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Nel corso degli anni Ottanta e Novanta del Novecento si è concluso quel processo, iniziato negli anni Venti, che ha portato a identificare la fotografia come una forma d’arte autonoma, che non imita la pittura o la scultura ma indaga la realtà e i temi della bellezza, del dolore, della vita attraverso un linguaggio autonomo e altrettanto autorevole. I grandi fotografi sono celebrati in tutto il mondo; dei loro scatti si tengono mostre che attirano un pubblico numeroso, i libri e i cataloghi fotografici hanno un vastissimo mercato, alcune stampe raggiungono quotazioni straordinarie. La fotografia contemporanea come forma d’arte.
Oggi, più ancora che venti-trenta anni fa, tutti fotografano continuamente, chiunque e qualunque cosa, in modo persino compulsivo. Gli smartphone e i tablet consentono a ognuno di noi di accedere al mondo della fotografia. Ovviamente, il semplice atto del fotografare non fa il fotografo, meno che mai il grande fotografo. In fondo, chiunque può prendere tela e pennelli e provare a dipingere, senza per questo essere Caravaggio.
Il grande fotografo ha infatti una qualità che, appunto, lo rende grande: saper vedere la realtà con occhi diversi, più attenti, più sensibili, saperne cogliere istanti altamente significativi, evocativi, che emozionano o spingono alla riflessione. Non usa i pennelli (oggi non tutti gli artisti lo fanno), ma fa lo stesso lavoro di un pittore. E, non a caso, ama cimentarsi con tutti i tradizionali generi pittorici: il ritratto, il paesaggio, la natura morta, la cronaca, il nudo.
Uno dei più celebrati maestri della fotografia è stato, ed è ancora, lo statunitense Steve McCurry (1950), fotoreporter e ritrattista tra i più creativi e sensibili. Ha iniziato a lavorare negli anni Settanta come fotografo freelance in India; in seguito, ha attraversato il confine tra Pakistan e Afghanistan, controllato dai ribelli poco prima dell’invasione russa. Durante questa esperienza, McCurry ha scattato foto che gli sono valse la Robert Capa Gold Medal for Best Photographic Reporting from Abroad, un premio (per lui, il primo di una lunga serie) assegnato a fotografi che si sono distinti per il loro eccezionale coraggio. In seguito, le foto di McCurry sono state pubblicate dalle principali riviste internazionali, che gli hanno assicurato una fama straordinaria.
Il suo ritratto più famoso è Ragazza afgana, pubblicato per la prima volta dal «National Geographic Magazine» nel 1985 e diventata una sorta di icona fotografica del Novecento. Una giovanissima profuga rifugiatasi in Pakistan, spaventata e smarrita, ci guarda con due intensi occhi verdi, che svelano tutta la sua vulnerabilità.
Fra i grandi fotografi contemporanei si annoverano anche straordinari e sensibili paesaggisti, come il tedesco Andreas Gursky (1955), che nelle sue stampe di grandi dimensioni crea, semplicemente fotografando brani di natura o scorci di città, immagini metafisiche e astratte, spesso intensamente malinconiche.
La sua foto Reno II, del 1999 (lunga tre metri e mezzo), è stata venduto all’asta nel 2011 per la cifra record di 4 milioni e mezzo di dollari, a certificare che oramai una fotografia d’artista può essere quotata quanto e più di un tradizionale dipinto. Peraltro, già nel 2007 una sua opera del 2001 (99 Cent II Diptychon, che rappresenta gli interni di due supermercati con file di scaffali piene di merci) aveva superato la cifra di tre milioni di dollari. La fotografia contemporanea come forma d’arte.
Altrettanto intense ed evocative sono le nature morte del tedesco Wolfgang Tillmans (1968), che si distingue anche per i paesaggi e i ritratti. In Natura morta, New York, del 2001, frutti, ortaggi e alcuni oggetti sono nitidamente mostrati in primo piano, mentre oltre il vetro della finestra s’intravedono le sagome opache delle macchine in strada: un poetico contrasto fra la silenziosa e rassicurante dimensione domestica e il rumoroso caos brulicante della vita cittadina.
I grandi fotografi sono anche testimoni del nostro tempo. I loro coraggiosi reportages, non a caso premiati con prestigiosi riconoscimenti, raccontano il mondo, svelandone le drammatiche contraddizioni. La straordinaria efficacia delle loro immagini mostra la verità, con una immediatezza che certamente mancherebbe alla più attenta e sensibile descrizione verbale o scritta. Il francese Jean-Marc Bouju (1961) ha vinto due premi Pulitzer (nel 1995 e nel 1999): il primo per la sua testimonianza sulla violenza etnica in Ruanda, il secondo per alcune fotografie sugli attentati alle ambasciate americane in Kenya e in Tanzania da parte dei terroristi di Osama bin Laden. La fotografia contemporanea come forma d’arte.
Nel 2003 ha inoltre vinto il prestigioso premio World Press Photo of the Year per una intensissima foto scattata in un centro americano per prigionieri di guerra in Iraq. L’immagine, nota come Padre e figlio detenuti, è di struggente bellezza: un padre, incappucciato, abbraccia e consola suo figlio, un bambino vulnerabile e spaventato, trattenuto con lui. Un disarmante momento di tenerezza nella tragedia della guerra.
Il canadese Edward Burtynsky (1955), tra i più apprezzati fotografi degli ultimi anni, si occupa invece di ambiente, denunciando i soprusi che l’uomo compie nei confronti della natura. Tra le sue opere più riuscite è da citare Catasta di pneumatici a Oxford, del 1999: un vero e proprio Grand Canyon, suggestivo, nelle forme che richiamano le rocce naturali, ma drammaticamente costituito da tonnellate di pneumatici inquinanti. Iconica immagine di un futuro di desolazione, temiamo fin troppo venturo. La fotografia contemporanea come forma d’arte.