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Giorgio Morandi (1890-1964) fu un importante pittore metafisico. Studiò, dal 1907 al 1913, all’Accademia di Belle Arti di Bologna, sua città natale, dove in seguito (1930-56) sarebbe diventato titolare della cattedra di incisione. Fu di temperamento solitario e visse prevalentemente fra Bologna e Grizzana, nell’Appennino Emiliano; questa sua scelta di vita appartata non gli impedì di mantenere un contatto vitale con le correnti europee contemporanee.
Elesse a maestro ideale Cézanne, da cui trasse alcuni aspetti del proprio linguaggio, come la sobrietà delle immagini, l’essenzialità della composizione e l’equilibrio delle forme. Negli anni 1914-15, si interessò anche al Cubismo che, assieme alla pittura toscana del Trecento-Quattrocento, divenne fondamentale per la definizione della sua arte. La successiva adesione alla Pittura Metafisica (1918-20) non compromise il purismo e l’essenzialità della sua visione artistica, che si mantenne priva di compiacimenti simbolistici e letterari.
Le celebri nature morte di Morandi, come Natura morta con scatole del 1918, si distinguono per la scelta antiretorica di oggetti di uso quotidiano. Bottiglie, vasetti, bricchi, lucerne, più raramente fiori, dal colore sobrio e opaco, sono disposti come sagome in uno spazio senza prospettiva e quasi privati della loro fisicità.
In particolare, Natura morta metafisica, del 1919, dimostra che per Morandi le forme reali costituirono solo un pretesto per raggiungere risultati di assoluta purezza formale: in questo quadro, infatti, sagome geometriche investite da una luce fredda si raccolgono attorno a una cassetta vuota, posta in verticale. Tutto il dipinto si risolve dunque in un sapiente gioco di piani orizzontali, verticali e obliqui.
A partire dagli Anni Venti, Morandi conferì alle sue bottiglie e alle sue fruttiere una maggiore fisicità, pur mantenendole sempre isolate nel contesto immobile e solitario di un tavolo o di una mensola. Il pittore, infatti, non avrebbe mai tradito la propria poetica artistica.
Morandi, secondo il giudizio di Giorgio de Chirico (1888-1978), il padre della Metafisica, «partecipa in tal modo del grande lirismo creato dall’ultima profonda arte europea: la metafisica degli oggetti più comuni, di quegli oggetti che l’abitudine ci ha reso tanto famigliari che noi, per quanto scaltriti nei misteri degli aspetti, spesso guardiamo con l’occhio dell’uomo che guarda e non sa». In realtà, nelle nature morte di Morandi manca quel senso di attesa che caratterizza i capolavori di de Chirico e di Carrà: anche se l’accorta e studiatissima disposizione degli oggetti dà luogo a una magica armonia di forme e la tavolozza sfumata e contenuta contribuisce notevolmente a conferire un senso di velata malinconia.
Durante il secondo dopoguerra, Morandi, a differenza di molti suoi colleghi divenuti anziani (incluso de Chirico), non perse affatto la sua ispirazione e anzi visse una fertilissima e fortunatissima stagione. L’artista non rinnegò mai la propria poetica degli oggetti, virando piuttosto verso una pittura più delicatamente mimetica, meno filosofica e più introspettiva. Nei suoi quadri degli anni Quaranta e Cinquanta, spazi ristretti accolgono brocche, tazze e bottiglie ordinatamente e poeticamente accostate. Oggetti reali, che si trovavano nel suo studio e che il pittore non spolverava mai.
Così, nel 1955, la scrittrice Lea Quaretti descrisse, nel suo diario, le celebri bottiglie del pittore: «su tavoli, per terra, su mensole, ovunque si posino gli occhi, si vede la raccolta delle bottiglie famose di Morandi. Di tutti i colori, azzurre soprattutto, dalle forme e altezze più varie. Una contro l’altra, ma raccolte a gruppi: sono l’angolo segreto della casa nel quale nulla e nessuno deve mettere le mani: del tutto simile a quello che ognuno di noi ha nella piega più intima del pensiero e dell’anima».
La tenera familiarità di questi oggetti, unita alla loro immobilità, riesce a parlarci del tempo che passa, degli affetti che finiscono, delle persone che ci lasciano, della solitudine che si deposita come la polvere sulla nostra vita.
Assoluta protagonista di tutte le opere morandiane è sempre la luce, tersa e trasparente, che tutto abbraccia in una malinconica sospensione temporale. La pittura di Morandi fu certamente consacrata al visibile. L’artista ebbe a dichiarare: «esprimere ciò che è nella natura, cioè nel mondo visibile, è la cosa che maggiormente mi interessa». Tuttavia, se egli dipinse quasi esclusivamente oggetti (talvolta tetti e paesaggi, raramente figure umane, ancor più raramente autoritratti) non ritenne che l’arte dovesse limitarsi a rappresentare il visibile. Raffigurare solo la realtà oggettiva delle cose non fece mai parte della sua poetica.
Morandi intese mostrare ciò che sfugge alla visione, richiamare l’invisibile, rimandare a ciò che non è raffigurabile. Andare oltre la semplice presenza. Se si pensa all’opera di artisti come Pollock, Rothko, Fontana, Burri, ebbene, quella di Morandi appare antitetica, nella sua quasi polemica, perfino sdegnosa ostinazione a mantenersi così fedele alla figura. Eppure, il silenzio che promanano le sue composizioni di bottiglie è davvero così diverso da quello degli infiniti spazi pittorici di Rothko?
C’è davvero meno dolore nelle sue brocche impolverate che nei sacchi di Burri? Davvero la luminosa fragilità delle sue tazze è più terrena e contingente dei tagli di Fontana? Risponderemmo di no. La vera differenza è che, secondo Morandi, l’Assoluto non va cercato al di là del mondo ma nel mondo stesso, nella nostra vita, nel nostro quotidiano. L’infinito, insomma, potrebbe trovarsi sopra una mensola, nella nostra cucina.
Visitando una grande mostra di Morandi alla Fiera di Bologna, nei primi anni 90 (o fine 80, non ricordo bene) provai la sindrome di Stendhal, fui veramente rapita nella vertigine di quella bellezza. Rimase uno dei momenti più appaganti della mia vita.