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Francisco Goya (1746-1828), pittore e incisore spagnolo, fu uno dei più sensibili e autorevoli esponenti del primo Romanticismo europeo. Le sue prime opere rivelano un talento di scenografo, sviluppato studiando il Barocco italiano. A Madrid, produsse una serie di cartoni destinati alla regia arazzeria: veri e propri quadri di genere, concepiti secondo la tradizione francese e fiamminga e dominati da temi galanti e da rappresentazioni seducenti della vita madrilena. L’ascesa di Goya nei ranghi ufficiali culminò con la nomina a pittore del re Carlo III (nel 1786) e quindi, salito al trono Carlo IV, a pittore da camera (nel 1789). Nell’ambito della corte, Goya s’impose come ritrattista alla moda di aristocratici e signore di mondo. Il sonno della ragione.
Nel 1792, l’artista fu colpito da una grave malattia che lo lasciò sordo; questo evento inasprì molto il suo carattere: l’artista divenne sempre più insofferente alle regole e cominciò ad accostarsi alle suggestioni dell’immaginario. In una nota sulla riforma dell’insegnamento, preparata su richiesta dell’Accademia, egli affermò che «non ci sono regole nella pittura». Per lui, «l’oppressione, l’obbligo servile di far studiare e seguire a tutti lo stesso cammino è un grande ostacolo per i giovani che andranno a professare un’arte così difficile».
L’invasione della Spagna da parte dei Francesi, nel 1808, per ordine di Napoleone (in cui, inizialmente, l’artista aveva creduto), la spietatezza con cui questi cercarono di sedare la reazione spagnola, cancellarono ogni traccia di ottimismo nella sua opera. «Tutte le speranze nella possibilità di trasformazione del mondo, e cioè della Spagna, arretrata e superstiziosa, si disfano davanti a una realtà di mostruosa evidenza. I francesi, modello di quanto di positivo e razionale si desiderava per la Spagna, diventarono i nemici, i violentatori, gli autori di rapine e di omicidi senza ragione alcuna. Per Goya questa cupa esperienza sarà definitiva» (A. Pérez Sanchez). Deluso, sfiduciato e disincantato, nelle opere successive Goya pervenne, progressivamente, al totale rifiuto della bellezza classica. Il suo capolavoro, La fucilazione del 1814, oggi al Prado, mostra con passione romantica le drammatiche contraddizioni del proprio tempo.
Negli anni Novanta del Settecento, Goya produsse una serie di 80 incisioni all’acquaforte e all’acquatinta, i Capricci: una denuncia dei vizi e delle tare sociali, senza dubbio la più alta espressione del suo pensiero critico e illuminato. Il violento espressionismo, ossia la tendenza a esasperare il dato emotivo della realtà a discapito di quello oggettivo, la deformazione del vero, l’intensità comunicativa, il sottomondo di terrori, violenze segrete, angosciosi presagi che affiorano in queste incisioni erano guidati da una fortissima volontà etica e soprattutto da un acutissimo spirito indagatore.
L’incisione più celebre, intitolata Il sonno della ragione genera mostri (realizzata nel 1797 circa), spiega che l’ignoranza e la superstizione sono mali assoluti: quando la ragione non controlla la realtà, lasciando il campo a impulsi irrazionali incontrollabili, questa viene orribilmente e irrimediabilmente trasfigurata. E d’altro canto, sembra dire Goya, è esattamente quello che sta accadendo nel mondo. Di fronte alle denunce dell’Inquisizione, scandalizzata dai temi inquietanti e dal furore aggressivo di queste incisioni, Goya dovette ritirare i Capricci dalle vendite e, per tutelarsi, regalare tutte le lastre delle matrici al re. Il sonno della ragione.
In una nuova serie di 83 incisioni, I disastri della guerra, Goya produsse una delle denunce più intense ed espressive fra quelle mai realizzate da un artista contro la violenza. Iniziate nel 1810, dopo l’occupazione francese della Spagna, ed eseguite quasi tutte entro il 1814-15, furono stampate e pubblicate postume nel 1863. Goya, infatti, nascose le lastre, temendo potessero risultare ancora più compromettenti dei Capricci.
Fu l’artista medesimo a numerare e ordinare le tavole, secondo un senso logico e cronologico. Attraverso immagini violentissime, addirittura raccapriccianti (barbare uccisioni, scempio di cadaveri, donne violentate), di una forza allucinante, Goya vi espresse tutto il suo orrore, svelando in egual misura la sadica barbarie dei francesi e la brutale reazione del «popolaccio» spagnolo. Ma distinse tra chi era stato aggredito (e difatti ha un volto, una identità) e chi invece aveva avuto il ruolo dell’aggressore (il quale non mostra la faccia, è visto di spalle), presentato come una vigliacca macchina di violenza e di morte, pronto ad infierire sui deboli e soprattutto sulle donne.
La sequenza dei Disastri si divide in tre grandi nuclei. Il primo, che comprende le tavole 1-47, testimonia e denuncia la barbarie della repressione francese, con i soldati napoleonici intenti, come animali brutali e famelici, a stuprare, mutilare, uccidere. Il secondo nucleo, che comprende le tavole dalla 48 alla 64, è dedicato alla fame, drammatica e inevitabile conseguenza di ogni guerra. Il terzo, infine, riprende i temi già affrontati nei Capricci, e riporta Goya a riflettere sull’ignoranza, sulla mancanza di etica e di pensiero, sull’avidità che spesso muovono il comportamento umano. L’artista verificava con orrore che proprio l’irrazionalità della natura umana era la causa principale della violenza più efferata, della crudeltà più gratuita, dell’ingiustizia più mortificante.
