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Le donne di Klimt e Woman in Gold
Seduzione e bellezza nella Vienna fin de siècle.
Autore: Giuseppe Nifosì Pubblicato in Postimpressionismo e Simbolismo – Data: Settembre 27, 2020 3 commenti 10 minuti
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La cosiddetta Secessione viennese (in tedesco Wiener Secession) venne fondata da un’associazione di 19 artisti, tra cui pittori e architetti, che nel 1897 decisero di abbandonare l’Accademia di Belle Arti per formare un gruppo autonomo. Tra i fondatori della Secessione viennese, un posto di primo piano spetta sicuramente al pittore Gustav Klimt (1862-1918), il più importante tra quelli attivi a cavallo fra XIX e XX secolo, oltre che il maggiore esponente pittorico del Simbolismo austriaco. Klimt guidò la Secessione viennese fino al 1904, affermandosi in pochi anni come l’artista più rappresentativo dell’intero movimento. Le donne di Klimt e Woman in Gold.

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Egli sviluppò uno stile moderno, ritenuto quasi un emblema dello Sezessionstil (‘Stile secessionista’, altro nome con cui era conosciuto il movimento viennese), caratterizzato da una bidimensionalità accentuata e da una “impaginazione” asimmetrica, mossa da tratti curvilinei eleganti e sinuosi. Nei suoi dipinti e nei cicli murali egli combinò magistralmente astrazione e naturalismo, elementi ornamentali e dettagli illusionistici, mantenendo sempre un armonico equilibrio tra soggetto e decorazione. Le sue immagini sono costruite attraverso intrecci arabescati e incrostazioni a mosaico, vivacemente policrome; le scene sono esaltate dall’uso dell’oro, i cui effetti di forte astrazione simbolica negano ogni illusione di profondità e richiamano i preziosismi bizantini.

Le donne di Klimt

Giuditta, del 1901, è il dipinto che codifica il tipo klimtiano della donna fatale. Il tema della donna seduttrice e, a tratti, crudele fu molto diffuso nella letteratura e nelle arti visive tra il 1890 e il 1914 e venne affrontato in modo ricorrente dai pittori simbolisti e secessionisti. L’eroina biblica, presentata da Klimt come un’efferata assassina, ha le sembianze di Adele Bloch-Bauer, moglie di un industriale che commissionò varie opere all’artista e che divenne per lui una sorta di musa. Giuditta, nel dipinto di Klimt, ha appena compiuto il suo delitto e tiene tra le mani il macabro trofeo, la testa del generale Oloferne sedotto e ucciso.

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L’espressione della donna è carica di torbida voluttà: la bocca è infatti dischiusa mentre gli occhi appena socchiusi esprimono un sadico godimento. Pallidissima, seminuda, Giuditta porta al collo un pesante collare barbarico, che le separa nettamente la testa dal corpo. È una sorta di decapitazione simbolica, con la quale l’artista sembra voler vendicare la morte di Oloferne. Dietro la testa di Giuditta, sul fondo oro (che qui inaugura il cosiddetto “periodo aureo” di Klimt), si disegna un paesaggio arcaico di alberi, montagne e viti.

Gustav Klimt, Giuditta, 1901. Olio su tela, 84 x 42 cm. Vienna, Österreichische Galerie.

Klimt raffigurò nuovamente questo personaggio in un quadro del 1909, che infatti è noto come Giuditta II. Si tratta di un dipinto ad andamento fortemente verticale, dove la donna è mostrata non più a mezzo busto ma quasi per intero. Magra, elegante e sensuale, la donna è rappresentata mentre sta scappando dalla tenda del nemico ucciso. Il suo sguardo è sicuramente seducente ma allo stesso tempo ci appare cinico e crudele. Le sue lunghe mani, simili ad artigli, trascinano per i lunghi capelli la testa di Oloferne, che si intravede in basso. Ancora una volta, lo sfondo e i vestiti sono trattati come una raffinata decorazione bidimensionale. Linee a spirale si accostano a cerchi colorati concentrici, triangoli e piccoli rettangoli ravvicinati.

