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Damien Hirst (1965), artista inglese, domina la scena internazionale a partire dagli anni Novanta. È considerato tra gli artisti viventi più ricchi e famosi del mondo. Tanto controverso quanto tormentato, Hirst incarna la mai tramontata immagine dell’artista maledetto. Nato in provincia, abbandonato dal padre, cresciuto con una madre depressa, refrattario a qualsiasi forma di educazione, ribelle, si è imposto nel mondo dell’arte con assoluta spregiudicatezza e con opere spiazzanti e irriverenti, capaci ogni volta di far discutere. Il tema centrale del suo lavoro è stato, ed è ancora oggi, la morte, affrontata con ricorrenza quasi ossessiva.
Tra le sue opere si distingue anche For the love of God, una sorta di scultura realizzata nel 2007. Si tratta di un teschio di platino ricavato dal calco di un vero cranio (appartenuto a un giovane uomo morto a 37 anni), con i denti originali, ricoperto da 8.601 diamanti, per un totale di 1.106,18 carati. Sulla fronte, in particolare, è incastonato un enorme diamante rosa. Pare che il titolo, oggettivamente bizzarro, sia stato ispirato dalla madre dell’artista, la quale ha commentato questa ennesima trovata del figlio esclamando, scandalizzata: «per l’amor di Dio!» Oggi, For the love of God è valutata 99 milioni di dollari.
L’immagine di For the love of God, per quanto possa sembrare singolare, in realtà non è affatto nuova, anzi può quasi considerarsi una citazione; infatti richiama, sia pure con smaccata provocazione, le reliquie dei santi, che nel XVII secolo erano “addobbate” per essere esposte alla pietà dei fedeli, e anche certi capolavori barocchi sulla vanitas e il memento mori (letteralmente, ‘ricordati che devi morire’), inclusi gli scheletri che addobbano i monumenti funebri del Bernini, entrambi in san Pietro.
Come nell’opera di Hirst, il tema della morte ha serpeggiato in tutta l’arte barocca: il sentimento religioso, la ricerca della purezza dopo le direttive del Concilio tridentino ne determinarono una presenza davvero ingombrante. Immagini di morte, cupe e terrificanti, furono proposte continuamente da pittori, scultori, decoratori per adornare i catafalchi delle grandi pompe funebri, scomponendosi in ghirlande di teschi e di tibie incrociate che rammentano all’uomo il suo ineluttabile destino. Rubini e pietre preziose hanno adornato teschi e scheletri, simboleggiando a un tempo la caducità della vita terrena e l’eternità dello splendore della fede.
Anche lo scopo di For the love of God, secondo le parole dello stesso Hirst, è quello di obbligare la gente a riflettere su ciò che istintivamente rifiuta, ossia l’idea della morte: nel contempo, come ci hanno insegnato gli artisti del XVII secolo, lo splendore dei diademi ha il compito, non troppo occulto, di esorcizzare la paura della morte e, in un certo senso, di negarla. Ha infatti detto Hirst di questa sua opera: «Ho sempre pensato a che cosa puoi buttare fra i piedi della morte, […] così un giorno che avevo un sacco di contante fra le mani ho pensato di fare il mio teschio. La ragione per cui mi piace non ha niente a che fare con il denaro. È che sembra così nuovo, caldo e invitante che fa sembrare tutto il resto ok, compresa la morte, che credo sia un po’ un’illusione… vero?».
Di fronte a qualunque opera d’arte che rappresenti una persona è legittimo chiedersi: chi fu costui, costei? Che vita visse, quale fu la sua storia? Quali sentimenti provò? Ha amato, sofferto? Come noi, più di noi? Le opere d’arte non sono semplici oggetti da museo, esse hanno sempre una storia da raccontare. Talvolta, possiamo solo lavorare di fantasia, compiendo un’operazione di tipo prettamente letterario, ma questo nulla toglie al fascino di quelle immagini che, anzi, risulteranno perfino più vitali e palpitanti.
For the love of God è stata ricavata da un vero teschio umano. Spingiamoci quindi a interrogarla e ad immaginare una sua risposta (una delle tante possibili).
«Sono morto una notte d’inverno, più di duecento anni fa. Non ho molto da raccontare sulla mia vita, non sono mai uscito dalla mia città, ho amato per poco, ho lavorato come molti. Sono morto sulla strada, sotto la pioggia, ne ricordo il suono, l’ultimo che le mie orecchie sentirono. Tornavo a casa dopo una bevuta, come tante sere prima di quella. Non soffrii molto, la lama nella mia schiena mi portò via la vita in fretta, senza darmi il tempo di dire la mia. Senza darmi il tempo di dire addio al mare, senza rivedere gli occhi di mia madre. Avevo paura, quello sì, ho avuto paura. Il marciapiede era freddo, ma il sangue lento mi scaldò. Dicono che quando stai per morire la vita ti passi davanti, a me non successe. È stato un momento d’attesa infinita, di una solitudine incolmabile.
Un uomo iniziò a rovistarmi nelle tasche nervosamente. Che morte sciocca, per qualche spicciolo che l’indomani sarebbe già stato speso. Che avrebbe girato di mano in tasca senza che nessuno sapesse la sua storia. Ma mi aggrappai a quel contatto umano, a quelle mani su di me, come ultimo abbraccio. Nessuno mi aveva detto quanto potesse essere forte il silenzio. Ed io non lo avrei potuto dire più a nessuno.
Ha avuto un prezzo la mia morte, ha avuto un prezzo il mio cranio, ed ora ha un prezzo la mia maschera.
Mi è stato portato via il respiro, poi il corpo ed ora non ho più i denti. Mi chiedo quanto un uomo possa sopportare dopo la sua morte.
Mi manca essere visto. La gente mi guarda in faccia, ma nessuno conosce il mio viso, il mio sguardo vaga ansimante senza trovare posa. Dove mi trovo? Non lo so, ma nessuno mi accarezza più la fronte, le mie dita incontrano la terra mentre cercano altre mani. La vita che avevo non ricorda più il mio nome.
Tu, guardami! Guardami e dimmi, quanto è costata la mia morte?
Ora il mio volto brilla nell’oscurità più nera, vale più di quanto io abbia mai potuto avere in tutta la mia esistenza. Ma questo artista, che adesso guadagna trasformando il mio cranio in un’opera d’arte, avrebbe pagato, e quanto, per proteggere la mia vita e sconfiggere la morte? E chi, ti chiedo chi, oggi comprerebbe la mia salvezza?».
(Il brano finale è di Chiara Nifosì, Scuola Holden)
Molto bello