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Intorno alla metà del XIX secolo, nell’ambito del movimento realista, emerse in Francia la figura di una pittrice molto particolare, Rosa Bonheur (1822-1899). Cresciuta in campagna, Rosa iniziò la sua carriera specializzandosi nella rappresentazione degli animali, soggetto che predilesse per tutta la vita.
Espose per la prima volta al Salon del 1841; nel 1845 e nel 1848 ottenne i suoi primi premi. Con La fiera dei cavalli, nel 1853, raggiunse una fama internazionale, arrivando ad essere apprezzata perfino negli Stati Uniti.
Fu la prima donna artista francese ad essere insignita del titolo di cavaliere della Légion d’honneur, nel 1865. Il realismo di Bonheur, occupandosi prevalentemente di campagna e di animali, non offendeva nessuno e questo garantì all’artista, e da subito, il successo che invece fu negato sia a Courber sia a Millet.
Per esempio, L’Aratura del 1849, vera e propria celebrazione del lavoro dei campi, raffigura alcuni contadini intenti a dissodare un terreno. Veri protagonisti dell’opera sono tuttavia i robusti buoi di razza Charolais e Nivernese aggiogati all’aratro. La rappresentazione dei loro mantelli e delle zolle in primo piano è, senza dubbio, magnifica.
Fu una donna coraggiosa e di grande temperamento, che non esitò a sfidare le convenzioni e il perbenismo della sua epoca. Omosessuale dichiarata, visse con una compagna, anch’ella pittrice, che fu l’amore della sua vita (si conobbero che Rosa aveva solo quattordici anni e la sua amica dodici). Molti anni dopo la morte di lei, si legò ad un’altra pittrice, statunitense, che poi divenne sua erede. Per quanto possa sembrare paradossale, la condotta di Rosa non suscitò particolare scandalo, probabilmente perché era una donna e non un uomo. Peraltro, lei non fece mai nulla per nascondere le sue inclinazioni: usava parlare di sé al maschile, portò sempre i capelli corti, vestì da uomo e fumò in pubblico sigari Avana.
Una curiosità: per vestirsi da uomo e frequentare le fiere di bestiame, Rosa dovette chiedere una specifica autorizzazione delle autorità di polizia (in Francia, per una donna era reato portare i pantaloni), da rinnovarsi ogni sei mesi, adducendo non meglio precisati “motivi di salute”. Questo certamente le pesò molto. «Non ho pazienza con le donne che chiedono il permesso di pensare», usava dire. Femminista ante litteram, scrisse: «Penso di avere adesso il diritto di vivere per me stessa e di disporre a mio piacimento dei miei beni, non avendo figli, né provando tenerezza per il sesso forte, a parte una franca e buona amicizia per coloro che ho stimato». Credeva nelle donne, delle quali sostenne «l’indipendenza fino al mio ultimo giorno». «Del resto – affermò – sono convinta che a noi appartenga l’avvenire».