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Joseph Kosuth (1945) è stato, ed è, uno dei più autorevoli esponenti di una tendenza artistica internazionale nota come Arte Concettuale o Concettualismo, sorta alla metà degli anni Sessanta ad opera del gruppo britannico Art and Language e poi affermatasi in tutto il mondo a partire dal decennio successivo.
Cos’è l’arte concettuale
Rifiutando il valore puramente estetico, edonistico, ludico dell’immagine artistica, il Concettualismo ha perseguito finalità soprattutto conoscitive, ritenendo che, in quanto forma di conoscenza, l’arte non debba fare più appello alla capacità percettiva dello spettatore ma sollecitare e provocare i suoi processi mentali, spingerlo a riflettere. Già Duchamp, e dopo di lui i Neodadaisti tra cui Manzoni e per certi versi persino Warhol avevano affermato che l’epoca dell’arte puramente “retinica”, ossia rappresentativa di qualcosa, era terminata. Le opere d’arte andavano intese come provocazioni, come operazioni artistiche e culturali.
Con il Concettualismo, l’arte è diventata più che altro teoria dell’arte, riflessione sull’arte: si è separata dall’estetica intesa come aisthesis (“sensazione”) e si è limitata a interrogarsi sulla sua natura, prescindendo dai supporti e dai mezzi normalmente utilizzati. «L’arte esiste solo come idea», ha affermato Kosuth, e come tale va drasticamente separata dell’estetica. Conta solo il suo significato. «Credo – continua Kosuth – che l’arte abbia eguagliato in termini di complessità la fisica, la filosofia o qualsiasi altra scienza». «La presunzione che l’arte sia pittura e scultura è ormai andata».
Kosuth e i neon
Eliminando ogni concessione all’emotività, l’Arte Concettuale preferì quindi esprimersi in forme fredde e meditative, attraverso immagini informative (fotografie, calchi), talvolta integrate o perfino sostituite da enunciazioni (manoscritte, dattiloscritte o stampate).
Kosuth, impiegando la scrittura e il linguaggio, fin dal 1965 ha messo a confronto immagini, parole e voci di dizionario, avviando una concezione dell’arte non-oggettuale. Spesso Kosuth ha fatto ricorso al neon, realizzando scritte luminose e colorate. «Il neon è simile alla scrittura», ha affermato l’artista, perché «non è permanente». Le scritte al neon non sono più “opere”, almeno non nel senso tradizionale del termine, ma “proposizioni, dichiarazioni” o, al massimo, “investigazioni”, di fronte alle quali il pubblico non viene più messo alla prova emotivamente ma solo intellettualmente. Neon, del 1965, è in questo senso un’opera emblematica: la scritta “neon” realizzata proprio con il neon fa sì che il linguaggio diventi visibile nel materiale stesso.
Una e tre sedie
Il lavoro di Joseph Kosuth indaga, insomma, le relazioni che intercorrono fra le cose, le loro immagini e le parole che le definiscono. Le sue opere, di carattere marcatamente dimostrativo, di fatto annullano gli oggetti, sostituendoli con le idee degli oggetti medesimi.
Una e tre sedie, del 1965, è un’opera-installazione dalla concezione assai complessa, composta da una sedia di legno pieghevole (ossia una normale sedia da giardino) accostata a un muro dove sono affissi un pannello con la foto, in bianco e nero e a grandezza naturale, della medesima sedia e un secondo pannello con una riproduzione, stavolta ingrandita, della definizione di chair, cioè ‘sedia’, tratta da un vocabolario, ovviamente inglese. I due pannelli sono appesi a destra e a sinistra della sedia, a identica distanza. L’installazione è illuminata da una luce uniforme, necessaria a renderne leggibile ogni parte e consentire un approccio all’opera razionale e non emozionale.
Stimolare l’attività del pensiero
Con tutta evidenza, Una e tre sedie (in cui manca ogni componente di natura emozionale) non è finalizzata a sollecitare un godimento estetico ma a stimolare l’attività del pensiero. Qualunque oggetto presenta una triplice natura: il suo nome, la sua immagine e la sua reale sostanza. In questo caso, l’artista si interroga sul concetto di sedia ne propone diverse rappresentazioni. Non è possibile, osserva Kosuth, guardare una sedia senza pensare contemporaneamente al suo nome e valutare, a livello mentale, anche la sua immagine. L’artista ha, quindi, voluto porre in evidenza quanto sia grande, concettualmente, la distanza che separa un oggetto reale da una sua riproduzione, per quanto fedelissima, e dalla sua definizione verbale: in altre parole, che la realtà, quella tangibile, quella in cui viviamo, è sempre una faccenda ben diversa dalla sua rappresentazione attraverso il linguaggio, incluso quello figurativo o fotografico.
L’oggetto e il suo nome
Secondo Kosuth, l’arte può abbandonare il regno delle immagini per trasferirsi nel regno dei concetti e dei nomi. L’immagine può essere abolita ed essere sostituita dalla parola: l’arte si identifica con il linguaggio. Ciò è tipico della ricerca concettuale. Qualunque segno grafico, anche geometrico, anche astratto, è ancora un’intuizione visiva o un’allusione visiva che si relazionano con uno spazio. L’artista concettuale è molto più radicale: invece di “rappresentare” qualcosa, egli ne fornisce il nome e la definizione.