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Egon Schiele (1890-1918) fu il più attivo rappresentante del movimento espressionista austriaco. La prematura perdita del padre, malato probabilmente di sifilide, alimentò la sua ossessione per il tema della morte, associato a una sessualità compulsiva e sfrenata, al senso di colpa, alla costante ricerca di riscatto ed espiazione. Artista sensibilissimo, complesso, tormentato, Schiele sviluppò in senso dolorosamente espressionista la malinconia simbolista di Klimt, il maestro a cui fu sempre legatissimo.
In un doppio ritratto, intitolato, significativamente, Gli eremiti, Schiele si rappresentò unito a lui, le due figure quasi fuse in una sola, con Klimt alle sue spalle che lo sorregge e lo protegge: il padre mancato, il padre scelto.
Come Klimt, e ben più drammaticamente di Klimt, Schiele rappresentò nei suoi quadri la cruda realtà umana, gli aspetti più aspri della vita, con immagini dolorose e grottesche, segnate da un linearismo incisivo e di grande efficacia espressiva, da un vitalismo grafico struggente e, al contempo, elegantissimo. Il suo carattere inquieto e pessimista gli aveva fatto maturare un’idea tragica dell’esistenza e del mondo.
Di fronte a un’umanità fragile dilaniata dal terrore della morte, di fronte a un mondo gravato dalla fame e dalla miseria, oppresso dal mostro della tecnologia che rendeva le città invivibili, Schiele concluse amaramente che «tutto nella vita è morte» e votò la propria pittura all’ingrato compito di mostrare a tutti la straziante caducità dell’esistenza.
L’arte di Schiele fu prima di tutto introspettiva. Non è certamente un caso che il genere pittorico da lui più amato sia stato quello dell’autoritratto. L’artista si dipinse un centinaio di volte: ma non si trattò mai di una forma di esasperato narcisismo. Al contrario, i suoi autoritratti, in cui l’artista tendeva a presentarsi al pubblico completamente nudo, e quindi totalmente vulnerabile, furono l’occasione per una indagine psicologica acutissima e quasi spietata di sé stesso, della sua personalità, della sua vita.
Schiele era solito scrutarsi in uno specchio, alla ricerca di risposte che mai arrivarono nel corso della sua breve esistenza. Quello specchio gli rimandava l’immagine di un sé che era anche altro da sé, un secondo Io con il quale si trovava a convivere, e che non di rado rese manifesto nei suoi “doppi autoritratti” in cui gli Egon sono due, uguali ma distinti per espressione e atteggiamento, come gemelli dalla diversa personalità, complici e rivali, obbligati a condividere loro malgrado ogni momento della vita.
I precedenti letterari sul doppio erano autorevoli: da Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr. Hyde (1886) di Robert Stevenson al Ritratto di Dorian Gray (1890) di Oscar Wilde. Sigmund Freud, indagando l’animo umano con occhio lucido e clinico, proprio in quegli anni stava legando il tema del doppio al conflitto interiore, in chiave psicoanalitica. Schiele dimostrò di essere sensibilissimo a questa nuova, complessa e multiforme visione dell’uomo. E, senza dubbio, ben conosceva il celebre aforisma del filosofo Nietszche, secondo il quale l’artista moderno «non è una persona, ma tutt’al più un crogiolo di persone che alternativamente fanno capolino, l’una dopo l’altra con spudorata sicurezza».
I ritratti fotografici di Schiele ci mostrano sempre l’artista in espressione assorta e corrucciata, contratto in posizioni rigide, chiuso in sé stesso, con le sue grandi mani in primo piano, le dita distese e dure. C’è sempre qualcosa di forzato, di innaturale e sgraziato nelle immagini che Schiele propone di sé, come se fosse perennemente in atteggiamento di difesa nei confronti della vita e del mondo.
Altrettanto possiamo dire dei suoi autoritratti. In Autoritratto con dita aperte, per esempio, l’artista, appena ventunenne, esprime una tensione ben testimoniata anche dalla mano in primo piano, con le dita separate in un gesto che compare in molti suoi dipinti. E proprio le dita, lunghe e sottili, leggermente nodose, sono le vere protagoniste di questo autoritratto, come di altri.
Il pittore cerca esplicitamente di comunicare allo spettatore, suo privilegiato interlocutore, tutto il disagio e il tormento che lo accompagnavano quotidianamente e per questo punta i suoi grandi occhi scuri su chi idealmente si trova davanti a lui. Anche i colori, lividi e cupi, ben circoscritti da marcate linee di contorno, e la sostanziale assenza di chiaroscuro contribuiscono ad accentuare l’espressione di questa tensione spirituale. L’incarnato di Schiele, pallido e malsano, contrasta con il nero dei folti capelli arruffati e della maglia dalle lunghe maniche, suggerendo all’osservatore l’idea che l’artista fosse malato.
