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Fotografi di guerra: ieri, oggi
L’evidenza lacerante dell’orrore.
Autore: Giuseppe Nifosì Pubblicato in Arte, fotografia e cinema – Data: Ottobre 27, 2020 5 commenti 11 minuti
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Durante gli anni drammatici della seconda guerra mondiale, e nell’immediato dopoguerra, non soltanto artisti, scrittori e intellettuali levarono la propria voce per denunciare le conseguenze di un conflitto oggettivamente mostruoso: anche i fotoreporter si rivelarono sensibili e coraggiosi testimoni di questa tragedia. I loro scatti, molti dei quali diventati vere e proprie icone, mostrarono a tutti, con una forza ancora più immediata dei disegni e delle tele, l’evidenza lacerante dell’orrore. Fotografi di guerra: ieri, oggi.

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Robert Capa

Uno dei più importanti e celebrati fotografi di guerra del XX secolo fu l’ungherese Endre Ernö Friedmann (1913­1954), meglio noto con lo pseudonimo di Robert Capa, testimone e narratore di ben cinque diversi conflitti bellici: la guerra civile spagnola (1936­-39), la seconda guerra sino­giapponese (1938), la seconda guerra mondiale (1941-­45), la guerra arabo­israeliana (1948) e la prima guerra di Indocina (1954).

Capa divenne famoso in tutto il mondo nel 1936 quando, sul campo di battaglia della guerra civile in Spagna, fotografò, per caso, un soldato dell’esercito repubblicano nel preciso istante in cui questi venne colpito da un proiettile. La foto, prima pubblicata dal rotocalco francese «Vu», il 23 settembre 1936, e poi resa popolare dal settimanale americano «Life», il 12 luglio 1937, sarebbe diventata una vera e propria icona, un simbolo drammatico delle conseguenze di ogni guerra.

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Le parole di Capa

«Ho scattato la foto in Andalusia – raccontò Capa – mentre ero in trincea con 20 soldati repubblicani, avevano in mano dei vecchi fucili e morivano ogni minuto. […] Ho messo la macchina fotografica sopra la mia testa e senza guardare ho fotografato un soldato mentre si spostava sopra la trincea, questo è tutto. Non ho sviluppato subito le foto, le ho spedite assieme a tante altre.

Sono stato in Spagna per tre mesi e al mio ritorno ero un fotografo famoso, perché la macchina fotografica che avevo sopra la mia testa aveva catturato un uomo nel momento in cui gli sparavano. Si diceva che fosse la miglior foto che avessi mai scattato, ed io non l’avevo nemmeno inquadrata nel mirino perché avevo la macchina fotografica sopra la testa». E ancora: «per scattare foto in Spagna non servono trucchi, non occorre mettere in posa. Le immagini sono lì, basta scattarle. La miglior foto, la miglior propaganda, è la verità».

Robert Capa, Morte di un miliziano lealista. Fronte di Cordova, inizio settembre 1936. Fotografia.

Spinto da questa voglia di raccontare la verità, Capa non esitò a rischiare personalmente, quotidianamente la vita: egli non fu un soldato, tecnicamente, ma fece la guerra come tutti gli altri: sempre in trincea, sempre in prima linea, sempre a sfidare le pallottole che certamente non sanno distinguere tra un combattente e un fotografo. Durante la seconda guerra mondiale, nel 1943, raggiunse la Sicilia lanciandosi con un paracadute; memorabili le sue immagini dei soldati statunitensi che fraternizzano con i contadini siciliani.

Lo sbarco ad Omaha Beach

Nel 1944 partecipò al terribile sbarco del contingente americano ad Omaha Beach, in Normandia. Corse in mezzo ai soldati, sotto la pioggia di proiettili tedeschi che stavano facendo strage. Queste sue foto, improvvidamente rovinate durante il loro sviluppo, sono la testimonianza più autentica e straordinaria di quella drammatica pagina di storia. Capa morì durante la prima guerra di Indocina, come uno dei tanti soldati, ucciso da una mina antiuomo.

Robert Capa, Sbarco delle truppe americane a Omaha Beach. Normandia (Francia), 6 giugno 1944. Fotografia.

Bourke-White

La fotografa statunitense Margaret Bourke-White (1904­-1971) fu la prima straniera ad avere il permesso di scattare foto in Unione Sovietica, nonché la prima corrispondente di guerra donna e la prima donna fotografa per il settimanale «Life». Aveva esordito negli anni Trenta con reportages sull’America della Grande Depressione. La primissima pubblicazione di «Life», del 23 novembre 1936, le dedicò la copertina: uno scatto dei lavori finiti della diga di Fort Peck, nel Montana. Un’immagine che fece subito il giro del mondo. Per conto della prestigiosa rivista americana si trasferì in Europa, con lo scopo di raccontare la vita sotto le dittature e durante la seconda guerra mondiale.

