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Maddalena Antonietti, la bella Lena, prostituta romana tanto desiderata quando chiacchierata, è rimasta alle cronache come la “donna di Michelangelo”, ossia del pittore lombardo Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610). Lena proveniva da una famiglia di cortigiane: anche sua madre era una prostituta e così sua sorella, la bellissima Amabilia.
La Antonietti era molto conosciuta e ricercata a Roma e aveva una clientela altolocata: frequentava, per esempio, il cardinale Montalto, monsignor Melchiorre Crescenzi e il cardinal Peretti, nipote di Sisto V. Nel 1602, la donna rimase incinta ed ebbe un figlio. Questo compromise la sua carriera, soprattutto tra gli ecclesiastici d’alto rango. Così, Lena decise di stringere una relazione stabile, ma poco felice, con il notaio e letterato Gaspare Albertini.
Non conosciamo le circostanze dell’incontro fra il pittore e la bella meretrice, che dovrebbe risalire ai primi anni del Seicento, quando l’artista ancora frequentava Fillide Melandroni, un’altra prostituta sua modella e amica di Lena. È concordemente accettato dalla critica che Caravaggio abbia ritratto la Antonietti in due capolavori di quegli anni: la Madonna dei pellegrini e la Madonna dei Palafrenieri.
Benché non si abbia alcuna certezza di come siano andate le cose, sembra che tra la bella Lena e il pittore fosse scoppiata una passione travolgente e pericolosa. I verbali di polizia del 1605 ci parlano di un’aggressione subita da Mariano Pasqualone, addetto agli uffici legali del Cardinale Vicario di Roma, proprio per mano di Caravaggio e a causa della Antonietti. Questa la dichiarazione del notaio aggredito: «Io non ho visto chi sia stato quello che mi ha ferito, ma io non ho da fare con altri che con detto Michelangelo, perché a queste sere passate havessimo parole sul Corso lui et io per causa d’una donna chiamata Lena che sta in piedi a piazza Navona […] che è donna di Michelangelo».
A seguito di questa vicenda, l’artista preferì lasciare Roma per qualche tempo, aspettando che le acque si calmassero, e cercare rifugio a Genova. Perché proprio Genova? Perché lì Caravaggio poteva contare sull’ospitalità di Giovanna Colonna, moglie di Andrea Doria nonché nipote di Costanza, instancabile protettrice dell’artista. Inoltre, in città erano allora presenti sia Ottavio Costa sia Vincenzo Giustiniani, antichi estimatori e committenti del pittore. L’artista rimase a Genova meno di un mese: Pasqualone, infatti, accettò le pubbliche scuse del Merisi e ritirò la querela.
La storia d’amore tra Lena e Caravaggio, ammesso che di amore si potesse parlare, fu travagliata e certamente non aiutata dagli eventi. Il pittore uccise Ranuccio Tomassoni nel 1606 e dovette scappare da Roma; Lena tornò a vivere con la madre e la sorella e morì nel 1610, poco prima del pittore. Aveva solo ventotto anni.
Il primo dipinto in cui compare Lena è quello della Madonna dei pellegrini, o Madonna di Loreto, eseguito dall’artista tra il 1604 e il 1606 su commissione del notaio bolognese Ermete Cavalletti e ancora oggi esposto nella Cappella Cavalletti della Basilica di Sant’Agostino a Roma. Maria vi è mostrata come una giovane madre vestita da popolana che si affaccia sull’uscio della propria umile dimora, con il figlio in braccio, per accogliere due pellegrini miseri e scalzi che si prostrano ai suoi piedi. Il Bambino si volta verso di loro e li benedice.
