menu Menu
Il Futurismo
L’Italia in prima linea fra le Avanguardie del Novecento.
Autore: Giuseppe Nifosì Pubblicato in Il Novecento: la stagione delle avanguardie – Data: Marzo 23, 2020 0 commenti 7 minuti
A passo d’arte di Giuseppe Nifosì Articolo precedente Da Filippo Lippi a Botticelli: la fortuna della “lippina” Prossimo articolo

Versione audio:

Il Futurismo nacque ufficialmente nel 1909, con la pubblicazione sul «Figaro» del Manifeste du Futurisme, detto Manifesto futurista, redatto dallo scrittore Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944). Nel febbraio del 1910, sotto la guida del fondatore, un gruppo di pittori lanciò a Milano il Manifesto dei pittori futuristi; nell’aprile successivo fu invece redatto il Manifesto tecnico della pittura futurista, anch’esso firmato dai protagonisti del movimento artistico: Umberto Boccioni, Giacomo Balla, Carlo Carrà, Gino Severini e Luigi Russolo.

Questi artisti, a partire da Balla e Boccioni, si erano formati e avevano iniziato ad operare nell’ambito del Divisionismo; almeno fino al 1911, essi mantennero un forte legame con quella esperienza, trasferendo nei loro nuovi quadri sia la funzione simbolica delle immagini sia le vibrazioni cromatico-luministiche e la tecnica delle pennellate puntiformi o filamentose, che avevano caratterizzato proprio la pittura divisionista. Il futurismo

Caratteri della pittura futurista

Fra le iniziative più interessanti dei pittori futuristi, vanno segnalate soprattutto l’abolizione della prospettiva tradizionale e la moltiplicazione dei punti di vista, finalizzate a esprimere il dinamico interagire dell’immagine con lo spazio circostante. Quello che però, più di ogni altro aspetto, identifica il movimento futurista e lo connota rispetto a tutte le contemporanee Avanguardie storiche, incluso il Cubismo, è il cosiddetto “mito del progresso”, “l’elogio alla velocità”. Questi artisti sostennero l’idea che il ritmo cittadino, lo sviluppo tecnologico e la modernità fossero la vera conquista dei tempi.

Leggi anche:  Giacomo Balla, un cagnolino e una bambina

Il Futurismo scelse lo spazio urbano come luogo emblematico della vita moderna; fu dunque un movimento schiettamente cittadino (ben più che il Cubismo, per esempio) e fece della “città nuova”, tecnologica, aggressiva, rampante, l’oggetto privilegiato del suo interesse. Questo spazio moderno futurista, illuminato a giorno da lampioni e lampade elettriche, è celebrato sin dal manifesto di fondazione del 1909: «canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche».

L’estetica del paesaggio futurista trova poi un importante momento di definizione nel libro Le Futurisme, edito a Parigi nel 1911, dove Marinetti cerca di accreditare l’immagine di un’Italia industriale da opporre a quella “passatista” per la quale è invece conosciuta all’estero: «Milano! Genova! Ecco… la nuova Italia rinascente! Ecco le città che noi amiamo!», «Abbiamo grandi centri che fiammeggiano giorno e notte, spiegando il loro vasto alito di fuoco sull’aperta campagna».

Giacomo Balla, Lampada ad arco, 1909. Olio su tela, 174,6 x 115 cm. New York, Museum of Modern Art.

Il Manifesto del Futurismo

Il Manifesto del Futurismo, scritto da Marinetti, nacque come fervida reazione alla cultura borghese dell’Ottocento: «vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquari. Già per troppo tempo l’Italia è stata un mercato di rigattieri. Noi vogliamo liberarla dagli innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri». Il futurismo

Giacomo Balla, La mano del violinista (o Ritmi del violinista), 1912. Olio su tela, 52 x 75 cm. Londra, Estorick Collection of Modern Italian Art.