Gustav Klimt, Giuditta II, 1909. Olio su tela, 178×41 cm. Venezia, Galleria Internazionale d’arte moderna.

Un linguaggio sofisticatissimo

Come ben esemplificano questi due capolavori, Klimt seppe creare un suo affascinante e personale “bizantinismo”, adottando suggestioni diverse e molto eterogenee. Trasse dalla ceramografia greca e dall’arte egizia l’impostazione delle figure e degli eventi, allineati in simbolica sequenza; ricavò dalle stampe giapponesi la nitidezza incisiva delle linee, dalla decorazione micenea i caratteristici motivi spiraliformi; si ispirò alla scultura africana per elaborare le maschere inquietanti che simboleggiano il male. Le forme monumentali delle sue figure, i corpi dalla muscolatura turgida e ben evidenziata sono invece di estrazione classicistica e accademica.

A differenza di altri secessionisti, Klimt non rinnegò la plasticità classica ma superò la tradizione collocando i corpi entro composizioni ingegnose e assolutamente originali: le figure si articolano tra loro, si annodano in catene complesse, franano verso lo spettatore come cascate spettacolari. Allo stesso tempo, le loro contorte fisionomie si muovono entro un fondo astratto caratterizzato da un travolgente ritmo vibratorio. Queste intense decorazioni corpuscolari, questi fastosi mosaici composti da rombi, occhi di pavone, curve spiraliformi, tessere brillanti non sono mai abbandonati alla pura casualità e all’arbitrio; al contrario, sono governati da un controllo attento e serratissimo.

Gustav Klimt, Ritratto della baronessa Elisabeth Bachofen-Echt, 1914. Olio su tela, 1,28 x 1,80 m. Basilea, Kunstmuseum.

I ritratti femminili

Klimt fu un pittore molto versatile. Si dimostrò un paesaggista di grande sensibilità e soprattutto un ritrattista raffinato ed enigmatico. Ritrasse soprattutto la donna, un soggetto che amò particolarmente. Anche nella vita, egli fu sempre irresistibilmente attratto dalla figura femminile. Non si sposò mai (visse con la madre fino alla morte di lei), ebbe numerose storie, spesso fu al centro di qualche scandalo. Gli vennero attribuite burrascose liason con le sue modelle e anche con donne sposate, esponenti dell’alta borghesia e committenti dei suoi celebri ritratti. Pare che l’artista abbia avuto 14 figli illegittimi.

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Una delle donne più importanti della sua vita fu certamente Emile Flöge, una brillante stilista proprietaria di un salone di haute couture nel cuore della capitale austriaca. Non esistono prove di una relazione sentimentale vera e propria tra l’artista e la Flöge. Certo è che la donna fu una delle sue più importanti fonti di ispirazione oltre che la sua migliore amica per tutta la vita.

Emile Flöge in una riproduzione fotografica del primo Novecento.

Tutti i ritratti di Klimt puntano ad esaltare la bellezza femminile connotandola con l’eleganza sensuale, la raffinatezza aristocratica, la grazia distaccata e austera. Grande attenzione venne sempre posta sulla rappresentazione dei volti e delle mani, che spiccano sul fantasioso e fastoso arabesco degli sfondi e degli abiti.

Gustav Klimt, Ritratto di Emile Flöge, 1902. Olio su tela, 181 x 84 cm. Vienna, Wien Museum Karlsplatz.
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Gustav Klimt, Ritratto di Margaret Stonborough-Wittgenstein, 1905. Olio su tela, 179,8 × 90,5 cm. Monaco, Neue Pinakothek.

Woman in Gold

Il suo Ritratto di Adele Bloch-Bauer I, noto anche come Woman in Gold, è sicuramente il più famoso, non solo per la sua sfolgorante bellezza ma per essere stato al centro di una clamorosa controversia giudiziaria internazionale. Adele Bloch-Bauer era la figlia dell’imprenditore Maurice Bauer, sposatasi con Ferdinand Bloch, figlio del barone Bloch (un importantissimo industriale ebreo dello zucchero), e divenuta per questo motivo una delle più ricche ed eleganti esponenti del jet-set aristocratico viennese.

