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La cosiddetta Maestà del Louvre è una pala d’altare eseguita dal grande pittore fiorentino Cimabue (1240-1302 ca.) intorno al 1280 per i francescani della Chiesa di San Francesco a Pisa. Trasportata a Parigi dopo l’occupazione napoleonica, nel 1811, la grande tavola non fu restituita dopo la caduta di Napoleone per via delle grandi dimensioni che ne rendevano difficoltoso il trasporto; fu dunque acquisita dal museo nel 1814 ed è ancora oggi conservata al Louvre (da cui il nome).
Attribuzione e datazione di quest’opera sono stati oggetto di dibattito nel corso del XX secolo. Oggi, tuttavia, l’autografia di Cimabue è generalmente riconosciuta, così come la data di realizzazione, il 1280 circa, che sicuramente precede quella della Madonna di Santa Trinita oggi agli Uffizi e molto probabilmente, sia pure di poco, anche quella della sua Maestà con San Francesco, di Assisi, che da questa deriverebbe.
La grande tavola del Louvre presenta Maria seduta sul trono con il Bambino in braccio, circondata dalla sua corte angelica. Il trono di legno intagliato, disposto non in prospettiva ma di scorcio, ossia obliquamente, in una sorta di assonometria intuitiva, determina la profondità della composizione. Gli alti gradini del trono appaiono fortemente inclinati, secondo una convenzione ancora bizantina detta ‘prospettiva inversa’. La pseudo-prospettiva frontale della fiorentina Maestà di Santa Trinita, infatti, avrebbe rappresentato una successiva, fondamentale conquista nello sviluppo del linguaggio cimabuesco.
La figura di Maria è maestosa, la sua posa è austera, come si conviene a una regina. Tutti i personaggi rivolgono lo sguardo allo spettatore; il giovanissimo Gesù, immaginato come un piccolo filosofo vestito all’antica che impugna il rotolo delle Sacre Scritture, benedice i fedeli con la mano destra.
La Vergine e il Bambino sono affiancati da sei angeli dalle grandi ali dispiegate e vestiti all’antica, appena più piccoli della Madonna nel rispetto delle gerarchie. Simmetricamente ordinati in due gruppi di tre, sono presentati a figura intera e disposti uno dietro l’altro, sfalsati in altezza, per suggerire un senso di scansione spaziale.
La loro espressione è seria, quasi imbronciata; sembrano costituire una scorta per la sacra coppia piuttosto che una loro soave compagnia celeste. Tengono tutti il trono con le loro mani diafane, anche se sembrano più accarezzarlo che sostenerlo: lo sfondo oro, d’altro canto, chiarisce che in Paradiso, dove tutto è luce divina, non esistono massa e peso.
La ricca cornice presenta preziose decorazioni fitomorfe, che accolgono ventisei tondi con altrettanti busti: Cristo (in cima), quattro angeli (nella cuspide), i quattro evangelisti (negli angoli), i dodici apostoli (ai lati) e cinque santi (nella base).
Confrontando quest’opera con le precedenti Madonne in trono di altri autori, ad esempio con una pala di Coppo di Marcovaldo, di appena dieci anni precedente, ci rendiamo subito conto che Cimabue seppe stabilire un nuovo canone. Pur non inclinando mai al sentimentalismo, egli riuscì a umanizzare i personaggi e a rendere la scena più naturale e coinvolgente.
Maria ha un’espressione pacata e dolce, un atteggiamento incline alla tenerezza, come mostrano il gesto affettuoso della mano materna che accarezza il ginocchio del figlio (l’iconografia di Maria è, d’altro canto, quella bizantina della Madonna della tenerezza) o la posizione del ginocchio destro, alzato per sostenere la figura del Bambino.
I corpi dei personaggi, che emergono dallo spazio sovrannaturale e illimitato del fondo oro, sono concreti, hanno un volume credibile e riempiono i propri vestiti, leggeri, preziosi e increspati di piegoline.
Con quest’opera, Cimabue offrì ai pittori più giovani anche un nuovo modello iconografico. Duccio, quando dipinse, pochi anni dopo, la sua Madonna Rucellai, ripropose un trono analogo, la medesima posizione dei personaggi, la stessa tenera espressività di Maria. Duccio imitò anche la preziosa cornice della Maestà cimabuesca.
Forse già nel 1280 circa, Cimabue fu impegnato ad affrescare la Basilica inferiore di San Francesco ad Assisi, in attesa di montare i ponteggi nel coro e nel transetto della Basilica superiore. Nel braccio destro del transetto inferiore, affrescò una deliziosa Maestà con San Francesco, purtroppo in parte ridipinta nei secoli successivi (i volti di Maria e Gesù, i panneggi) e poi anche malamente restaurata.
Benché sia rimasta fortemente scialbata, quest’opera costituisce ugualmente un brano altissimo della pittura cimabuesca. Faceva parte di un ciclo più ampio, in seguito parzialmente distrutto per fare posto agli affreschi della scuola giottesca, ancora oggi visibili. Alla parte dedicata al santo, corrispondeva quasi certamente un’altra sezione riservata forse a sant’Antonio da Padova o a san Domenico, oggi perduta per via della successiva riaffrescatura.
L’assonometria intuitiva del possente trono ligneo, un tempo arricchito di dorature, è simile a quella della coeva Maestà del Louvre. La spalliera è coperta da una cortina ricamata. In questo affresco, rispetto alla pala del Louvre, gli angeli sono solamente quattro.
L’iconografia è ancora quella della Madonna della tenerezza, e qui il piccolo Messia appare meno statico e impostato, anzi si lascia andare a un moto d’affetto nei confronti della madre, di cui cerca di afferrare un lembo del manto. Anche gli angeli appaiono meno austeri e sembrano perfino accennare un controllato sorriso.
Nella parte destra, Cimabue propone uno dei ritratti medievali più antichi e poetici del santo di Assisi, raffigurato come un piccolo, umile frate, vestito del ruvido saio, scalzo, con le stigmate bene in evidenza (mani, piedi e costato), un volto emaciato dall’espressione mite, la barba corta e la chierica sul cocuzzolo della testa.
Francesco tiene in mano un libro, verosimilmente il Vangelo che ispirò tutta la sua vita. Sono proprio l’aspetto così poco eroico, l’assoluta mancanza di idealizzazione, il naso aquilino e le orecchie a sventola sulla faccia sottile a celebrare la grandezza di quell’uomo, a esaltare la forza del suo carattere e la tempra della sua volontà.
A Cimabue è concordemente attribuita anche una tavola, con l’immagine ben poco tipizzata di Francesco, molto simile a questa, oggi conservata al Museo della Porziuncola.