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Sperava che mostrare la verità, in tutta la sua crudezza, potesse salvare la democrazia del mondo: «sono fermamente convinta – disse anni dopo – che il fascismo non avrebbe preso il potere in Europa se ci fosse stata una stampa veramente libera che potesse informare la gente invece di ingannarla con false promesse». Fu lei la fotografa ad entrare, assieme agli alleati, nel campo di concentramento di Buchenwald il giorno dopo la liberazione, e a raccontare per prima al mondo l’orrore dell’Olocausto. I suoi sono scatti sconvolgenti. «Ho visto e fotografato i cumuli di corpi nudi e senza vita, gli scheletri umani nei forni, gli scheletri viventi che sarebbero morti da un giorno all’altro. […] Usare la macchina fotografica era quasi un sollievo: poneva una sottile barriera tra me e l’orrore che mi trovavo di fronte».

Margaret Bourke-White, Buchenwald. Germania, 1945. Fotografia.

Florea

L’americano John Florea (1916-2000) aveva esordito, negli anni Trenta, come fotografo di Hollywood e in particolare come ritrattista delle dive. Per conto della rivista «Life», negli anni del secondo conflitto mondiale, si recò in Europa per realizzare reportages di guerra, concentrandosi soprattutto sui soldati. Entrato con gli alleati nel campo di concentramento di Mittelbau­Dora, ebbe modo di fotografare gli ebrei sopravvissuti ma soprattutto i tanti morti e il loro pietoso seppellimento. I suoi ritratti di soldati e di prigionieri sono tra gli scatti più intensi e sensibili del XX secolo: uomini e, soprattutto, ragazzi che portano negli occhi immagini che non possono essere descritte, i cui sguardi raccontano della paura, dell’angoscia, dell’annichilimento. Talvolta nemici, perché così ha voluto la Storia, ma accomunati dal medesimo senso di privazione, da un’uguale sensazione di svuotamento.

John Florea, Prigioniero di Guerra statunitense dopo la liberazione da un campo di prigionia tedesco. Limburg (Germania), 1945. Fotografia.
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John Florea, Prigioniero di guerra tedesco di 15 anni. Giessen (Germania), 1945. Fotografia.

Bischof

Uno dei più famosi fotoreporter del XX secolo fu lo svizzero Werner Bischof (1916-­1954) che aveva esordito, giovanissimo negli anni Trenta, con immagini intensamente poetiche e innovative di oggetti, fiori e corpi nudi e con brillanti composizioni segnate da giochi di luci ed ombre. Finita la guerra, nel 1945, ebbe modo di verificare, viaggiando per la Germania, la Francia e l’Olanda, quanto fossero stati drammatici gli esiti dei bombardamenti. Decise allora di dedicarsi a questo specifico tema, proponendosi come uno dei testimoni più lucidi delle condizioni in cui versava l’Europa.

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Se Robert Capa, il fotoreporter senza paura, sarebbe diventato famoso per aver documentato lo sbarco in Normandia, fu Bischof a guardare, con l’occhio disincantato e poetico dell’artista, il desolante scenario delle città distrutte e della gente privata dei propri beni, abbandonata ad un futuro incerto. Le sue foto, di altissima qualità e profondamente intense, ci mostrano vecchi che vagano, smarriti, tra le rovine, alla ricerca di chissà cosa, ma anche bambini che giocano tra i muri diroccati, come a voler dimostrare che, alla fine, la speranza sa prevalere sullo sconforto.

Le parole di Bischof

«Non dimenticate – scrisse Bischof – che io cerco la bellezza. Mi interessa scoprire, per esempio, […] ciò che nasce dal nulla e quanto la bellezza umana si possa trovare anche nella più profonda sofferenza». Questi suoi reportages fotografici furono pubblicati da «Life» nel 1949. Consapevole che un fotografo ha una importantissima responsabilità sociale, cioè quella di raccontare la vita, iniziò a viaggiare per il mondo, mantenendo sempre vivissimo il suo interesse per la gente, soprattutto quella più umile, di cui mostrò sofferenze, speranze, illogiche allegrie.

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Morì prematuramente sulle Ande peruviane, per un incidente automobilistico, subito dopo aver realizzato lo scatto per cui è rimasto più famoso: quello di un ragazzo peruviano, che cammina sulla strada per Cuzco suonando il flauto. Solo pochi giorni dopo, all’altro capo del mondo, in Indocina, una mina antiuomo avrebbe portato via anche Robert Capa.

