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L’arte, sin dai tempi antichi, si è sempre confrontata con il tema dell’Infinito, certo così inafferrabile e indecifrabile e come tale difficilmente immaginabile, se non come particolarissima condizione di spazio e tempo. Friedrich, Leopardi, Fichte: aspirare all’Infinito.
Nel corso della storia dell’arte, all’Infinito sono state date molte connotazioni. Gli artisti, per definire l’indefinibile, attraverso dipinti, sculture, fotografie o film, hanno fatto ricorso a figurazioni della realtà o all’astrazione, hanno mostrato paesaggi inafferrabili nella loro vastità o si sono lasciati andare alle espressioni più segrete della loro anima o, ancora, hanno elaborato sintesi concettuali di condizioni esistenziali, di stati d’animo e di utopie libertarie; insomma, essi hanno sempre manifestato, con le proprie opere, la necessità di staccarsi dalla quotidianità per ricercare una dimensione più grande e intensa, più prettamente spirituale e perfetta, ossia infinita.
Con le proprie opere, gli artisti hanno saputo dare visibilità alla potenza immaginativa del pensiero umano, hanno proiettato la propria anima in terre sconosciute e misteriose, hanno provato di dare un volto al Mistero.
Nell’Occidente cristiano, e almeno fino al XVII secolo, l’Infinito è stato identificato con Dio, e con quel mondo ultraterreno, il Paradiso, cui ogni uomo aspira, per vivere una condizione di beatitudine eterna. Le figure dei mosaici medievali erano immerse in un fondo oro, identificato con la luce divina, omogeneo e non misurabile, che annullava ogni percezione di spazio e massa.
Successivamente, l’Infinito viene trasformato in un cielo trasfigurato, divinizzato, in cui le nuvole copiose e gli astri rifulgenti fanno da suggestiva scenografia ai trionfi di angeli e santi.
È con il Romanticismo che la rappresentazione dell’Infinito si concentra sulla contemplazione della natura e dell’universo, percepito come talmente grande da non poter essere abbracciato interamente dallo sguardo e da sfuggire alla comprensione. Come scrisse Immanuel Kant (1724-1804), nella sua Critica della ragion pura, «l’individuo può pensare al finito con coerenza e metodo, ma, avventurandosi nell’idea della serie infinita di tutti gli esseri finiti, il pensiero cade in preda a dubbi e contraddizioni». In questa infinita Natura l’artista romantico proiettò aspirazioni, aneliti, angosce, facendo del paesaggio una manifestazione simbolica del proprio stato d’animo, l’espressione di quel sublime che egli anelava e temeva a un tempo.
Pittore romantico dell’Infinito fu Caspar Friedrich (1774-1840), il quale propose, nelle sue tele, mari distesi, cieli sconfinati, orizzonti lontani, catene montuose imponenti e interminabili. Anonimi personaggi, visti di spalle, restano assorti di fronte a tali spettacoli. A volte, quegli uomini e quelle donne sono minuscoli, come nel Monaco sulla spiaggia, come a marcare la loro insignificanza di fronte a tali vastità, la loro scoraggiante inutilità.
Siamo corpuscoli infinitesimi di fronte all’infinito del cosmo, e tale consapevolezza rischia di annientarci. La Natura ci inghiotte, ci annulla, ci annienta. Eppure, appartenendo noi ad essa, allo stesso tempo ci include. Sicché, in fin dei conti, a quell’infinito noi, pur così piccoli, apparteniamo.
Tutti i personaggi delle opere di Friedrich guardano il paesaggio, tanto che è lecito affermare che, in sé, proprio la contemplazione del paesaggio, e dell’Infinito cui esso allude, è il vero, grande tema della sua pittura. Contemplare l’Infinito è l’espressione di una ricerca, tutta interiore, di un possibile senso dell’esistenza.
In un suo celebre quadretto del 1818, Donna che contempla il tramonto, Friedrich ci mostra una figura femminile vista di spalle, che allarga le braccia di fronte al crepuscolo con un gesto di ammirazione e stupore.
Ella si pone di fronte alla sconfinata vastità della natura e pare volerla abbracciare, fondendosi e confondendosi con essa. I colori caldi di questa natura incontaminata sono rassicuranti e acquietano l’anima. In quest’opera, come nel Viandante sul mare di nebbia, cui si abbina idealmente, la figura umana non è piccola, non sparisce nella vastità della tela, anzi ha qualcosa di monumentale, si pone eroicamente di fronte alla Natura, che chiaramente l’artista identifica con l’Infinito e l’Assoluto. Il grande paradosso è che l’uomo, proprio grazie alla sua consapevolezza di essere finito ma nella sua capacità di comprendere l’immensa vastità, nella sua legittima aspirazione ad abbracciarla, scopre la propria grandezza.
