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Fra i molti temi di cui si è occupata l’arte nei secoli, spicca certamente quello del tempo, affrontato con intenti e modalità assai differenti. Già la semplice rappresentazione del movimento si è sempre risolta, sin dall’antica Grecia, nel tentativo di cogliere l’attimo, di catturare il singolo istante di un processo durante il quale la figura o l’oggetto si spostano. E ciò si è confermato anche nei secoli successivi, pensiamo alle prodigiose soluzioni di “fermo-immagine” di Caravaggio o di Bernini. La persistenza della memoria.
Fu l’impressionista Monet, nel XIX secolo, quando affrontò la serie delle Cattedrali, a rendere manifesto come la visione personale di un oggetto appaia sempre relativa, in relazione allo scorrere del tempo. Egli rappresentò il medesimo edificio in diversi momenti della giornata e dell’anno, mostrando come questo cambi ai nostri occhi con il passare delle ore e dei giorni: la cattedrale è una ma le impressioni della cattedrale sono molte, al mattino, alla sera, d’estate, d’inverno.
Il tempo è presentato da Monet come una sommatoria di momenti: esso è ancora un tempo misurabile, oggettivo, scandito dagli orologi e dai calendari, ma gli effetti del tempo su di noi sono invece imprevedibili e come tali totalmente soggettivi. Il tempo ha dunque anche una valenza relativa ad ognuno di noi, è personale, dal momento in cui noi lo rielaboriamo a modo nostro e lo leggiamo in base alle nostre esperienze ed emozioni.
Cézanne volle rappresentare nei suoi dipinti l’essenza della realtà, attraverso l’adozione di una prospettiva multifocale, che scompone e ricompone l’immagine del mondo secondo i diversi punti di riferimento. Per questo, egli pervenne alla concezione della quarta dimensione, quella temporale. E, dopo di lui, e per sua ispirazione, anche Pablo Picasso, fondatore del Cubismo, si ricollegò alle nuove teorie scientifiche, in particolare dalla relatività di Einstein, sviluppando una concezione artistica inedita del rapporto spazio-tempo. Di questo parleremo meglio in un prossimo articolo.
Fu quindi con la modernità, e a partire dal XX secolo, che la questione “tempo” iniziò ad essere affrontata in modo più astratto, più riflessivo e filosofico.
L’Enigma dell’ora fu dipinto da Giorgio de Chirico (1888-1978), fondatore della Metafisica italiana, nel 1911. In questo dipinto osserviamo come l’intero spazio della tela venga occupato da un porticato ad arcate, che si affaccia su una grande piazza e nella cui ombra si scorge un uomo che aspetta immobile. I raggi del sole pomeridiano investono una misteriosa, enigmatica figura vestita di bianco, ferma nello spazio aperto, accanto a una vasca che si apre nel terreno, come una tomba, ed è probabile simbolo di morte. Il portico, nettamente distinto dal corpo superiore in muratura (dove si intravede una terza figura, girata di spalle), ricorda quello di Brunelleschi per l’Ospedale degli Innocenti.
Sia il titolo dell’opera sia l’orologio al centro dell’immagine rimandano al tema fondamentale del dipinto: quello del tempo, a sua volta collegato alla dimensione dell’enigma, del mistero. L’orologio segna le 14.55 ma le ombre lunghe indicano, chiaramente, che la scena è immaginata nel tardo pomeriggio e comunque a un’ora crepuscolare. Non vi è quindi corrispondenza fra il tempo segnato dallo strumento meccanico e il tempo della vita, dell’esistenza. Un tema che il surrealista Dalí avrebbe ripreso in un suo celebre capolavoro, La persistenza della memoria. De Chirico, insomma, vuole qui riflettere sulla dimensione metafisica del tempo, sulla condizione filosofico-esistenziale dell’eterno presente, ossia del tempo vuoto, del tempo sospeso.
La grande ammirazione che de Chirico nutrì per la filosofia di Friedrich Nietzsche (1844-1900) non può che ricondurre quest’opera al tema dell’eterno ritorno, nucleo centrale del pensiero nietzschiano in Così parlò Zarathustra (1881-85). Nietzsche aveva messo in discussione la struttura lineare del tempo e negato qualunque sua subordinazione a logiche che vogliano mostrarne lo sviluppo o il progresso. Il tempo, secondo il filosofo, ha una struttura circolare. Tutte le cose, tutti gli avvenimenti, tutte le esistenze ritornano eternamente. Il presente è destinato a ripetersi, in un continuo ripresentarsi dell’identico. Se tutto ritorna, ne consegue che tutto è uguale, tutto è equivalente. Secondo Nietzsche, ogni attimo esaurisce la totalità dell’essenza, perché tutto è attimo.
La persistenza della memoria, conosciuta anche come Gli orologi molli, fu invece dipinta da Salvador Dalí (1904-1989), esponente di spicco del Surrealismo, qualche anno più tardi, nel 1931.