La casa a cui fa riferimento questo quadro è quella conservata a Loreto, che la tradizione vuole sia proprio quella della Vergine, lì trasportata miracolosamente dagli angeli. L’iconografia tradizionale prevedeva che Maria vi fosse raffigurata in trono, dentro un’edicola, oppure seduta sul tetto, mentre gli angeli portano in volo l’edificio. Caravaggio, come suo solito, scelse di combinare l’iconografia sacra con la pittura di genere che tanto amava, e di creare una scena in cui una Madonna umanissima si relaziona con dei veri pellegrini, laceri e con i piedi sporchi, ritratti “al naturale”. Anche la Santa Casa è mostrata come un semplice edificio di mattoni dall’intonaco scrostato.
I biografi di Caravaggio riferiscono, nei loro scritti, che il dipinto non piacque e suscitò molto clamore.
Giovanni Baglione scrive che «nella prima cappella della chiesa di Loreto o di Sant’Agostino [Caravaggio] alla manca fece una Madonna di Loreto ritratta dal naturale con due pellegrini, uno co’ piedi fangosi di deretano, e l’altra con una cuffia sdrucita, e sudicia di deretani e per queste leggeriezze in riguardo delle parti, che una gran pittura haver dee, da popolani ne fu fatto estremo schiamazzo».
Secondo Gian Pietro Bellori, «seguitò a dipingere nella Chiesa di Santo Agostino l’altro quadro della cappella de’ Signori Cavalletti La Madonna in piedi col fanciullo fra le braccia in atto di benedire: s’inginocchiavo avanti due pellegrini co’le mani giunte; e il primo di loro è un povero scalzo li piedi, e le gambe, con la mozzetta di cuoio, e ‘l bordone appoggiato alla spalla è accompagnato da una vecchia con una cuffia in capo. […] In Santo Agostino si offeriscono le sozzure de’ piedi del Pellegrino».
Nessuno dei due biografi fa riferimento al volto della Madonna, nei cui tratti possiamo riconoscere la bella Lena. La loro indignazione pare causata soprattutto dall’estremo naturalismo adottato dal Caravaggio e dalla mancanza di quella idealizzazione e di quel decoro che invece erano necessari, secondo l’opinione comune, nelle scene sacre. In particolare, pare sia proprio l’aspetto dimesso dei pellegrini a destare il maggiore scalpore, la loro pelle rugosa, i loro abiti sdruciti e soprattutto i piedi piagati e sudici per il lungo viaggio.
Che questa immagine possa aver suscitato “schiamazzo” presso il popolo appare francamente improbabile, considerato che ogni fedele poteva facilmente riconoscersi in quei due poveri vecchi: è assai più facile che i due biografi abbiano calcato la mano su quello che certamente fu il disappunto dei pittori accademici, che non tolleravano, e non capivano, le scelte stilistiche del Merisi.
Secondo lo scrittore d’arte Giovanni Agucchi, che scrisse fra il 1607 e il 1615, Caravaggio «ha lasciato indietro l’Idea della bellezza, disposto di seguire del tutto la similitudine» e questo, a detta dello studioso, sicuramente al popolo piaceva. Non c’era da farsene vanto: le persone di scarsa cultura «non arrivando a conoscere quella bellezza che esprimer vorrebbe la natura, si fermano a quel che veggono espresso, ancorché lo trovino oltremodo imperfetto. Da questo ancora nasce che le cose dipinte e imitate dal naturale piacciono al popolo».
In realtà, assodato che Caravaggio chiese a Lena di fargli da modella (e il bambino potrebbe essere suo figlio), in questo dipinto, come in altri dell’artista, non mancano citazioni colte, sebbene trasfigurate. La posa inconsueta di Maria, infatti, che tiene le gambe incrociate richiama quella di una scultura antica, la cosiddetta Thusnelda, il ritratto di epoca romana di una principessa germanica fatta prigioniera. Oggi la scultura è conservata sotto la Loggia dei Lanzi in Piazza della Signoria, a Firenze, ma all’epoca faceva parte delle collezioni medicee a Roma, e certamente Caravaggio la conosceva.
