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Ensor, Pirandello e Nietzsche: la maschera e la follia
«Nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti».
Autore: Giuseppe Nifosì Pubblicato in Postimpressionismo e Simbolismo – Data: Agosto 23, 2022 2 commenti 7 minuti
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James Ensor (1860-1949), pittore belga, uno dei grandi maestri del Simbolismo europeo, è universalmente considerato, e non a torto, il “pittore delle maschere”. Il tema della maschera comparve, nella produzione dell’artista, sin dal 1879, con il quadro Maschera che guarda un battelliere negro, ma divenne ricorrente solo a partire dal 1887.

James Ensor, L’intrigo, 1890. Olio su tela, 89,5 x 149 cm. Anversa, Musée Royaux des Beaux-Arts.

La gran parte dei suoi dipinti, da quell’anno, iniziò ad ospitare personaggi mascherati in modo orrido o grottesco. Maschere oltraggiose, respingenti: «Queste maschere piacevano molto anche a me, perché offendevano quel pubblico che non mi aveva compreso per niente», scrisse l’artista. Da pittore simbolista dissacrante ed eversivo, egli adottò la maschera carnevalesca per mostrare il lato più oscuro, ipocrita e cinico dell’umanità. Se normalmente le maschere nascondono, le sue invece svelano la falsità di chi le indossa.

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Della maschera divenne corollario lo scheletro, ineluttabile prefigurazione del destino umano e fonte di macabro umorismo. Ensor si spinse a intervenire su parte della sua produzione precedente al fine di aggiornarla con questi temi.

James Ensor, Il mio ritratto scheletrico, 1889. Olio su tela. Belgio, Collezione privata.

Autoritratto con maschere

Una delle opere più originali di Ensor, certamente la più viscerale e provocatoria, è Autoritratto con maschere, del 1899. Nel corso della sua lunga carriera, il pittore realizzò ben 112 autoritratti. In questo, che è il più famoso, Ensor si ritrae in mezzo a una folla triviale e chiassosa di personaggi mostruosi, bardati di piume e di stracci colorati, dalle tinte acide e aggressive. Tutti lo pressano e lo opprimono, impedendogli ogni via di fuga. Nessuno mostra il proprio volto, o comunque un volto umano: alcuni sono mascherati, altri sono truccati da clown, altri ancora si presentano come orridi scheletri.

James Ensor, Autoritratto con maschere, 1899. Olio su tela, 118 x 82 cm. Komaki, Aichi (Giappone), Ménard Art Museum.

L’artista, al centro del quadro, indossa un bizzarro cappellino femminile, fiorito e piumato, e guarda fisso lo spettatore, alla ricerca di un dialogo diretto. Nonostante il suo buffonesco travestimento, egli, in realtà, sembrerebbe essere l’unico essere umano ai nostri occhi “normale”, in quella folla di mostri: il suo volto è regolare, i lineamenti appaiono delicati, la barba è ben curata, i baffi ribelli sono vezzosamente arricciati vero l’alto. Ma l’artista resta comunque diverso da tutti gli altri, che lo vedono sicuramente come altro da loro, e in questa sua condizione di diversità si scopre irrimediabilmente solo.

James Ensor, Autoritratto con maschere, 1899. Particolare.

Le maschere di Ensor

D’altro canto, cos’è la normalità? I mostri, mascherati e truccati perché falsi, ipocriti e bugiardi, e in quanto scheletri già morti, dentro, senza nemmeno saperlo, si reputano normali, perché si riconoscono l’un l’altro. Quello “strano” è l’artista, che ha l’ardire di rivendicare la propria individualità, perfino la libertà di mettersi un cappello da donna in testa, contravvenendo a tutte le convenzioni sociali che lo vogliono uomo vestito rigorosamente da uomo.