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Il suo salotto venne frequentato da compositori come Gustav Mahler, Richard Strauss, da intellettuali, scrittori e artisti, tra cui Klimt, per il quale la signora Bloch-Bauer fece anche da modella.  Molti ipotizzano che Adele e Klimt ebbero una relazione, ma l’ipotesi non è stata mai confermata. È certo che questa donna dallo sguardo distante e malinconico è colei che ricorre più frequentemente nelle opere di Klimt.

Gustav Klimt, Ritratto di Adele Bloch-Bauer I (Woman in Gold), 1907. Olio, argento e oro su tela, 1,38 x 1,38 m. New York, Neue Galerie.

Woman in Gold è realizzato su una tela perfettamente quadrata, dove la donna, mostrata lievemente a destra rispetto all’asse centrale, è letteralmente fagocitata dallo sfolgorio dell’oro, tra forme ondulate e gorgoglianti, in cui s’incontrano la veste, la poltrona, il pavimento e lo sfondo, dissolti in un brulicante e regale baluginìo che dissolve le forme e annulla i volumi. Solo il volto, dalla pelle diafana, lo scollo e le mani della donna emergono da questa sorta di liquido aureo e denso, mantenendo la loro riconoscibilità. Collocata fuori dal tempo e dallo spazio, resa un simbolo orgoglioso di regale bellezza (che, tuttavia, dalla medesima bellezza appare quasi sopraffatto), Adele viene qui trasfigurata in una dea.

Adele Bloch-Bauer in una riproduzione fotografica del primo Novecento.

Una storia a lieto fine

Adele morì nel 1925 di meningite, e pare abbia chiesto al marito di donare le opere di Klimt, in suo possesso, al Belvedere di Vienna. L’uomo, tuttavia, non rispettò la volontà della moglie e non diede mai disposizione di cedere i preziosi quadri al museo. Con l’avvento del nazismo i Bloch, essendo ebrei, furono costretti alla fuga. Tutti i loro beni vennero confiscati e, in buona parte, dispersi. Il barone Bloch morì esule in Svizzera, lasciando le sue proprietà, seppure rapinate dai nazisti, alle nipoti. Tra queste, Maria Altmann, fuggita negli Stati Uniti.

Gustav Klimt, Woman in Gold, 1907. Particolare.

Al termine della guerra, Woman in Gold, celebrato come la “Monna Lisa austriaca”, finì al Belvedere di Vienna, diventando una delle perle più preziose della galleria. Nel 1999, l’ormai ultraottantenne Maria Altman decise che era suo diritto tornare in possesso di ciò che la sua famiglia aveva perso a causa dei nazisti. Iniziò quindi la sua coraggiosa battaglia legale contro l’Austria, arrivando fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Nel 2006, una corte di giudici stabilì che Maria Altmann era effettivamente la legittima proprietaria sia del ritratto di Adele sia di altre quattro opere di Klimt, che dovevano esserle restituite.

Gustav Klimt, Woman in Gold, 1907. Particolare.

Tornata in possesso di Woman in Gold, Maria vendette l’opera all’asta per 135 milioni di dollari, a condizione che il capolavoro non tornasse mai più in Austria. Per questo motivo è oggi conservato a New York ed è esposto, permanentemente, nella Neue Galerie di Ronald Lauder, l’acquirente. Il dipinto è dunque diventato anche il simbolo della prepotenza nazista, che non solo sterminò milioni di famiglie ebree ma lucrò cinicamente sull’Olocausto.

Da questa straordinaria vicenda è tratto un film del 2015, Woman in Gold, con Helen Mirren e diretto da Simon Curtis.

Locandina del film Woman in Gold di Simon Curtis, 2015.


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