Il tema della contemplazione è presente anche nell’Infinito del grande poeta romantico italiano Giacomo Leopardi (1798-1837), una lirica (parte degli Idilli) composta nel 1819, un anno dopo il Viandante di Friedrich.
Vittorio Gassmann recita L’Infinito di Giacomo Leopardi.
Seduto, in una collina di Recanati, davanti a una siepe che gli impedisce di vedere oltre («Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / e questa siepe, che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude»), il poeta viaggia con il pensiero, guidato dal desiderio di conoscere cosa c’è oltre. Un “oltre” che ovviamente ha una valenza esistenziale, non solo fisica. E difatti egli è turbato, come se si trovasse sull’orlo di un dirupo, sul ciglio di un infinito in cui potrebbe cadere, che potrebbe inghiottirlo: «Ma sedendo e mirando, interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quïete / io nel pensier mi fingo, ove per poco / il cor non si spaura».
Leopardi è quasi sopraffatto; la sua ragione cerca invano di contrastare i sentimenti fino a quando non decide di lasciarsi andare, e attraverso l’immaginazione immergersi con lo spirito in quella Natura, diventando con essa un tutt’uno, dissolvendo la propria identità: «E come il vento / odo stormir tra queste piante, io quello / infinito silenzio a questa voce/ vo comparando: e mi sovvien l’eterno, / e le morte stagioni, e la presente / e viva, e il suon di lei. Così tra questa / immensità s’annega il pensier mio: / e il naufragar m’è dolce in questo mare». L’infinito spaziale diventa prima temporale (l’eterno) e quindi spirituale.
Leopardi cede, insomma, al desiderio: il cuore umano, d’altro canto, non può fare a meno di desiderare l’Infinito. Per quanto l’uomo possa conquistare prestigio, potere, denaro, effimeri piaceri, l’essenza stessa della sua umanità gli farà percepire qualcosa di mancante, lo manterrà inquieto e insoddisfatto, nella consapevolezza che “oltre la siepe”, ossia la ristretta contingenza del suo quotidiano, c’è qualcosa di più. Niente di ciò che è finito potrà mai colmare una necessità infinita.
In questo senso, il pensiero di Leopardi può riconnettersi a quello del filosofo tedesco Johann Gottlieb Fichte (1762-1814), secondo cui l’azione morale, ossia la libertà, dipende dal volere del soggetto. Fichte osserva che l’uomo è costantemente spinto da un anelito di libertà, che sarebbe quella di chi può agire completamente svincolato dalle restrizioni che la natura gli impone. Purtroppo, tale libertà è impossibile da raggiungere. Tuttavia, essa rappresenta e deve rappresentare l’ideale dell’esistenza umana.
Quindi l’uomo è come condannato a un perenne sforzo, ad un inesausto anelito d’Infinito, al tendere verso qualcosa che tuttavia resta sempre incompiuto (Fichte lo chiama streben che in tedesco significa proprio ‘tendere’ o anche ‘stirare’).
Nel Sistema della dottrina morale del 1798, Fichte delinea con chiarezza questa relazione estenuante fra l’Io e la Natura: «L’intenzione, il concetto nell’agire, tende alla completa liberazione dalla natura; che però l’azione sia e rimanga tuttavia conforme all’impulso naturale non è la conseguenza del concetto che liberamente ne tracciamo, bensì è la conseguenza della nostra limitazione. Il solo fondamento di determinazione della materia delle nostre azioni è quello di emanciparci dalla nostra dipendenza dalla natura, sebbene l’indipendenza richiesta non si raggiunga mai».
La libertà esiste grazie alle limitazioni che la Natura ci impone: l’uomo ha bisogno di un limite per poterlo superare. Come la siepe per Leopardi, che non gli impedisce, anzi lo stimola, a naufragare nell’Infinito e a conquistare un momento di effimera felicità.
Molto utile per i riferimenti a Leopardi, a Kant e Fichte e per il percorso attraverso i secoli sulla rappresentazione dell’infinito. Uno spunto prezioso per gli studenti per allargare lo sguardo attraverso le diverse discipline. Grazie
Grazie a Lei per l’apprezzamento
Meraviglioso leggerti e ritrovarti qui per me che sono stata tua allieva di UNIFI; complimenti vivissimi per la delicatezza e la profondità della tua trattazione, eri e rimani bravissimo.
Grazie per questa preziosa condivisione.
Grazie di cuore
Bravissimo!Forse tutto giusto.ma quello che m’inquieta è non poter trovar sosta su solida sponda poichè è tutto DIVENIRE