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Simone Martini (1284 ca.-1344) nacque a Siena. Ben poco sappiamo della sua formazione; secondo la tradizione, che gli storici non hanno mai contestato, egli fu allievo di Duccio di Buoninsegna, principale esponente della cosiddetta Scuola senese. Le prime testimonianze di un’attività artistica autonoma di Simone risalgono al 1305-10 circa, quando il giovane pittore aveva 20-25 anni. Si tratta di Madonne che ancora denunciano una forte vicinanza stilistica a Duccio. La Maestà di Palazzo Pubblico a Siena di Simone Martini.
Martini si affermò professionalmente con la Maestà, che gli venne commissionata per il Palazzo Pubblico dal Governo dei Nove Signori di Siena. Si tratta di un vastissimo affresco di 110 metri quadrati (la sola scena centrale è ampia quasi 10 metri per 8). Il dipinto occupa tutta la “parete d’onore”, quella settentrionale, della Sala del Consiglio, oggi chiamata del Mappamondo. L’artista vi lavorò fra il 1312 (o forse 1313) e il 1315, con un secondo intervento risalente al 1321. A un primo sguardo, le parti più antiche dell’affresco evidenziano la forte influenza della lezione duccesca.
Nel contempo, un maggiore respiro spaziale testimonia che Simone Martini aveva già elaborato uno stile del tutto personale, il quale contemplava una certa affinità con l’arte di Giotto. D’altro canto, la scelta di affidare la realizzazione di quest’opera proprio a lui, con Duccio ancora in vita, può spiegarsi solo ipotizzando che i signori della città abbiano considerato il linguaggio del discepolo più aggiornato e moderno di quello del maestro.
La Vergine, che Siena aveva proclamato sua sovrana in occasione della battaglia di Montaperti, il 4 settembre 1260, siede su un trono architettonico d’oro, simile a un reliquiario gotico a tre cuspidi, sotto un grande ma leggero baldacchino. È vestita come una regina e indossa un preziosissimo manto di stoffa orientale. Il suo sguardo malinconico è puntato verso qualcosa che a noi non è dato conoscere, sicché ci appare immersa nei suoi pensieri, lontana e distaccata dalla sua affollata compagnia celeste. Maria è infatti circondata da angeli e santi, rivestiti di abiti ricamati e atteggiati come gli aristocratici personaggi di una corte.
La Madonna tiene in grembo il Bambino sorreggendolo con il braccio sinistro, mentre con la mano destra gli sfiora un piedino, secondo l’antica iconografia bizantina, ancora diffusissima, della Vergine della tenerezza. Gesù tiene in mano un cartiglio in cui si legge: «DILIGITE IUSTITIAM QUI IUDICATIS TERRAM» (“Amate la giustizia, voi che giudicate la Terra”). Anche la sua veste, un abitino leggero oggi molto rovinato, simulava una preziosissima seta.
In primo piano si riconoscono i quattro santi protettori della città (da sinistra, inginocchiati, Ansano, Savino, Crescenzio e Vittore). Due angeli al centro, vestiti di azzurro, porgono a Maria tazze colme di fiori.
In seconda fila, in piedi, si distribuiscono, sempre da sinistra, san Paolo, l’Arcangelo Michele, san Giovanni Evangelista, e, dall’altra parte del trono, san Giovanni Battista, l’arcangelo Gabriele e san Pietro. Il gruppo retrostante è formato sostanzialmente dagli apostoli, altri angeli e sante, tra cui Maria Maddalena (che si distingue perché vestita di rosso). Alcuni tra questi personaggi reggono le aste del baldacchino, la cui rotondità è evidenziata da una serie di piccoli stemmi araldici mostrati di scorcio.
La scena con Maria in trono e la sua corte è interamente racchiusa da una cornice decorata a finta tarsia marmorea, con finte mensolette architettoniche rappresentate in prospettiva. All’interno della cornice sono racchiusi venti oculi con figure. I quattro oculi angolari ospitano gli Evangelisti; gli oculi centrali, in alto e in basso, rispettivamente il Redentore benedicente e la doppia figura allegorica del Vecchio e Nuovo Testamento, ossia la Lex Vetus e la Lex Nova, che tiene nelle mani due tavole con i dieci comandamenti e i sette sacramenti.