Il dipinto rappresenta un paesaggio con scogli aguzzi e un ulivo secco e malinconico in primo piano. La composizione è fortemente asimmetrica, tutta sbilanciata verso sinistra. La luce è frontale e genera ombre profonde sulla superficie degli oggetti presenti. Due orologi flosci e viscidi penzolano dall’albero e da un cubo, mentre un terzo orologio molle si adagia sopra una inquietante sagoma biomorfa, una sorta di figura “cigliata”, simbolico autoritratto dell’artista. Un quarto orologio duro, compatto e chiuso, è assalito da un cumulo di formiche brulicanti. La scena risulta spiazzante per l’osservatore, non solo per l’irrazionalità del soggetto ma anche per l’inconsueto accostamento dei colori, che sono o molto scuri o molto chiari e sia caldi sia freddi: e cioè il celeste del cielo e degli orologi molli, il rosso dell’orologio rigido, il marrone rugginoso e il nero dell’ambiente, il giallo della luce e dei monti sullo sfondo.
Dalí intendeva mostrare che il trascorrere del tempo, misurabile da un punto di vista scientifico, è invece variabile nella percezione umana e nella memoria. Per questo, nel quadro, tre orologi sono molli, perché simboleggiano una condizione mobile, incontrollabile, non ferrea; essi rappresentano, insomma, l’aspetto psicologico del tempo. Il quarto orologio coperto di formiche (una sorta di riproposizione in chiave moderna della vanitas nelle nature morte seicentesche) rappresenta invece il tempo misurato dagli strumenti, il tempo oggettivo che corrode e consuma, come appunto stanno facendo le formiche sopra di esso. L’occhio addormentato simboleggia, invece, lo sguardo delirante del sogno, quello generato dall’inconscio, che sottrae alla realtà quotidiana.
Come scrisse lo stesso Dalí, «il tempo non è rigido. Fa una cosa sola con lo spazio, […] è fluido». Questo pensiero di Dalí ricalca quello del filosofo francese Henri Bergson (1859-1941), che nella sua prima grande opera, il Saggio sui dati immediati della coscienza (1884) aveva affrontato, alla fine dell’Ottocento, proprio l’analisi del tempo. Secondo Bergson, accanto al tempo della scienza – razionale, quantitativo e dunque misurabile – esiste anche un tempo interiore della coscienza. L’esperienza interiore del tempo è di tipo qualitativo, in quanto legata a percezioni, segue solo la logica degli stati d’animo ed è relativa ai bisogni e ai desideri di ciascun individuo.
Il tempo interiore scorre infatti rapidissimo se si è felici e invece appare lento in una condizione di noia o di tristezza. Anche la memoria fa parte di questo regno dove il tempo scientifico perde validità e senso. Succede di non memorizzare circostanze o situazioni temporalmente molto vicine o persone conosciute da poco e invece di ricordare benissimo eventi molto remoti, rimasti indelebili nella mente. Insomma, le regole del tempo scandito dall’orologio sono rigide (minuti di 60 secondi, ore di 60 minuti ecc.) ma le regole del tempo percepito sono elastiche. Esistono un tempo oggettivo assoluto e un tempo soggettivo relativo.
Anche l’affermazione di Dalí che il tempo «fa una cosa sola con lo spazio», certamente legata al vivacissimo dibattito sul rapporto spazio-tempo che animava il mondo scientifico e culturale di quegli anni – su cui si era basata la poetica del Cubismo – fa esplicito riferimento al pensiero di Bergson. Il filosofo considera la durata come l’esperienza soggettiva dello scorrere del tempo, un flusso continuo costituito dal succedersi degli stati di coscienza, intrecciati, indivisibili.
Il tempo oggettivo, quello misurabile, è invece solo un’astrazione. Compiendo questa operazione di astrazione nei confronti del nostro vissuto, noi possiamo ridurre la natura qualitativa del tempo a una sua concezione puramente quantitativa, fatta di istanti puntiformi, uguali gli uni agli altri, posti in successione lineare. Tale successione è anche spaziale, giacché gli istanti sono collocati in uno spazio fatto di prima e dopo. La durata diventa insomma spazio e noi operiamo una vera e propria spazializzazione del tempo.
Bergson, con la sua concezione filosofica, fu straordinariamente profetico: anche la fisica del Novecento avrebbe infatti superato, progressivamente, la concezione newtoniana di un solo tempo oggettivo dell’universo, ipotizzando che esistono “molti” tempi, diversi fra loro in relazione al sistema fisico di riferimento, alla velocità, alla gravità. Davvero, il tempo scandito dai nostri orologi è solo uno dei tanti possibili.
Esaltante , L analisi filosofica riportata nella pittura , direi emozionante , intima , dove il genio entra nell interpretazione espressa nell intimo del pensiero che va oltre la bellezza della pittura , Cosa dire , finalmente dare oltre la bellezza anche attraverso essa la capacità di pensieri costruttivi ,
Grazie mille per l’apprezzamento!
Una lezione ricchissima. Grazie
Mi fa molto piacere. Grazie a Lei per l’apprezzamento
bellissima lezione, sempre nuova e ricca di stimoli, grazie