Werner Bischof, Girotondo. Freimburg im Breisgau (Germania), 1945. Fotografia.

Ancora guerre, ancora orrori

Altri coraggiosi fotoreporter ci hanno raccontato (e ci raccontano), in questi anni, l’orrore di guerre lontane, combattute ai confini del mondo, e che probabilmente tenderemmo a dimenticare.

Lo statunitense Eddie Adams (1933-2004) partecipò come fotografo di guerra a 13 conflitti. Fu durante il suo reportage sulla guerra del Vietnam che scattò la sua fotografia più conosciuta: quella della brutale uccisione di un prigioniero vietcong, da parte del capo della polizia del Vietnam del Sud. Con questa foto vinse il premio Pulitzer per la fotografia 1969 e il premio World Press Photo.

Eddie Adams, Uccisione di un prigioniero vietcong. Vietnam, 1968. Fotografia.

Un’altra foto iconica è opera di Nick Út, all’anagrafe Huynh Công Út (1951), fotografo vietnamita, anch’egli vincitore del premio Pulitzer. Si tratta della fotografia di una bambina di nove anni, nuda e gravemente ustionata, che fugge urlando dal suo villaggio attaccato da un bombardamento al napalm.

Nick Út, Bambini vietnamiti fuggono dal loro villaggio, 1972. Fotografia.

Uno dei più celebrati maestri della fotografia, lo statunitense Steve McCurry (1950), insignito della prestigiosissima Robert Capa Gold Medal for Best Photographic Reporting from Abroad, ha fotografato tutti i principali conflitti internazionali, in Pakistan e Afghanistan, in Iran, Iraq, Cambogia, Filippine. Straordinarie e toccanti le sue testimonianze della Guerra del Golfo, che si concentrano sulle conseguenze del conflitto, tra cui la devastazione del territorio.

Steve McCurry, Giacimenti di petrolio Al Ahmadi, Kuwait, 1991. Fotografia.

James Nachtwey

L’americano James Nachtwey (1948) ha lavorato per il «Time» in tantissimi paesi, tra cui Nicaragua, Guatemala, Libano, Cisgiordania, Gaza, Israele, Sudan e Rwanda, mostrando fino a dove possono arrivare l’odio e la ferocia dell’uomo. Ha scritto: «sono stato testimone, e queste immagini sono la mia testimonianza. Gli eventi che ho registrato non vanno dimenticati e non devono essere ripetuti».

James Nachtwey, Genocidio in Rwanda, 1994. Fotografia.

La Pietà yemenita

È stata intitolata Pietà yemenita la foto con la quale Samuel Aranda (1979), fotoreporter spagnolo, ha vinto il World Press Photo of the Year nel 2011. Una donna musulmana, che ha il volto e il corpo completamente coperti dal burka, abbraccia il figlio diciottenne ferito durante gli scontri scoppiati a Sanaa, capitale dello Yemen, durante la Primavera araba.

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Samuel Aranda, Pietà yemenita, 2011. Fotografia.

Intensi e toccanti sono anche gli scatti dell’italiano Fabio Bucciarelli (1980), che dal 2010 documenta i drammatici conflitti scoppiati in Africa e Medio Oriente, tra cui la guerra civile libica e la guerra nei territori occupati dallo Stato Islamico in Siria. Per le sue foto ha vinto prestigiosissimi riconoscimenti internazionali, tra cui, nel 2012, la Robert Capa Gold Metal, assegnata ogni anno al reporter che più si è contraddistinto per le sue eccezionali doti di coraggio e intraprendenza. Quella dei disperati che fuggono via mare dalla guerra sperando nella salvezza e in una nuova vita è storia drammatica dei nostri giorni.

Fabio Bucciarelli, Una famiglia siriana piange appena approdata sull’isola di Lesbo, provenendo dalla Turchia su un gommone, 2012. Fotografia.


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  1. Alcune di queste foto le conoscevo. Altre no. Mi ha colpito in particolare la Pietà yemenita ( Samuel Aranda) .
    La ringrazio per quanto divulga con un linguaggio intenso, partecipato emotivamente, chiaro. Per la bellezza che nasce anche dal dolore.
    Essa ha fili invisibili e rimandi soggettivi, ma anche oggettivi secondo l’ideale di quella assoluta teorizzata dai neoclassicisti.
    Personalmente, la ritrovo molto nella poesia e nelle arti figurative, oltre che in Madre Natura.
    Ci sono poesie che hanno una forza visiva, pari a quella degli scatti fotografici che lei ha qui illustrato. Mi viene in mente “L’esplosione ” di Philip Larkin. La trova, se è interessato, su alcuni siti.

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