Le figure in alto e nei due margini laterali sono Profeti, le quattro nel margine inferiore Dottori della Chiesa. Tra un oculo e l’altro si distribuiscono elementi vegetali con motivi araldici, tra cui prevalgono lo scudo bianco e nero simbolo della città di Siena (la cosiddetta balzana) e il leone rampante su sfondo rosso del Capitano del Popolo. Tali simboli si trovano, alternati, anche sul bordo pendente del baldacchino.
Sia all’interno della scena che sulla cornice si possono leggere numerose iscrizioni, cui venne affidato il messaggio etico-politico dell’intero affresco. La più importante, a caratteri d’oro, corre sulla fascia rossa in basso, subito sotto le figure inginocchiate: «Responsio Virginis ad dicta santorum / Diletti miei, ponete nelle menti / che li devoti vostri preghi onesti / come vorrete voi farò contenti. / Ma se i potenti a’ debil’ fien molesti, / gravando loro o con vergogne o danni, / le vostre orazion non son per questi/ né per qualunque la mia terra inganni». Con queste parole, Maria esorta al buongoverno e chiarisce che non sarà indulgente nei confronti di chi non tutela o addirittura danneggia i più deboli.
Sull’alzata nera del gradino, posto oltre le figure inginocchiate, si legge una seconda frase pronunciata dalla Vergine: «Li angelichi fiorecti, rose e gigli, / onde s’adorna lo celeste prato, / non mi dilettan più che i buon consigli. / Ma talor veggio chi per proprio stato / disprezza me e la mia terra inganna, / e quando parla peggio è più lodato. / Guardi ciascun cui questo dir co[n]dana». La Vergine apprezza i fiori che le vengono offerti dagli angeli ma preferisce l’azione politica onesta e invita a guardarsi da chi sceglie di anteporre l’interesse privato alle istituzioni e riesce a ottenere il consenso con la menzogna. Un messaggio, bisogna riconoscerlo, di grande attualità.
Nonostante l’accurato restauro, l’opera appare oggi molto impoverita. L’artista, infatti, aveva dipinto la sua Maestà in gran parte a secco, per conferirle lo splendore cromatico di un’opera di oreficeria (e i Senesi erano maestri, nella produzione dei gioielli). Le aureole sono punzonate, come nelle pale d’altare su tavola: i santi nella parte destra hanno infatti l’aureola in rilievo e raggiata, gli altri ostentano nimbi ben più elaborati e preziosi, in quanto decorati con stampini floreali.
La superficie pittorica era arricchita da rombini di vetro colorato (presenti nelle cuspidi del trono), perle (sulle punte fogliacee delle cuspidi), parti metalliche dipinte (nella spada di San Paolo), foglie d’oro zecchino (sulle aste del baldacchino), rilievi a stucco, inserti di pergamena (il cartiglio del Bambino), che solo in parte si sono conservati. Il fermaglio del manto della Vergine è un vero cristallo di rocca lavorato a cabochon, con la superficie liscia e convessa e la base piatta. Questo ricco polimaterismo non è consueto nella pittura italiana del periodo e i suoi precedenti vanno ricercati nella tradizione artistica europea.
Se la Maestà di Duccio presentava ancora parecchie componenti tradizionali, cui l’istituzione ecclesiastica si mostrava così legata, l’opera di Simone è compiutamente, consapevolmente gotica e coniuga religione, bellezza, utilità politica. Appare chiaro che il Comune, con questa commissione a Simone Martini, intendeva opporre al carattere sacro della grandiosa Maestà duccesca una interpretazione più profana o, se si vuole, più laica del tema tradizionale.
Simone Martini era stato allievo di Duccio di Buoninsegna, si era formato alla sua bottega e da lui aveva imparato i segreti del mestiere, acquisendone i tratti stilistici più evidenti. Non possiamo quindi prescindere da questa premessa per giudicare il suo lavoro. La Maestà di Palazzo Pubblico è fortemente debitrice della Maestà del Duomo, il capolavoro, celebratissimo, che Duccio aveva ultimato nel 1311, quindi solo pochi anni prima. L’impianto complessivo è simile, alcuni personaggi sono i medesimi (tra questi, i santi protettori di Siena, ugualmente inginocchiati), perfino alcune fisionomie sono quasi sovrapponibili, come nel caso di san Pietro, dei due San Giovanni e di Sant’Agnese e molti altri. Il trono, come quello duccesco, non è prospettico ma aperto a libro.
