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Le donne di Caravaggio 2: Fillide
Una scandalosa cortigiana sugli altari.
Autore: Giuseppe Nifosì Pubblicato in Il Seicento – Data: Dicembre 5, 2022 2 commenti 15 minuti
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La prostituta Fillide Melandroni era di origine senese. Si trasferì a Roma nel 1593, e con l’aiuto di Anna Bianchini, detta Annuccia, all’epoca appena tredicenne, iniziò a esercitare l’attività di meretricio e a introdursi nel giro. Le due erano amiche e lavoravano insieme. Fillide venne arrestata frequentemente, e con lei Annuccia: nei verbali di polizia, i loro nomi risultano spesso appaiati.

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A differenza della Bianchini, la cui clientela non era certo altolocata, la Melandroni era però ambiziosa e voleva far carriera: fu per questo che si legò al clan dei fratelli Tomassoni, uomini d’arme e di piccola nobiltà, originari di Terni, che gestivano a Roma un giro di cortigiane destinate a gentiluomini, notai, cardinali e gente di curia. I Tomassoni erano di casa in Rione Campo Marzio, dove abitava anche il pittore lombardo Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610).

Quando Caravaggio la incrociò nelle strade del quartiere, Fillide aveva solo diciassette anni. Procacciava i propri clienti sotto lo sguardo vigile del suo protettore, e forse amante, Ranuccio Tomassoni, abile e conosciuto spadaccino che un contemporaneo ricorda come “giovane di molto garbo”, e che in realtà era uno spregiudicato e rissoso piantagrane con cui l’artista ebbe spesso occasione di scontrarsi, azzuffarsi e ferirsi, creando i presupposti per il drammatico incidente del 28 maggio 1606, che vide Ranuccio ucciso per mano del pittore.

Filide Melandroni, ritratta da Caravaggio (in alto a sinistra) e usata come modella per i dipinti Marta e Maria, Santa Caterina di Alessandria e Giuditta e Oloferne.

Una corteggiana scandalosa

Fu certamente con l’autorizzazione del Tomassoni che Fillide, ragazza dalla procace e sensuale bellezza, divenne modella del Merisi. La Melandroni compare sicuramente in quattro dipinti di Caravaggio. La “Corteggiana scandalosa” (così il parroco di Sant’Andrea delle Fratte la censì sul Libro delle Anime), richiesta da nobili e signori, educatrice di altre meretrici, diede corpo e volto a Santa Marta, Santa Caterina, Giuditta e alla Madonna della Natività di Palermo.

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Per molti, è anche la Maddalena piangente nella Deposizione. Probabilmente l’interesse di Caravaggio per la procace Fillide andò ben oltre quello artistico e ciò potrebbe aver contributo non poco ad alimentare i dissapori fra il pittore e il protettore della giovane, il quale comunque abbandonò Fillide al suo destino, preferendole la più giovane Prudenza Zacchia. Fu così che la Melandroni per un certo periodo si mise in proprio, potendo contare sui nobili, porporati e potenti clienti di sua conoscenza. Tra questi, anche il Marchese Giustiniani, grande estimatore di Caravaggio. Una donna senza protezione, tuttavia, correva grossi rischi e difatti Fillide conobbe spesso l’onta del carcere e, forse, della fustigazione pubblica.

Caravaggio, Deposizione, 1603. Olio su tela, 3 x 2,03 m. Roma, Pinacoteca Vaticana.
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Tornata nella sfera di controllo dei Tomassoni, stavolta però di Giovan Francesco, Fillide ritrovò una certa sicurezza, l’agiatezza e perfino l’amore, nella persona del nobiluomo veneziano Giulio Strozzi, che avrebbe commissionato proprio al Caravaggio un ritratto dell’amata, ora diventata “cortigiana honesta”. La storia d’amore non è a lieto fine: i parenti dello Strozzi, temendo che questi sposasse la concubina, si rivolsero addirittura al papa, Paolo V, perché intervenisse a separare i due amanti. E così, Fillide, «famosa cortegiana», venne «mandata fuori di Roma con ordine che non vi debba più tornare». L’esilio, invece, durò solo due anni; dopo che Giulio Strozzi ebbe a sua volta lasciato la città, per costruirsi una famiglia regolare e che non desse adito a scandali, Fillide poté rientrare e tornare all’antico mestiere, fino alla morte, sopraggiunta a soli 37 anni. Non le fu concessa la sepoltura cristiana.

Caravaggio, Marta e Maria, 1598 ca. Olio su tela, 100 x 134,5 cm. Detroit, Institute of Art.
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Marta e Maria

Il quadro con Marta e Maria venne dipinto nel periodo in cui Caravaggio viveva nel palazzo del Cardinale Del Monte, suo protettore. Nella modella che posò per la figura di Marta, a sinistra, è stata identificata Anna Bianchini, ossia Annuccia, protagonista di altri dipinti caravaggeschi. La bella e seducente Maria, sulla destra, ha invece il volto di Fillide, forse frequentatrice di Palazzo Del Monte, per alcuni anche probabile amante di Caravaggio.

