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Flagellazione e incoronazione di spine di Tiziano: una tecnica innovativa
Le iconografie di un momento drammatico della Passione di Cristo.
Autore: Giuseppe Nifosì Pubblicato in L’età rinascimentale: il Cinquecento – Data: Ottobre 20, 2020 0 commenti 7 minuti
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La Flagellazione è un momento della Passione di Cristo, successivo al suo Processo, ispirato ai Vangeli di Matteo, Marco e Giovanni, che tuttavia fanno un semplice riferimento a questo evento, senza descriverlo. Secondo gli Evangelisti, infatti, Gesù fu sottoposto per ordine di Ponzio Pilato al supplizio della flagellazione. Questa forma di tortura, piuttosto ricorrente al tempo dei Romani, consisteva nel percuotere più volte il condannato con il flagellum (o flagrum), una particolare frusta costituita da un robusto manico da cui si dipartivano varie cinghie di cuoio o corde, a loro volta terminanti in piccoli oggetti acuminati, come schegge d’osso o piombi a forma di manubrio. Flagellazione e incoronazione di spine di Tiziano.

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I colpi venivano inferti da due aguzzini (tortores), che si alternavano, e procuravano due tipi distinti di ferite: una lunga, provocata dalle corde, e una più aperta e profonda, causata dalle schegge. Il numero dei colpi variava, a seconda che la flagellazione fosse una punizione esemplare, cioè fine a sé stessa, oppure che precedesse la crocefissione, come nel caso di Gesù. A volte, la flagellazione costituiva una vera e propria forma di esecuzione: il suo prolungarsi, infatti, portava alla morte perché produceva lacerazioni così profonde da mettere allo scoperto le ossa.

Non conosciamo il numero di colpi inferti sul corpo di Cristo; è assai probabile, tuttavia, che egli sia stato frustato nudo e a schiena curva, legato a una bassa colonna. In mancanza di una precisa descrizione evangelica della Flagellazione, gli artisti hanno avuto la libertà di riproporla secondo la loro fantasia.

Iconografia della Flagellazione

Nelle rappresentazioni della Flagellazione, normalmente Cristo è mostrato a figura intera, coperto solo da un panno ai fianchi, legato a una colonna piuttosto alta, con le mani dietro la schiena, ed è affiancato dai carnefici che lo colpiscono. Ha il volto verso lo spettatore, particolare, questo, storicamente inattendibile. Il suo corpo può mostrare ferite più o meno accentuate, e questo dipende dalla sensibilità di ogni singolo artista. Talvolta la figura di Cristo è presentata senza i carnefici. Questa particolare versione iconografica della Flagellazione è chiamata, più semplicemente, “Cristo alla colonna”.

L’Incoronazione di spine

L’Incoronazione di spine è il momento della Passione di Cristo successivo alla Flagellazione, descritto con una certa evidenza da Matteo, Marco e Giovanni. Secondo questi Evangelisti, Gesù fu sottoposto dai soldati romani a un’ulteriore forma di tortura, suggerita loro dal particolare capo d’accusa. Siccome Ponzio Pilato aveva condannato Gesù per essersi dichiarato “Re dei Giudei”, essi lo schernirono e, dopo averlo flagellato, lo travestirono da re, ponendogli sulle spalle un vecchio mantello e infilandogli sulla testa una rudimentale corona ricavata da un ramo spinoso, i cui aculei gli si conficcarono nella carne.

La raffigurazione di questo episodio cominciò ad apparire solo in età medievale. Nella maggior parte dei casi Cristo è raffigurato frontalmente, seduto o in piedi, con le mani legate e il corpo segnato dalle frustate, mentre uno o più carnefici gli premono sul capo la corona di spine, a volte aiutandosi con un bastone per non pungersi a loro volta.

Le due Incoronazioni di spine di Tiziano a confronto.

Due capolavori di Tiziano

Questo soggetto della Passione è stato affrontato da molti artisti rinascimentali, tra cui Tiziano Vecellio (1488/1490-1576), grande maestro della pittura veneta del Cinquecento. Il pittore dipinse l’Incoronazione di spine in ben due versioni, e in due differenti momenti della sua vita e della sua carriera. Confrontarle, aiuta anche a capire, a colpo d’occhio, come si evolse lo stile di Tiziano negli anni della sua maturità. Il primo, oggi al Louvre, fu dipinto dall’artista negli anni 1542-44, su commissione della Confraternita della Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano.

