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Joan Miró (1893-1983), pittore e scultore spagnolo, aderì al Surrealismo nel 1924. Fu in quest’ambito che iniziò a dipingere i suoi quadri dei sogni, sviluppando un linguaggio pittorico composto da figure geometriche o curvilinee e dettagli anatomici elementari. Si tratta di sigle, di germinazioni allusive, frutti di una fantasia che l’artista coglie non appena questa si presenta alla soglia della coscienza. «La pura creatività è un graffito», dichiarò l’artista, «un piccolo gesto su un muro. Quella è la vera creazione. Ciò che mi interessa è la nascita».
In Interno olandese II, del 1928, si possono cogliere alcuni elementi caratteristici della pittura di Miró, solo apparentemente astratta: determinate forme, personaggi, colori e simboli lo accompagnarono lungo tutto il suo processo figurativo, costituendo il suo peculiare linguaggio. Il dipinto, ispirato a Lezione di danza (opera di Jan Steen, un pittore olandese del Seicento) evoca, con le sue figure fluttuanti nello spazio, una danza liberatoria condotta al suono di uno strumento musicale.
Attraverso queste figure biomorfe, Miró permetteva al suo inconscio di esprimere liberamente i propri contenuti. Miró riteneva che l’arte dovesse «provocare per prima cosa una sensazione fisica, per poi arrivare all’anima». A differenza di altri pittori surrealisti, non lavorò per annullare, inabissandolo, quel senso di colpa atavico che rappresenta un fardello per ognuno di noi; l’artista non si calava nell’inconscio profondo per perlustrare le sue oscurità cupe e segrete. Il suo scopo era piuttosto recuperare, attraverso il sogno, l’innocenza dell’alba incontaminata della vita, la gioiosa e giocosa festività di un’infanzia felice.
Il suo Autoritratto del 1937 è un’opera magica e inquietante, arcaica e misteriosa, al pari delle opere prodotte in epoca preistorica dagli artisti sciamani.
Miró fu dunque un primitivo del Surrealismo. Breton, commentando la sua pittura, osservò che la sua «personalità s’è fermata allo stadio infantile»; egli intendeva dire che, attraverso l’automatismo, Miró aveva saputo raggiungere l’assoluta spontaneità, la stessa che caratterizza l’età della fanciullezza, riuscendo a vivere naturalmente in una condizione surrealista. Nei suoi quadri, le immagini esprimono con immediatezza le sue emozioni. La “facilità” della sua pittura, fatta di arabeschi maliziosi e gentili o di vibranti figurazioni allusive, sfiora talvolta la frivolezza ma riesce a penetrare nel regno assoluto della grazia. Queste visioni e fantasie oniriche di Miró mescolano il mondo vegetale con quello animale e sono spesso dominate da un umorismo dissacrante, che le pone al di fuori di qualsiasi schema.
Si assiste, nelle sue opere, alla creazione di un mondo magico, popolato da figurine misteriose, un po’ gnomi e un po’ marionette altalenanti, sospese nello spazio da fili invisibili. Nell’opera intitolata Il bell’uccello rivela l’ignoto a una coppia di innamorati, del 1941, Miró spiega di aver dipinto «sagome e arabeschi proiettati nell’aria come fumo di sigaretta, che sarebbero saliti in alto e avrebbero accarezzato le stelle»: un lavoro metodico e paziente che distribuisce le forme minute in una trama elegante e ordinata. Erano, quelli, anni difficili, segnati dalla guerra civile e dallo scoppio della Seconda guerra mondiale; Miró cercò, attraverso la sua pittura, di contrastare almeno idealmente quella realtà drammatica.