A torto o a ragione, che fa parte del primo nucleo, anticipa il celebre dipinto della Fucilazione. Il popolo spagnolo è praticamente disarmato, contro i Francesi pronti a sparare a breve distanza.
In Non c’è rimedio, gli Spagnoli da fucilare sono legati a dei pali. Alcuni, già morti, sono riversi per terra. I Francesi sembrano immersi nelle tenebre, mentre a sinistra una luce salvifica sembra illuminare le vittime innocenti. Anche questa incisione è alla base della Fucilazione.
In un’altra scena di esecuzione sommaria, il condannato è stato legato e sarà fucilato alla schiena, perché possa morire con disonore, ignorando l’etica (!) militare del tempo. Da qui il titolo, Barbari!, dell’opera.
Perché? Perché tutta questa compiaciuta violenza? È una domanda che ritorna ossessivamente, anche nel titolo di una brutale scena di impiccagione. Siccome l’albero è troppo basso, i soldati tirano il condannato per spezzargli il collo. L’uomo rantola e gli si sono rizzati i capelli sulla testa.
Anche in un altro caso una domanda fa da titolo: Cosa si può fare di più? Un uomo viene denudato e mutilato. È chiaro l’intento di dividerlo, ancora vivo, in due parti. In guerra si uccide, è inevitabile. Ma torturare in questo modo, così gratuitamente, ledendo anche la dignità della persona, dimenticandosi di essere di fronte a un essere umano (laddove anche la violenza verso un animale è intollerabile) è qualcosa di cui non si riesce a trovare il senso.
Questo è il peggio mostra una delle scene più raccapriccianti tra quelle presentate da Goya. Un uomo è stato denudato, squartato e impalato al ramo di un albero, costretto a morire tra sofferenze atroci. Nemmeno la dignità di una morte rapida e indolore. Una testimonianza agghiacciante di crudeltà umana. Sullo sfondo, si comprende che altri uomini subiranno la medesima sorte.
In Grande bravura, con dei morti alcuni uomini sono stati chiaramente evirati prima di essere uccisi. Uno è stato poi tagliato a pezzi e i suoi frammenti anatomici appesi all’albero. È forse l’immagine più cruda di tutta la serie.
In ogni guerra, le donne sono bottini da conquistare, per il proprio appagamento personale. Le scene di stupro mostrano tutta l’animalesca ferinità degli aggressori. Le donne non vogliono, come chiariscono i titoli, tentano di ribellarsi, graffiano la faccia degli uomini che si apprestano a violarle. Le più anziane intervengono, tentano di affrontare con coraggio il nemico per salvare le giovani aggredite. Ma i soldati francesi sono brutali, trascinano con loro le donne dopo aver gettato a terra, o forse ucciso, i loro neonati.
Tra le conseguenze della guerra non mancano mai distruzione, povertà, fame. Morti di stenti che si aggiungono a quelle violente. In Cosa peggiore è chiedere l’elemosina, alcuni uomini stanno morendo di fame e sono ridotti a scheletri umani, a morti ambulanti. La donna passa loro accanto e china la testa, perché certamente non è in grado di aiutarli. Un soldato francese, sullo sfondo, assiste alla scena indifferente.
I morti, per fame e malattie, sono talmente tanti che non vengono nemmeno più seppelliti. La Seconda guerra mondiale ci ha (purtroppo) abituato alle drammatiche immagini dei morti accatastati, grazie alle foto dei reporter nei campi di concentramento nazisti, appena liberati. Ma, evidentemente, scene di questo tipo hanno sempre fatto parte della storia umana.
Un altro aspetto di ogni guerra, Goya mette chiaramente in luce: l’avidità di chi della guerra si approfitta, indifferente al prezzo, altissimo, che altri stanno pagando. Non esiste conflitto senza che qualcuno arrivi ad alimentarlo e a sostenerlo per trarne vantaggi personali e arricchirsi. D’altro canto, è l’avidità stessa, il più delle volte, a scatenare le guerre. Goya non avrebbe potuto rappresentarlo meglio, se non con l’immagine di un orribile vampiro che succhia il sangue di un poveretto già morto.
La forza comunicativa di tutte le immagini dei Disastri è davvero impressionante. Prodotte ben prima dell’invenzione della fotografia, esse rendono testimonianza della crudeltà e disumanità della guerra come solo i più premiati reportage contemporanei riescono a fare. Goya, infatti, si propone come cronista, certificando con alcuni titoli il suo ruolo di testimone oculare: Io l’ho visto, Questo è successo, Ho visto anche questo. Ma è chiaro che la volontà di denuncia dell’artista va ben oltre la cronaca della Campagna di Napoleone in Spagna: essa si configura come un grido altissimo contro ogni guerra e ogni forma di violenza, nella dolente presa d’atto che la storia non insegna e l’umanità non impara.
La drammatica modernità, l’evidente attualità di ogni scena di violenza, sovrapponibile (volendo ignorare le diverse uniformi e i diversi vestiti), e in modo così impressionante, agli abomini dell’Olocausto, agli stupri etnici della Guerra in Jugoslavia, agli orrori commessi dall’esercito russo nella Guerra in Ucraina, ancora in corso, dimostrano che i crimini contro l’umanità appartengono a tutte le guerre in quanto tali, indistintamente e indipendentemente dal tempo e dal luogo, e che la banalità del male, come avrebbe spiegato oltre cento anni dopo Hannah Arendt, ossia l’ignoranza, l’egoismo e la scarsa attitudine al pensiero critico resteranno le malattie incurabili del genere umano.
Purtroppo l’umanità non impara:(((