Il Manifesto articola il pensiero del suo autore in 11 punti, di cui riportiamo gli stralci più interessanti:

«Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno»; «Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un automobile [così, al maschile] da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia»;

«Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente»; «Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie»;

«Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri, incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole per i contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, e le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta».

Umberto Boccioni, Stati d’animo gli addii (II versione), 1911. Olio su tela, 70,5 x 96,2 cm. New York, Museum of Modern Art.

I due Manifesti della pittura futurista

Il Manifesto marinettiano contiene, in nuce, tutti i principali temi che furono poi sviluppati dalle arti figurative: il compiacimento per l’aggressività, l’esaltazione della velocità, la celebrazione della macchina, la fascinazione dell’elettricità, la fede nel progresso e nella tecnologia, il rifiuto della tradizione, l’amore per il contesto urbano contemporaneo. Il Manifesto dei pittori futuristi fu pubblicato nel 1910; ad esso seguì, nello stesso anno, il Manifesto tecnico della pittura futurista. Il primo è più teorico ed enuncia alcuni princìpi generali, il secondo approfondisce spunti tecnici e programmatici. Il futurismo

Gli autori del Manifesto dei pittori futuristi (Boccioni, Carrà, Russolo, Balla, Severini) sviluppano, con i propri enunciati, il pensiero marinettiano, confermando di voler superare il culto del passato e di ispirarsi alla contemporaneità: «Noi vogliamo combattere accanitamente la religione fanatica, incosciente e snobistica del passato, alimentata dall’esistenza nefasta dei musei […] e giudichiamo ingiusto, delittuoso, l’abituale disdegno per tutto ciò che è giovane, nuovo e palpitante di vita».

«Noi dobbiamo ispirarci ai tangibili miracoli della vita contemporanea, alla ferrea rete di velocità che avvolge la Terra, ai transatlantici, alle Dreadnought [corazzate da battaglia], ai voli meravigliosi che solcano i cieli, alle audacie tenebrose dei navigatori subacquei, alla lotta spasmodica per la conquista dell’ignoto».

Gino Severini, Ballerina in blu, 1912. Olio su tela, 61 x 46 cm. Milano, Collezione Mattioli.

Concludono dichiarando di disprezzare profondamente ogni forma d’imitazione, di esaltare l’originalità, di considerare i critici d’arte come inutili e dannosi, di voler magnificare la vita odierna, «incessantemente e tumultuosamente trasformata dalla scienza vittoriosa».

Il Manifesto tecnico della pittura futurista, firmato da Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini, chiarisce che la pittura futurista avrebbe abolito la prospettiva tradizionale e moltiplicato i punti di vista per esprimere l’interazione dinamica del soggetto con lo spazio circostante: «Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido.

Una figura non è mai stabile davanti a noi ma appare e scompare incessantemente. Per la persistenza della immagine nella retina, le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono. Così un cavallo in corsa non ha quattro gambe: ne ha venti».

Luigi Russolo, La musica, 1911. Olio su tela, 2,25 x 1,40 m. Collezione privata.

Inoltre, essi contestano fortemente il principio della verosimiglianza: «Affermiamo ancora una volta che il ritratto, per essere un’opera d’arte, non può né deve assomigliare al suo modello, e che il pittore ha in sé i paesaggi che vuol produrre. […] Lo spazio non esiste più: una strada bagnata dalla pioggia e illuminata da globi elettrici s’inabissa fino al centro della terra. […] Sulla guancia della persona con cui parliamo nella via noi vediamo il cavallo che passa lontano. I nostri corpi entrano nei divani su cui ci sediamo, e i divani entrano in noi, così come il tram che passa entra nelle case, le quali alla loro volta si scaraventano sul tram e con esso si amalgamano».

Carlo Carrà, I funerali dell’anarchico Galli, 1911. Olio su tela, 1,987 x 2,591 m. New York, Museum of Modern Art.


Articolo precedente Prossimo articolo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Annulla Invia commento

keyboard_arrow_up