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Lo aveva già fatto alcuni anni prima, nel 1888, in Autoritratto col cappello fiorito, dove aggiunse un cappello femminile a un suo precedente autoritratto del 1883. Con questo non intendiamo sostenere che Ensor amasse, nel privato, vestirsi da donna, cosa che non ci risulta: importa che egli scelse di farlo, pubblicamente e provocatoriamente, in un autoritratto, perché lo reputava un suo diritto, anche a costo di apparire agli occhi degli altri bizzarro o addirittura pazzo. In tal senso, la modernità e attualità di questi dipinti sono a dir poco sbalorditive.

James Ensor, Autoritratto col cappello fiorito (Il mio ritratto in maschera), 1883-88. Olio su tela. Ostenda, Museo Ensor.

Certo, il concetto stesso di normalità non si addiceva a questo artista, progressista, positivista, incline al libero pensiero venato di anarchismo, ostentatamente pittoresco nella sua quotidianità. Cresciuto nel negozio della madre a Ostenda, dove si vendevano souvenir e curiosità esotiche, «tutta iridescente di conchiglie e sontuosi merletti, ma anche di strane bestie impagliate e terribili armi di selvaggi che mi spaventavano», scelse poi di vivere per gran parte della sua vita autorecluso in una casa-studio stracolma di oggetti, tra cui cineserie e, ovviamente, maschere carnevalesche (vi morì, sulla soglia dei novant’anni, nel 1949).

James Ensor, Ingresso di Cristo a Bruxelles, 1888. Olio su tela, 2,50 x 4,31 m. Los Angeles, Getty Museum.

Le maschere di Pirandello

Le maschere di Ensor simboleggiano la condizione alienante e repressiva cui ci obbliga una società superficiale, materialista e conformista. D’altro canto, tutta la vita, secondo lui, è solo una grottesca finzione. La pensava così anche lo scrittore e drammaturgo Luigi Pirandello (1867-1936), il quale scrisse, in uno dei suoi capolavori, Uno, nessuno e centomila, pubblicato nel 1925: «Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti».

Luigi Pirandello.

Le analogie fra l’opera letteraria di Pirandello (che di Ensor fu quasi coetaneo) e la pittura del maestro belga sono tante e indubbie. Il grande letterato italiano, al pari del pittore, basò la propria poetica sul tema della maschera e della finzione. Nel suo teatro del grottesco, dove si mescolano dramma e comicità, Pirandello fa muovere personaggi costretti a fare i conti con le ragioni di una collettività opprimente, obbligati ad accettare un ruolo fisso, ad attenersi a un preciso codice di comportamento, nella consapevolezza che il rifiuto delle convenzioni comporta l’esclusione dal contesto sociale.

James Ensor, Autoritratto con maschere, 1899. Particolare.

Secondo Pirandello, l’individuo può scegliere di adeguarsi alle norme che gli vengono imposte, di indossare di volta in volta la maschera che la situazione richiede: oppure, può ribellarsi, accettando il divario tra le proprie necessità e quelle della collettività. In tal caso, egli diventa «una maschera nuda», incarna (come Ensor con il cappellino da donna in testa) la figura del folle.

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«Perché trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni! Eh! Che volete? Costruiscono senza logica, beati loro, i pazzi. […] Voi dite: “questo non può essere!” e per loro può essere tutto» (Enrico IV, atto II). Solo il folle può definirsi libero, solo il folle è capace di vedere e di affermare la verità.

James Ensor, Ingresso di Cristo a Bruxelles, 1888. Particolare.

Il folle di Nietzsche

Lo aveva affermato anche il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900), in uno dei suoi aforismi più celebri, il n. 125 tratto dalla Gaia Scienza e noto come Aforisma dell’Uomo Folle. Il folle uomo accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e annunciò la morte di Dio, suscitando la generale ilarità.

«Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!». L’uomo folle, di cui tutti ridono, è invece il profeta del mondo contemporaneo, che annuncia (attraverso la metafora della morte di Dio, da intendersi come morte della morale, della logica, della verità) la crisi etica del mondo contemporaneo, il suo radicale e trionfante nichilismo, divenuto condizione dell’uomo moderno.

Friedrich Nietzsche in una foto del 1882.


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