Lena e suo figlio vennero nuovamente ritratti in un successivo capolavoro di Caravaggio, la Madonna dei Palafrenieri o Madonna della Serpe. Il quadro, oggi conservato presso la Galleria Borghese, venne commissionato all’artista dall’Arciconfraternita dei Palafrenieri Pontifici per un loro altare nella Basilica di San Pietro. Il soggetto doveva essere quello della Madonna col Bambino e Sant’Anna, la madre di Maria.
Il dipinto mostra Maria intenta a schiacciare un serpente, aiutata dal figlioletto, sotto lo sguardo vigile di Anna. La scena è chiaramente di natura allegorica e fa riferimento a quel passo della Genesi (III.15) in cui Dio dice al Serpente, cioè a Satana: «Io porrò inimicizia fra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno». La misteriosa “donna” dell’Antico Testamento, secondo i cristiani, è da identificarsi proprio con la Madonna.
Ancora una volta, Caravaggio scelse di trasformare una questione teologica riconducendola a un contesto quotidiano e riconoscibile. I personaggi sono umanissimi: Maria, che ha il volto e soprattutto il corpo di Lena, è bella, prosperosa e perfino procace, sant’Anna è una vecchia avvizzita. Anche la loro casa è umile e spoglia.
Il dipinto venne consegnato nei termini contrattuali, e l’artista venne regolarmente pagato. Il quadro, però, rimase sull’altare un giorno o due: venne infatti immediatamente rimosso. Inizialmente destinato alla Chiesa di Sant’Anna dei Palafrenieri, fu invece venduto al Cardinale Scipione borghese, che lo pagò 100 scudi, contro i 70 che aveva percepito Caravaggio. I Palafrenieri, insomma, fecero un buon affare, liberandosi di un dipinto evidentemente scomodo senza rimetterci denaro, anzi guadagnandoci.
Racconta il Baglione nella sua biografia di Caravaggio: «Fece anch’egli in s. Pietro Vaticano una s.Anna con la Madonna, che ha il Putto fra le sue gambe, che con il piede schiaccia la testa ad un serpe; opera da lui condotta per li Palafrenieri di palazzo; ma fu levata d’ordine de’ Signori Cardinali della fabrica, e poi da Palafrenieri donata al Cardinale Scipione Borghese». Baglione, quindi, attribuisce la decisione di respingere l’opera direttamente ai Cardinali di San Pietro e glissa sull’operazione di mercato condotta dall’Arciconfraternita.
È facile immaginare il disappunto e perfino lo sconcerto di Caravaggio di fronte a quel rifiuto. Innanzi tutto, egli sarà stato ben felice e onorato di fronte alla prospettiva che una sua opera venisse esposta all’interno della Basilica di San Pietro. Inoltre, a questo nuovo scandalo sarebbe seguito di lì a poco quello che avrebbe portato alla restituzione della Morte della Vergine, da parte dei Carmelitani Scalzi di Santa Maria della Scala in Trastevere. Due quadri rifiutati in pochi mesi (e questi lo furono davvero, a differenza di altri che il Baglione subdolamente insinua non essere piaciuti) infersero certamente un duro colpo al suo amor proprio e alla sua reputazione.
È stato facile, per lungo tempo, motivare lo scandalo riconducendolo alle fattezze della Madonna, nella quale si poteva chiaramente riconoscere la bella Lena, considerando che (secondo i biografi) per un analogo motivo sarebbe stata poi rifiutata la Morte della Vergine (dipinta nello stesso periodo), in cui l’artista avrebbe ritratto, addirittura, una prostituta morta annegata nel Tevere.
Nel caso della Madonna dei Palafrenieri, sicuramente fecero storcere il naso a molti sia la sensuale scollatura di Maria sia quel Bambino, un po’ troppo cresciuto, per essere completamente nudo. Nel Discorso intorno alle immagini sacre e profane, del 1582, il Cardinale Gabriele Paleotti aveva già lanciato i suoi strali contro chi raffigurava la Vergine Maria in modo eccessivamente terreno, che «fa stomaco a vederla». E difatti, il classicista Bellori stigmatizzò aspramente Caravaggio per aver dipinto «vilmente la Vergine con Giesù fanciullo ignudo».
