmelitana. Di lei conosciamo pochissimo se non che si formò presso la bottega paterna. Quando Vasari, nelle sue Vite, scrive di Paolo Uccello, fa riferimento ad una “sorella che aveva la conoscenza del dipingere”: Suor Antonia, appunto, di cui è stato ritrovato il certificato di morte che la definisce “pittoressa”. Non sappiamo se Antonia divenne suora per vocazione oppure, come immaginano alcuni studiosi, per poter esercitare il mestiere di pittrice senza problemi.
Non c’è dubbio che grazie alle commissioni interne all’ordine religioso (miniature, altaroli, tavolette votive) ebbe modo di lavorare con una libertà che mai avrebbe avuto se fosse “rimasta libera”, ossia una professionista laica. Una sua miniatura, oggi agli Uffizi, con la Vestizione di una monaca ambientata nella Chiesa di San Donato in Polverosa ci mostra che Suor Antonia aveva appreso bene dal padre la difficile arte della prospettiva.
Marietta Robusti (1554-1590), veneziana, fu la figlia illegittima del Tintoretto (perché nata prima del suo matrimonio) ma ugualmente amatissima dal padre, che riconosciutone il talento volle curare personalmente la sua formazione. Ci risulta che la pittrice sia stata una donna di cultura e una valente musicista: difatti abbiamo conservato un suo autoritratto in cui la donna si accosta a un madrigale. Marietta, che lavorò sempre all’ombra del padre e dei fratelli come collaboratrice, si specializzò nell’arte del ritratto.
Avrebbe anche avuto la possibilità di far carriera: venne infatti chiamata a corte sia dal re di Spagna Filippo II (che apprezzava le pittrici) sia da Massimiliano II d’Austria. Ma Tintoretto non le permise di partire, preferendo per lei una vita più appartata e protetta. La fece dunque sposare con un gioielliere tedesco. Marietta morì assai giovane, a poco più di trent’anni.
Di sicuro e riconosciuto talento fu la cremonese Sofonisba Anguissola (1535-1625), pittrice cinquecentesca che raggiunse fama internazionale trasferendosi addirittura presso la corte del re Filippo II di Spagna. È infatti considerata una delle prime vere e proprie esponenti femminili della pittura europea e, soprattutto, la prima pittrice rinascimentale degna di questo nome.
Sofonisba dovette sicuramente molto a suo padre, egli stesso amante dell’arte e disegnatore dilettante, che superando i pregiudizi dei contemporanei assecondò le sue aspirazioni concedendole di studiare letteratura, musica e pittura (ma non l’arte della prospettiva e la tecnica dell’affresco, considerate troppo impegnative per una donna).
Anche quattro delle sorelle di Sofonisba si dimostrarono abili disegnatrici e pittrici di buon livello, ma non raggiunsero mai la sua fama. Un’altra sorella divenne insegnante di latino e scrittrice, mentre l’unico fratello fu un musicista. Certo, la famiglia Anguissola fu del tutto eccezionale per quei tempi.
Come artista, Sofonisba si formò alla scuola del pittore lombardo, ma di origine emiliana, Bernardino Campi, che la indirizzò alla ritrattistica. Iniziò a guadagnarsi la stima dei colleghi e di uno in particolare: Michelangelo Buonarroti (cui il padre di Sofonisba mandò alcuni disegni per conto della figlia), in genere sferzante nei suoi giudizi ma che per lei ebbe buone parole. Anzi, avendo apprezzato il disegno di un bambino che rideva, le diede come compito quello di disegnare un bambino in lacrime. Sofonisba prontamente eseguì, inviando al grande maestro, nel 1554, il Fanciullo morso da un gambero.
In questa immagine, intensamente naturalistica e chiaramente debitrice degli studi leonardeschi sull’espressione dei sentimenti (i “moti dell’anima”), il bambino, morso dal crostaceo, fa una smorfia di pianto provocata dal dolore fisico improvviso. Una immagine davvero eccezionale per la sua spontaneità, che anticipava di alcuni anni quella, ben più nota, del dipinto Ragazzo morso da un ramarro di Caravaggio. Tommaso Cavalieri, grande amico del Buonarroti, scrisse in una lettera a Cosimo I dei Medici, a proposito di questo disegno: «et credo, che potrà stare a paragone di molti, perché non è solamente bello, ma ci è ancora inventione». Tutto questo fece guadagnare alla pittrice persino una citazione nelle Vite di Giorgio Vasari.