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La scena dovrebbe raffigurare le due donne di Betania, sorelle di Lazzaro, di cui parlano i Vangeli di Luca e Giovanni. Luca racconta che Gesù venne accolto nella loro casa e mentre Marta si affaccendava ai fornelli, Maria rimaneva ad ascoltare il Maestro. Marta incarna il ruolo della perfetta padrona di casa, Maria, al contrario, sta ai piedi di Cristo come un devoto discepolo.

Caravaggio, Marta e Maria, 1598 ca. Particolare con Maria, che ha le sembianze di Fillide Melandroni.

Maria e Marta vengono spesso rappresentate dagli artisti, a partire dal Rinascimento. Tuttavia, l’inconsueta iconografia della versione caravaggesca, in cui una delle donne apparirebbe come vanitosa perché appoggiata a uno specchio, ha spinto parte della critica a riconoscere nelle due donne Marta di Betania e Maria Maddalena, con la prima intenta a convertire la seconda e impegnata ad argomentare le sue tesi con l’esplicito gesto delle mani. Tale soggetto sarebbe confermato da un antico inventario, che tuttavia venne redatto dopo la fuga dell’artista da Roma. C’è da dire che i Vangeli non accostano mai le figure di Marta e della Maddalena in modo diretto. È quindi assai più probabile, considerando l’attenzione con cui Caravaggio si faceva interprete del Nuovo Testamento, che il dipinto rappresenti effettivamente le due sorelle di Betania.

Caravaggio, Marta e Maria, 1598 ca. Particolare con le mani di Marta.

Le due donne si fronteggiano; Marta è seduta al lato corto di una tavola e ha il volto in ombra: solo le mani vengono mostrate in piena luce. Maria, in piedi lungo il lato maggiore del tavolo, sorregge con la mano sinistra uno specchio convesso, che riflette un raggio di luce, mentre l’altra mano porta al petto un ramoscello di fiori d’arancio. Sul tavolo, sono posati un pettine e un vasetto con una spugna. Specchio, pettine e vasetto con la spugna (che potrebbe servire ad applicare sulla pelle la cipria in esso contenuta) sembrerebbero essere i simboli della vanità mondana di Maria. Marta quindi esorterebbe o, forse, rimprovererebbe la sorella per ottenerne la conversione, magari prima che questa diventasse, come l’Evangelista Luca racconta, una devota di Cristo.

Caravaggio, Marta e Maria, 1598 ca. Particolare con lo specchio tenuto da Maria.

Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che il dipinto venne realizzato presso il palazzo di Francesco Maria del monte, il coltissimo protettore e mentore di Caravaggio, il quale potrebbe avergli dato più sottili suggerimenti iconografici. Nella tradizione cristiana, Marta è simbolo della vita attiva, Maria della vita contemplativa, e lo specchio, in molti trattati teologici, viene spesso paragonato all’anima che riceve in sé la luce della Grazia divina.

Anche la spugna potrebbe avere un analogo significato simbolico: essa si imbibisce se immersa nell’acqua, come l’anima di Maria di Betania quando ascoltava le parole del Signore. Allo stesso modo il pettine (che non può servire ad acconciare Maria, già perfettamente pettinata) sarebbe lo strumento necessario a portare ordine e compostezza ad una capigliatura, e per estensione ad una condotta, altrimenti disordinata e sconveniente. Infine, i fiori di arancio simboleggiano purezza e Amore.

Caravaggio, Marta e Maria, 1598 ca. Particolare con i fiori tenuti da Maria.

Ne consegue che Marta non sta affatto esortando la sorella a convertirsi, al contrario, ella gesticola vivacemente in quanto “attiva” ma proprio per questo si trova in una condizione subalterna a quella “contemplativa” di Maria, che difatti è in piedi di fronte a lei, in una posizione di evidente superiorità.

 Santa Caterina di Alessandria

Fillide posò, negli stessi mesi, anche per la Santa Caterina di Alessandria, un dipinto che fece inizialmente parte della collezione di Francesco Maria del Monte, cardinale e protettore di Caravaggio, e venne realizzato nel periodo in cui l’artista soggiornava presso la dimora dal prelato. Secondo la tradizione, Caterina venne condannata a subire il supplizio della ruota dentata ma un fulmine scaturito dal cielo miracolosamente ruppe lo strumento. Allora la donna venne decapitata con una spada.

Caravaggio, Santa Caterina di Alessandria, 1598-99. Olio su tela, 173 x 133 cm. Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza.