Tuttavia, non è detto che le cose siano andate veramente così. Anche la Madonna dei Palafrenieri ha il volto di Lena eppure è ancora lì, sull’altare, e questo vale per altri dipinti di Caravaggio, in cui i più attenti detrattori dell’artista facilmente avrebbero potuto riconoscere modelle e modelli non propriamente di alto lignaggio e meno che mai prossimi alla santità. Il problema era un altro e riguardava una questione iconografica e teologica insieme. Caravaggio si prendeva molte libertà e quasi tutte gli venivano perdonate, a dire il vero, tranne quella di reinterpretare troppo personalmente iconografie oramai consolidate. Nella Morte della Vergine, per esempio, il vero scandalo sarebbe stato provocato dall’eccessiva verità e umanità di quella morte, che al contrario doveva essere accompagnata da cori angelici e manifestazioni paradisiache.
Nella Madonna dei palafrenieri, invece, era l’atteggiamento della madre di Maria che davvero non poteva essere accettato. Nella tradizionale iconografia della Sant’Anna Metterza, infatti, ella vigila su figlia e nipote, incarnando nella sua figura la Grazia, (giacché il nome Anna deriva dall’ebraico Channah, che vuol dire proprio favore, grazia). Secondo la Chiesa Cattolica, infatti, la Grazia va intesa come atteggiamento di misericordia di Dio verso l’umanità. Per manifestare la sua Grazia, Dio opera nella vita dell’uomo, attraverso la Provvidenza, stabilendo con lui una comunione personale, un rapporto esclusivo ed intimo, profondo e concreto.
Nel quadro di Caravaggio, però, Anna è passiva e se ne sta in disparte, mentre Madre e Figlio si adoperano, da soli, a combattere il Serpente. Come ha scritto, acutamente, Luigi Spezzaferro, uno dei massimi studiosi dell’artista, Caravaggio «mettendo in scena delle persone umane – e troppo umane – finiva per proporre un messaggio sicuramente inaccettabile dal punto di vista teologico […]. Con tale messaggio, infatti, si finiva per accreditare la credenza che la vittoria sul peccato – e dunque il piano delle prescrizioni morali – era opera tutta umana e quindi disgiunta da qualsiasi tipo di intervento divino».
E questo ai prudenti Cardinali di San Pietro non poteva piacere, soprattutto in un’opera destinata alla più importante chiesa del Cattolicesimo, in piena età controriformista.
Maria Maddalena in estasi potrebbe essere uno dei tre dipinti che Caravaggio portò con sé, nel suo ultimo viaggio. Era, come gli altri, destinato a Scipione Borghese, che si stava adoperando per fargli concedere la grazia dallo zio pontefice, Paolo V. Secondo gli studiosi, l’artista aveva già lavorato a questo soggetto nel 1606, subito dopo l’uccisione di Ranuccio Tomassoni e la sua precipitosa fuga da Roma, alla volta di Napoli. Si pensa che Caravaggio abbia rimesso mano all’opera giusto nel 1610, prima di consegnarlo al suo protettore.
In questa Maddalena, giovane e bella, seduta ma inclinata verso destra, con le dita delle mani intrecciate, la testa reclinata all’indietro, gli occhi appena dischiusi, l’espressione più sofferente che estatica, molti studiosi hanno riconosciuto un ennesimo ritratto di Lena, che Caravaggio (in esilio, reietto, braccato) avrebbe dipinto, evidentemente, a memoria, senza averla fisicamente davanti, nel momento della sua più profonda disperazione.
L’ultimo omaggio a un amore sfortunato, l’ultimo pensiero prima di una morte prematura e solitaria.