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Alla metà del XX secolo, nell’ambito della ricerca informale italiana, tra le manifestazioni aperte a nuovi codici visivi e a nuove tecniche di realizzazione, occorre ricordare il Movimento Spaziale o Spazialismo, costituito nel 1947 da Lucio Fontana (1899-1968). Già l’anno prima, con la pubblicazione del Manifiesto Blanco, Fontana aveva auspicato un «superamento della pittura, della scultura, della poesia e della musica, per arrivare a un’arte basata sull’unità del tempo e dello spazio».
Questa idea di arte totale echeggiava, con tutta evidenza, le precedenti posizioni futuriste. Nel 1947, Fontana redasse il Primo Manifesto Spaziale, in cui si legge un assunto importantissimo per lo sviluppo successivo del suo lavoro: l’arte «rimarrà eterna come gesto ma morrà come materia». Nel Secondo Manifesto Spaziale, del 1948, l’artista asserì che il quadro dev’essere liberato dalla sua cornice e ribadì che solo il gesto creativo in sé è capace di conferire quel necessario carattere di eternità a un’opera d’arte.
L’importanza conferita al gesto è dunque alla base dell’identità marcatamente concettuale di tutta la produzione spazialista. Negli anni successivi, fino al 1952, furono pubblicati altri manifesti. Nel Terzo Manifesto Spaziale, in particolare, si legge: «L’Artista Spaziale non impone più allo spettatore un tema figurativo ma lo pone nella condizione di crearselo da sé, attraverso la sua fantasia e le emozioni che riceve». Dunque, un’opera d’arte spazialista non esclude, anzi sollecita un coinvolgimento emotivo del pubblico, invitandolo a interagire visivamente, ma soprattutto esistenzialmente, con l’opera d’arte.
Dal 1949, Fontana iniziò a produrre i suoi Concetti spaziali, opere in cui le superfici presentano fori sparsi e, talvolta, applicazioni di sassolini e vetri colorati. Dal 1959 comparvero nelle sue opere anche i tagli che lo avrebbero reso famoso e che avrebbero caratterizzato tutto il suo lavoro successivo. «Io con il taglio ho inventato una formula che non credo di poter perfezionare», avrebbe dichiarato nel 1961.
I tagli di Fontana, così come i buchi, tutti ottenuti lacerando supporti di carta, tela, zinco o rame, esprimono il rifiuto di adottare forme di rappresentazione che l’artista considerò esaurite. Per Fontana, la tela, la lastra non sono semplici superfici da riempire ma diaframmi da aprire.
Ne consegue che i buchi e i tagli hanno una evidente funzione metaforica: servono a far intravedere una dimensione altra, l’Infinito che si apre, idealmente, dietro quei piani: «Scoprire il Cosmo è scoprire una nuova dimensione. È scoprire l’Infinito. Così, bucando questa tela – che è la base di tutta la pittura – ho creato una dimensione infinita. Qualcosa che per me è la base di tutta l’arte contemporanea».
E l’artista ha il compito di guidare lo spettatore alla ricerca di questo infinito. I tagli e i buchi di Fontana non vanno dunque letti in chiave distruttiva ma, paradossalmente, costruttiva. Sono finestre che si aprono sul Mistero. Non sono squarci, laddove l’evidenza sembra indicarlo: sono varchi, prodotti dall’artista nel tentativo di vedere “oltre”.
Oltre il taglio fisico di queste superfici, sia chiaro, non si vede alcunché di concreto: Fontana ha infatti spesso provveduto, opportunamente, ad applicare una tela nera nella parte posteriore delle sue opere. Cosa c’è, dunque, “oltre”? Non possiamo saperlo e nemmeno l’artista lo sa. Ma il compito dell’artista non è quello di fornire le risposte: egli pone, con noi e per noi, solo le domande. L’ideale “finestra” di Fontana si apre insomma sul buio e questo certamente richiama le ultime tele scure di Rothko. Tuttavia, mentre il buio di Rothko è l’esito espressivo e drammatico di una luce che per l’artista si è ineluttabilmente spenta, quello di Fontana evoca l’attesa, intensamente spirituale, di una luce che non si è (ancora) accesa.
Uno dei famosi tagli di Fontana, ossia Concetto spaziale. Attese, oggi al Mart di Rovereto, fu realizzato dall’artista nel 1959; presenta una tela bianca con due tagli leggermente obliqui, due ferite di lunghezza diversa, leggermente incurvate e con inclinazioni appena differenti che slabbrano la superficie compatta del quadro, creando sullo sfondo monocromo delle linee virtuali che non sono dipinte ma che appaiono a causa della lacerazione.
Il titolo dell’opera, usato spesso da Fontana, è una sorta di slogan adottato per rendere immediatamente riconoscibile la sua originale invenzione. La prima parola, “concetto”, indica con chiarezza che l’opera ha rinunciato a rappresentare qualcosa, superando ogni legame con la residua tradizione figurativa: essa è diventata un concetto reso visibile. La terza parola, “attese”, indica uno stato d’animo, un sentimento, una condizione esistenziale, una sensazione che accomuna l’artista e lo spettatore, i quali, di fronte a questo schermo spaziale vuoto, privo di contenuti visibili, restano come sospesi, in attesa che il Mistero si sveli. È lui stesso a chiarirlo: «sono riuscito con questa formula a dare a chi guarda il quadro un’impressione di calma spaziale, di rigore cosmico, di serenità nell’infinito».
Spiegò inoltre l’artista che «in un periodo in cui la gente parlava di “piani”: il piano di superficie, il piano di profondità ecc., il mio fare un buco era un gesto che rompeva lo spazio del quadro e che diceva: dopo questo siamo liberi di fare quello che vogliamo. Lo spazio del quadro non si può più rinchiuderlo nei limiti della tela, ma va esteso a tutto l’ambiente». Ecco perché queste opere si chiamano concetti “spaziali”: perché tagliando una superficie si crea uno spazio nuovo, diverso da quello tradizionalmente accettato, uno spazio da esplorare.
Nei suoi Concetti spaziali, insomma, Fontana ha creato un senso spaziale diverso da quello bidimensionale proprio della pittura tradizionale: la tela tagliata o bucata, dunque modificata nella sua struttura, raggiunge da sola la terza dimensione e, trasformata nella sua condizione spaziale, viene ricondotta all’infinità del cosmo. Inoltre, i tagli verticali e i fori, che hanno i bordi o gli orli lievemente aggettanti verso l’esterno o verso l’interno, provocano sulla superficie del supporto anche sensibili variazioni di luce e di ombre e quindi chiaroscuri più o meno sfumati.
In pratica, Fontana introduce il concetto di opera aperta, a metà fra la pittura e la scultura. Come sculture, infatti, le tele realizzate dall’artista giocano con la luce, giacché hanno parti in rilievo, e mutano continuamente sotto gli occhi dello spettatore, che variando la sua posizione scopre nuovi punti di vista.