Tiziano, Incoronazione di spine, 1542-44. Olio su tavola, 3,03 x 1,8 m. Parigi, Musée du Louvre.

Il vigore plastico dei corpi e la drammatica concitazione delle figure testimoniano l’attenzione dell’artista per le importanti novità della cosiddetta “scuola romana”, che vedeva attivi Raffaello e soprattutto Michelangelo. La composizione è priva di linee orizzontali o verticali e le figure, illuminate da una forte luce radiante, s’intrecciano in posizioni angolari e con un moto vorticoso. A prima vista, sembra prevalere un generale effetto scultoreo: le membra dei quattro aguzzini richiamano, per esempio, la scultura ellenistica del Laocoonte. Osservando l’opera con attenzione, si nota però che il colore tende a rendere le figure prive di peso e subordina il volume al ritmo generale della composizione.

Tiziano, Incoronazione di spine, 1542-44. Particolare.

La seconda versione

Fra il 1570 e il 1576, Tiziano dipinse una seconda versione dell’Incoronazione di spine, oggi conservata a Monaco. In questa nuova opera, che segue di trent’anni la precedente, la semioscurità cupa e fosca della versione parigina è rischiarata dalla luce del lampadario fumante. La composizione asimmetrica è ancora costruita con l’intreccio di curve spiraliformi, che s’intrecciano legando un corpo all’altro, ma le figure appaiono come sfaldate, dissolte nel colore steso a pennellate rapide e brevi.

Tiziano, Incoronazione di spine, 1570 ca. Olio su tela, 2,80 x 1,82 m. Monaco, Alte Pinakothek.

Stile e metodo del Tiziano maturo

Giovanni Paolo Lomazzo (1538-1592), pittore e trattatista, definì la pittura dell’ultimo Tiziano «un terribile ed acuto lume». In effetti, negli anni della maturità, il grande maestro veneto abbandonò la maniera luminosa e tonale del periodo giovanile, elaborando, al posto di quella, un suo stile personalissimo, contraddistinto da pennellate vigorose e sporche, che per originalità e importanza può essere equiparato soltanto al non-finito michelangiolesco. Sicuro conoscitore del meccanismo della visione, Tiziano affidò allo spettatore il compito di completare, nella sua mente, le immagini che lui si limitava a suggerire, attraverso forme poco definite e nebulose.

Palma il Giovane

È interessante la testimonianza di un allievo di Tiziano, Palma il Giovane (1548-1628) – riportata dal trattatista Marco Boschini (1602-1681) – il quale ricorda: «ne ho veduti anch’io de’ colpi rissoluti con pennellate massicce di colore, alle volte d’uno striscio di terra rossa schietta […]; altre volte con una pennellata di biacca, con lo stesso pennello, tinto di rosso, di nero e di giallo, formava il rilievo di un chiaro, e con queste massime di dottrina faceva comparire in quattro pennellate la promessa di una rara figura». Poche, sicure pennellate servivano e bastavano per definire, in modo apparentemente estemporaneo ma efficacissimo, una figura già tridimensionale ma lasciata allo stato di abbozzo.

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Poi, prosegue Palma, «[Tiziano] rivolgeva i quadri al muro, e gli lasciava alle volte qualche mese senza vederli; e quando poi di nuovo vi voleva applicare i pennelli, con rigorosa osservanza li esaminava».

Il maestro, dunque, non finiva i quadri ma li lasciava da parte, aspettando che idee e colori decantassero. Solo dopo questa pausa egli riprendeva il lavoro, per giungere alla stesura definitiva: «il condimento degli ultimi ritocchi era andar di quando in quando unendo con sfregazzi delle dita negli estremi de’ chiari, avvicinandosi alle mezze tinte, ed unendo una tinta con l’altra; altre volte invece con uno striscio delle dita pure poneva un colpo d’oscuro in qualche angolo per rinforzarlo, oltre che qualche striscio di rossetto, quasi gocciole di sangue, che invigoriva alcun sentimento superficiale, e così andava riducendo a perfezzione le sue animate figure». Insomma, Tiziano dipingeva più con le dita che con i pennelli.


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