Tuttavia, il giovane allievo aveva mostrato sin da subito la volontà di affrancarsi dall’ingombrante figura di Duccio. Il trono gotico dimostra l’attenzione per la nuova moda figurativa che veniva da Oltralpe, e dalla Francia soprattutto; la gamma cromatica è molto più ricca; le figure mostrano una maggiore vivacità e plasticità; la loro collocazione non è paratattica, perché non sono rigorosamente allineate e su registri sovrapposti ma un po’ più articolate nello spazio, a ventaglio intorno alla Vergine, tanto che alcune si “impallano” fra di loro, coprendosi parzialmente; alcuni volti non sono più d’impronta bizantina ma espressivi e sorridenti. Anche gli atteggiamenti sono differenziati e le posizioni di tutte le mani, dalle dita lunghe e affusolate, risultano variate e articolate.
Insomma, Simone mostra di conoscere assai bene anche la pittura di Giotto, che di Duccio era l’antagonista, e di averla considerata con attenzione. Il trono gotico richiama quello della Maestà di Ognissanti, terminata da Giotto entro il 1310, da cui Martini prende anche le due figure degli angeli inginocchiati, assenti nella Maestà del Duomo. L’impianto prospettico del baldacchino conferisce alla scena grande credibilità spaziale. Giottesca, più che duccesca, è anche la severità di Maria, che non guarda dolcemente il fedele ma fissa lo sguardo severo verso un altrove imperscrutabile. Non sfugge, infine, che la luce che illumina la scena non è concepita come paradisiaca ma proviene da destra, proprio come quella naturale che nella sala entra dalle finestre.
Il capolavoro di Simone è datato e firmato e questo ci consente di stabilire con certezza quando fu terminato. Infatti, alcuni versi sulla balza a finti marmi, in basso oltre la cornice, recitano: «mille trecento quindici vol(gea)/ e Delia avia ogni bel fiore spinto / e Iuno già gridava: I’mi rivol(o)». Iuno è giugno, quindi la scritta indica chiaramente la metà di giugno del 1315. Segue, incisa, la firma “a man de Symone”. La data di inizio dei lavori dovrebbe essere, invece, il 1312 o il 1313.
L’esecuzione dell’affresco si interruppe quando Simone si recò ad Assisi per decorare la Cappella di San Martino. La cesura, nella Maestà, è chiaramente percepibile all’altezza del piedistallo del trono, dei busti dei santi e degli angeli inginocchiati e subito sotto i penultimi oculi dei lati verticali della cornice. Ricordiamo che Simone lavorava per pontate, ossia eseguendo l’affresco per bande orizzontali, da destra verso sinistra e dall’alto verso il basso.
Il più spiccato naturalismo della seconda fase del lavoro senese, evidente soprattutto nelle decorazioni floreali tra gli oculi della cornice (le figure erano state praticamente già tutte ultimate, prima della sua partenza per Assisi), con i fiori – soprattutto i cardi selvatici – più gonfi e le foglie più voluminose, e anche la scioltezza mostrata dai santi racchiusi negli oculi inferiori (le cui figure fuoriescono dalle cornici tonde), testimoniano che l’esperienza nella Basilica di San Francesco e lo studio attento degli affreschi di Giotto avevano lasciato un segno molto profondo in Simone, che abbandonati i bizantinismi ducceschi si convertiva a uno stile più moderno.
Negli anni immediatamente successivi, l’affresco venne danneggiato dall’umidità. Martini, nel 1321, fu quindi incaricato di restaurarlo. L’artista, intervenendo chirurgicamente sull’opera (asportò porzioni del vecchio intonaco dipinto e stese nelle lacune nuovi strati freschi), ridipinse le teste della Madonna, del Bambino (che diventa paffuto in modo del tutto inedito), di sant’Orsola e Caterina d’Alessandria (che si trovano immediatamente ai lati della Madonna), dei due angeli inginocchiati e dei santi Ansano e Crescenzio (il primo e terzo inginocchiati). Non è affatto da escludere che, in questa terza fase, Simone colse l’occasione per aggiornare ulteriormente la propria opera, senza limitarsi a metter mano alle sole parti guaste.