È del 1555 un interessantissimo ritratto di Sofonisba: Partita a scacchi, in cui la pittrice si ritrasse con le sorelle. Di quest’opera, il Vasari scrisse: «Dico di aver veduto quest’anno in Cremona, in casa di suo padre e in un quadro fatto con molta diligenza, ritrarre tre sue sorelle, in atto di giocare a scacchi, e con esse loro una vecchia donna di casa, con tanta diligenza e prontezza, che paiono vive, e che non manchi loro altro che la parola». L’opera si presenta come innovativa perché sa fornire alla ritrattistica del tempo una naturalezza e una leggerezza che sarebbe diventata poi tipica, nel secolo successivo, della pittura di genere.
Nel 1559, Sofonisba si trasferì in Spagna, dove divenne pittrice alla corte di Filippo II e dama di compagnia della regina Elisabetta. Rimase ritrattista di corte fino alla morte della sovrana. Nel 1573 tornò in Italia; visse in Sicilia, in Liguria, in Toscana e poi nuovamente in Sicilia, dove conobbe, oramai novantenne, il grande pittore fiammingo Antoon Van Dyck, che la ritrasse.
Durante l’incontro, che Van Dyck descrisse come “cortesissimo”, l’anziana pittrice diede preziosi consigli al giovane artista, il quale avrebbe poi confessato tutta la sua ammirazione per l’arte di Sofonisba. Nonostante la sua lunga e straordinaria carriera artistica, Sofonisba non fu mai pagata in contanti, a differenza dei suoi colleghi maschi, ma solo con doni o rendite.
Lavinia Fontana (1552-1614), figlia del pittore bolognese Prospero Fontana, fu una pittrice assai prolifica e di successo. Si formò a Bologna presso la bottega paterna, potendo tuttavia frequentare anche i Carracci, che influenzarono il suo stile. Come quasi tutte le pittrici del suo tempo, Lavinia fu inizialmente un’apprezzata ritrattista, impareggiabile nel rappresentare i bambini.
In un suo Autoritratto, firmato e datato 1577, l’artista, agli esordi della sua carriera, si ritrae all’interno di una stanza, mentre suona la spinetta, aiutata da una fantesca che le porge lo spartito musicale. Sul fondo, davanti alla finestra, un cavalletto testimonia la sua attività di pittrice. Elegantemente vestita di un abito rosso e di una camicia con colletto di pizzo, ha lo sguardo consapevole di una donna in carriera. Intelligente e prudente, ebbe però fama di essere “timorata di Dio e di onestissima vita e di belli costumi”, come ricorda il pittore a lei contemporaneo Orazio Samacchini.
A Bologna, Lavinia ebbe anche importanti commissioni pubbliche. Fu, anzi, la prima donna a dipingere una pala d’altare nell’Europa cattolica: l’Assunzione della Vergine, oggi a Imola, in cui propose una delle prime iconografie dell’Immacolata Concezione posteriori al Concilio di Trento. L’alone infuocato che circonda la Madonna richiama l’immaginario visionario delle mistiche medievali. Doni, Tintoretta, Anguissola e Fontana.
A 25 anni, Lavinia sposò il pittore Giovan Paolo Zappi, pretendendo però di continuare ad esercitare il mestiere. Anzi, essendo Lavinia molto più talentuosa del marito, questi preferì assumere il ruolo di suo procuratore. Fu lo Zappi, infatti, ad ottenere la protezione di papa Gregorio XIII, che chiamò, nel 1603, la pittrice a Roma. Lavinia fu apprezzatissima presso la corte papale, tanto da guadagnarsi il soprannome di “Pontificia Pittrice”.
Nonostante il gravoso impegno di undici gravidanze, giacché una pittrice rispettabile non poteva esimersi da essere prima di tutto madre, realizzò numerose opere, affrontando soggetti mitologici, biblici e sacri. Anche a Roma, tuttavia, fu ricercata soprattutto come ritrattista; anzi, come scrisse l’abate Luigi Lanzi (storico dell’arte settecentesco), ella fu «ambita dalle dame romane, le cui gale [ornamenti dei vestiti] ritraea meglio che uomo del mondo». E questo, all’epoca, era davvero uno straordinario complimento.
Interessantissima questa breve storia di donne pittrici!! Bravissimo Giuseppe. Grazie
Complimenti per il lavoro.
Grazie di cuore!
Grazie per il suo pregiato lavoro.
Giovanni
Rivalutiamo le tutte le artiste del passato! È giusto e doveroso.