Nel dipinto di Caravaggio, la santa è mostrata con gli strumenti del suo martirio, ossia la grande ruota di legno e la spada, che ella tiene delicatamente fra le mani. Accanto a lei, si trova distesa la palma del martirio. Mostrata come una nobile fanciulla inginocchiata su un cuscino rosso damascato, vestita di abiti eleganti e di un sontuoso mantello blu, Caterina volge lo sguardo verso l’osservatore ostentando sicurezza e determinazione ma, al contempo, anche una sottile, umanissima inquietudine, giacché andare incontro alla morte non è facile per nessuno. Se non ci fossero gli strumenti di tortura e il sottile cerchio dell’aureola sul capo della donna (elemento iconografico raro nei quadri di Caravaggio), ad attestare la santità del soggetto, parrebbe il ritratto di una vera donna del Seicento, bellissima e tenace, quale d’altro canto Fillide era nella realtà.

Caravaggio, Santa Caterina di Alessandria, 1598-99. Particolare.

Giuditta e Oloferne

Risale al 1599 circa il quadro con Giuditta e Oloferne, o la Decapitazione di Oloferne, una tela di straordinaria potenza espressiva commissionata a Caravaggio dal banchiere Ottavio Costa. Il tema dell’opera non era nuovo, anzi era stato già affrontato nel Rinascimento, e da artisti del calibro di Donatello, Mantegna, Giorgione, Botticelli e Michelangelo; nessuno di questi, tuttavia, si era mai spinto a rappresentare l’episodio biblico per quello che era, cioè un brutale assassinio compiuto a sangue freddo, sia pure per amor di patria. Giuditta fu un’eroina dell’Antico Testamento, una giovane vedova ebrea che si offrì volontaria per una impresa ad alto rischio, nel tentativo di salvare la città di Betulia e l’intero popolo d’Israele dall’assedio dell’esercito assiro. Si presentò al campo nemico, finse di volersi alleare con gli avversari, sedusse il generale Oloferne e lo uccise con le proprie mani, decapitandolo con la scimitarra dello stesso militare.

Caravaggio, Giuditta e Oloferne (Decapitazione di Oloferne), 1599. Olio su tela, 145 x 195 cm. Roma, Palazzo Barberini, Galleria Nazionale di Arte Antica.
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Caravaggio dipinse Giuditta bella e indomita, con i capelli raccolti sulla nuca e una blusa bianca aderente al seno, intenta a staccare la testa dal collo della sua vittima: lentamente, maldestramente ma con decisione. L’uomo, colto di sorpresa, contrae il corpo nudo, cerca di divincolarsi, afferra convulsamente il lenzuolo, strabuzza gli occhi e apre la bocca in un rantolo, mentre un fiotto di sangue sprizza violento dalla sua giugulare recisa.

La vecchia serva Abra, che nel racconto originale è una giovane donna, assiste impietrita alla scena e tiene aperto il sacco, destinato a nascondere il macabro trofeo, cioè la testa del generale. Un drappo rosso campeggia sul fondo e accentua la teatralità della scena, dove l’artista sembra voler esaltare un vivace gioco di contrasti: buio e luce, giovinezza e vecchiaia, bellezza e bruttezza, forza e vulnerabilità, vita e morte.

Caravaggio, Giuditta e Oloferne (Decapitazione di Oloferne), 1599. Particolare.

Il quadro lasciò sbigottito il pubblico dell’epoca e molti rimasero inorriditi: in pittura, e soprattutto nell’arte sacra, rappresentare la morte nella sua più bieca crudeltà non era considerato decoroso. Un’altra fonte di scandalo fu l’aspetto della bella e seducente Giuditta, per dipingere la quale Caravaggio scelse a modella proprio Fillide Melandroni.

L’opera, tradizionalmente datata al biennio 1598-1600, è stata da qualcuno collocata al 1602, a seguito della scoperta di una minuta autografa in cui il Caravaggio dichiarava di aver ricevuto venti scudi da Ottavio Costa il 21 maggio 1602, «a bon conto d’un quadro ch’io gli dipingo». Questa menzione è tuttavia generica e potrebbe riferirsi a un altro dei capolavori caravaggeschi posseduti dal banchiere, ad esempio il San Giovanni Battista oggi a Kansas City.

Caravaggio, Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi, 1600 (o 1609). Olio su tela, 268 x 197 cm. Già a Palermo, Oratorio di San Lorenzo. Rubato.
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La Natività di Palermo

Sembra essere ancora Fillide la protagonista di un altro capolavoro di Caravaggio, un tempo conservato in Sicilia: la Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi, dipinta per l’Oratorio di San Lorenzo a Palermo. Il dipinto è stato tradizionalmente datato al 1609 e collegato a un presunto passaggio dell’artista in quella città, durante il suo soggiorno siciliano. Invece venne, del tutto ragionevolmente, realizzato a Roma, intorno al 1600, e poi spedito a Palermo via mare.