Ai più attenti non sfuggirà, tuttavia, che il pittore soffriva di una malattia che gli logorava il corpo ma proveniva dall’anima, obbligandolo talvolta ad urlare, come l’ometto di Munch che Schiele dovette avere ben presente.
In questo come in altri autoritratti, l’assoluta mancanza di prospettiva, l’appiattimento dello sfondo privo di evidenza spaziale, con gli oggetti talvolta presenti ma quasi sempre irriconoscibili, contribuiscono a proiettare l’immagine del pittore in un contesto a-temporale e come tale universale. Schiele parla di sé ma per parlare di tutti, si propone non come singolo individuo ma come emblema di una umanità sofferente, in cui ciascuno può riconoscersi.
In quanto esponente dell’Espressionismo, Schiele puntò a superare la languida eleganza, la preziosità bizantina, la ridondanza decorativa della pittura di Klimt, che pure negli stessi anni continuava a produrre i suoi grandi capolavori del periodo aureo. Tuttavia, Schiele non rinnegò mai le sue radici secessioniste, e conferì al proprio linguaggio espressionista una dolente raffinatezza che lo rendono inconfondibile, sin dalla sua firma, un logo diventato quasi un marchio di fabbrica.
Pur rigettando l’invadente simbolismo della Secessione viennese, Schiele adotta una linearità scarna e nervosa ma mai aggressiva o disturbante, come nel caso della pittura del tedesco Kirchner, anzi sempre fascinosa, ammaliante, languorosa. I temi drammatici affrontati dall’artista, ossia la morte, la sofferenza, la solitudine, l’eros stremante e che consuma, vengono in qualche modo sublimati e nobilitati da questa sua grafia aspra ma preziosa.
Dei tantissimi autoritratti di Schiele, molti rappresentano l’artista completamente nudo, secondo un modello, ancora una volta anticipato da Munch e che avrebbe avuto molta fortuna nel corso del Novecento.
Quello per certi versi più significativo è il cosiddetto Autoritratto nudo del 1910, oggi all’Albertina di Vienna. Schiele propone di sé un’immagine estrema in cui, nonostante la posa impudente e provocatoria, egli appare molto più vicino alla morte che alla vita; il corpo magrissimo è contorto, esangue e malato, carico di una tensione interna insostenibile che lo costringe, come sempre, a un atteggiamento goffo e forzato e a una gestualità esaltata e bizzarra. Un burattino i cui fili sono mossi da un’anima inquieta.
La fissità dello sguardo e il movimento contratto delle grandi mani ossute denunciano un’angoscia che logora e consuma. Schiele, che, ricordiamo, si autoritraeva riflettendosi in uno specchio, nel dipingersi si guardava e si mostrava allo stesso tempo, esibendo la sua magrezza ascetica e la sua asciutta muscolatura come se fosse stato privato della stessa pelle: abbandonato e inerme, egli era privo di difese. Intorno a lui, nei suoi autoritratti, è il nulla: al decorativismo esasperato di Klimt, Schiele oppose difatti la vertigine dello spazio vuoto. L’assenza di qualunque forma rassicurante attorno a sé esprime l’ansia dell’isolamento più radicale.
Il sesso maschile è spesso esplicitamente e impudicamente esposto ma risulta sempre evidente se l’artista intende presentarsi al pubblico in chiave introspettiva oppure erotica, laddove alcuni autoritratti non fanno dubitare che il vero tema affrontato è quello dell’eros.
In genere, gli autoritratti nudi di Schiele, con quel suo busto quasi scheletrico, le gambe magre e talvolta mutilate, le braccia alzate che spesso nascondono il volto, la pelle livida che contrasta con i toni algidi degli sfondi uniformi, non hanno nulla di volgare. Ciò che vediamo è un uomo fragile e solo, coraggiosamente esposto e, nel contempo, completamente disposto a condividere la propria fragilità, tanto da coinvolgere il pubblico in una forma di empatia solidale.
Esibendo enfaticamente la propria carne, obbligando chi guarda i quadri a farsi spettatore del suo rivelarsi, Schiele denuncia una realtà di dolore che non è solo sua; se rinuncia al desiderio di bellezza è per assecondare un radicale bisogno di verità, che tuttavia coinvolge tutti. La nudità di Egon è, prima di tutto, nudità dell’anima: chi osserva un suo quadro vi riconosce la propria.
Le faccio i miei più sentiti complimenti per il suo modo di farci penetrare nel meraviglioso mondo dell’arte. Chiarissimo e mai banale, mi ha fatto scoprire l’anima di un artista complesso e affascinante. Grazie
Analisi esaustiva e interessante di un artista e di un uomo alla incessante ricerca di sé mitrugno