Lo stile e le caratteristiche tecniche della tela appaiono assai distanti dagli altri capolavori siciliani dell’artista, ancora presenti a Siracusa e a Messina, e sono invece sono del tutto vicini ai quadri romani di Caravaggio, in particolare alla Giuditta e Oloferne. La Madonna palermitana e l’eroina biblica si assomigliano in modo straordinario, al punto che sembrano essere la medesima persona. Proprio l’evidenza che l’artista abbia scelto la stessa modella per entrambi i dipinti, ossia la bella Fillide, rende ancora più convincente l’ipotesi che questa Natività sia stata realizzata nel contesto romano e legittima la sua datazione ai primissimi anni del Seicento.

Il committente potrebbe essere stato il mercante Fabio Nuti, per il quale, secondo un documento notarile del 5 aprile 1600, Caravaggio si impegnò a dipingere un quadro, le cui misure risultano congruenti con quelle del dipinto palermitano. Altri documenti attestano che il Nuti aveva, proprio in quel periodo, degli interessi nella lontana Palermo.

Caravaggio, Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi, 1600 (o 1609). Particolare.

Nel capolavoro di Caravaggio, la Madonna, accasciata per terra, guarda il figlio appena nato, disteso su un candido lenzuolo, e pare già figurarsi la sua futura morte. Maria è circondata da vari personaggi, tra cui San Giuseppe, voltato di spalle, san Lorenzo a sinistra e san Francesco a destra, qui simbolicamente presenti per meditare su quella nascita misteriosa. In alto, un angelo celebrante si butta sulla scena con il suo cartiglio.

Il dipinto è stato rubato, la notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969, dall’altare dell’Oratorio di San Lorenzo, forse su commissione mafiosa. Di recente, soprattutto grazie al contributo dello studioso Michele Cuppone, si è fatta strada l’ipotesi che l’opera si trovi ancora nascosta in Svizzera, e ciò alimenta la speranza di un suo futuro ritrovamento.

Caravaggio, Ritratto di cortigiana (o Ritratto di Fillide Melandroni), 1601-05. Olio su tela, 66 x 53 cm. Opera perduta, già Kaiser Friedrich Museum di Berlino.

Il Ritratto di cortigiana

Fillide, nonostante la sua bassa estrazione sociale, ebbe l’onore di essere raffigurata da Caravaggio in un ritratto ufficiale, tra il 1601 e il 1605. Il dipinto, noto come Ritratto di cortigiana, è andato purtroppo distrutto durante la Seconda guerra mondiale. Dei pochissimi ritratti attribuiti a Caravaggio, che fu poco incline a questo particolare genere artistico, questo era l’unico considerato sicuramente di sua mano, perché citato nel testamento della stessa Fillide.

La donna, nel 1614, dichiarò di possedere l’opera, e voleva fosse restituita, dopo la sua morte, all’ex amante Giulio Strozzi. Fu quasi certamente l’amante della donna a commissionare l’opera, dopo il suo arrivo a Roma nel 1600. Il quadro venne poi venduto (non sappiamo se dalla Melandroni stessa o dallo Strozzi) al Marchese Vincenzo Giustiniani, che già vantava diversi Caravaggio nella sua collezione. Passato al re di Prussia, il ritratto finì a Berlino dove un incendio lo distrusse nel 1945, assieme al San Matteo e l’angelo, sempre di Caravaggio. Dell’opera ci resta solo una riproduzione fotografica, fortunatamente a colori.

La donna, posta in posizione quasi frontale e con il volto leggermente ruotato a sinistra, pare voler evitare gli occhi dell’osservatore, dirigendo lo sguardo lievemente a destra. L’aspetto ben curato, l’elaborata acconciatura e gli abiti di pregio (una camicia candida, un corpetto ricamato e trapuntato d’oro) evidenziano un certo benessere economico, probabilmente favorito dalla relazione stabile intrecciata con lo Strozzi. D’altro canto, i vistosi orecchini di perle e il grande bracciale al polso sono di fattura tipicamente veneziana. Con un gesto elegante, Fillide porta un mazzetto di fiori bianchi al petto.

Parrebbero essere gelsomini, fiori dal profumo intenso e sensuale. Il velo giallo che si infila nel corpetto è l’unico particolare che denuncia la sua condizione di cortigiana. Le prostitute erano infatti obbligate per legge a indossarlo, per rendere subito palese il mestiere praticato.


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  1. Vi sono immensamente grata dell’ottimo servizio chei fornite, offrendoci la possibilità di avere informazioni preziose sull’arte con massima semplicità!!!

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