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A partire dal terzo decennio del XVI secolo, nei grandi centri italiani e soprattutto nella Roma di papa Clemente VII, si sviluppò una complessa fase artistico-letteraria definita Manierismo. Fu difatti nell’atmosfera colta, tollerante e raffinata della corte del nuovo papa Medici che i giovani allievi di Raffaello (Giulio Romano, Polidoro da Caravaggio e Perin del Vaga) trovarono, come ha scritto lo storico dell’arte Antonio Pinelli, «un comune terreno d’intesa nell’aspirazione a una suprema ricercatezza stilistica e nel gusto per la citazione archeologica, il concettismo letterario e l’eleganza decorativa».
L’arte di questo particolare filone architettonico e figurativo del Rinascimento, così complessa ed elitaria, venne subito accolta dalle grandi corti italiane ed europee. Destinata a committenti ricchi ed eruditi, che amavano circondarsi di immagini intellettualistiche ed elaborate, l’arte manierista si allontanò presto dall’equilibrio e dalla giusta misura che invece aveva guidato l’opera dei classicisti.
Il termine Manierismo, comparso per la prima volta nel XVIII secolo, deriva da una parola che si trova di frequente negli scritti cinquecenteschi, ossia “maniera”. Fu Giorgio Vasari, nelle sue Vite, a teorizzarne i caratteri; tuttavia, già nel corso del XVI secolo, molti artisti e letterati adottarono il termine “maniera”, soprattutto per la sua valenza assoluta, nella stessa accezione con cui oggi è usata la parola “stile”. Una cosa è infatti parlare di “stile gotico” o di “stile di Raffaello”, in riferimento ad un soggetto ben preciso, altro è il significato assoluto di stile.
È possibile affermare, infatti, che una persona “ha stile” o che ne è priva e lo stesso può dirsi di un’architettura o di uno spettacolo. Raffaello, nella sua Lettera a Leone X, definì gli edifici gotici «privi d’ogni grazia, senza maniera alcuna»: ineleganti, diremmo noi, senza stile. Ai nostri giorni, nel linguaggio comune, la parola maniera è usata con la stessa accezione negativa dell’aggettivo “manierato”, ossia ricercato, affettato, convenzionalmente astratto e inespressivo.
Anche l’aggettivo “artificioso” oggi si sceglie per indicare qualcosa di cerebrale, di volutamente complicato, di eccessivamente ricercato e insincero: nel XVI secolo, invece, si auspicava che tutte le opere d’arte o di letteratura fossero “artificiose”. Il Condivi, autore di una biografia su Michelangelo, definì, ad esempio, il cartone per la Battaglia di Cascina «artificiosissimo», volendo con ciò sottolineare la bravura del maestro. La cattiva fortuna critica che sino a pochi anni fa ha accompagnato l’arte manierista ha trovato origine proprio nella tendenza all’eccesso insita nelle sue forme, che talvolta possono apparire “troppo” eleganti, “troppo” aristocratiche, “troppo” raffinate e quindi affettate.
Nella seconda metà del Cinquecento, insomma, si richiedeva alle opere d’arte e di letteratura di risultare composte, raffinate, ricercate, in una parola artificiose. Esse dovevano mostrare, cioè, di possedere maniera, stile; e inoltre dovevano parlare un linguaggio artistico tanto elegante quanto innaturale. Ciò comportava naturalmente degli ostacoli, ma proprio nel superarli senza apparente difficoltà si dimostrava l’abilità degli artisti e dei letterati. Solo nel vincere certe prove essi potevano infatti mettere in mostra la propria destrezza e la propria cultura, ricavandone non poca gratificazione personale e professionale.
Baldassarre Castiglione, nel suo Cortegiano, pubblicato nel 1528, scrisse che bisogna «usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte, e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi»: come il vero condottiero era sprezzante del pericolo, così il grande artista e il colto letterato “sprezzavano” le difficoltà del proprio mestiere. Praticare la sprezzatura generava l’amore per la complessità, l’ossessiva ricerca della difficoltà e una sorta di fastidio nei confronti della sobrietà: l’eccesso fu dunque una conseguenza inevitabile di questo nuovo gusto artistico.
Mentre i grandi maestri del Rinascimento maturo ricercarono la maniera per conquistare le vette della bellezza o dell’idea, gli artisti dal tardo Cinquecento aspirarono alla “maniera” in sé. Si prenda ad esempio, per meglio comprendere questo fondamentale passaggio, il Genio della Vittoria, un capolavoro di Michelangelo, l’artista che per i manieristi costituì un irrinunciabile modello di riferimento. Ammirando l’energico giovane michelangiolesco che impersona la Vittoria, notiamo che questi si torce su sé stesso quasi allo spasimo, assumendo una posizione innaturale. Quella torsione, tuttavia, nell’intento di Michelangelo è carica di tensione morale; e se la Vittoria ha maniera e artificio grazie alla sua torsione, una scultura manierista cercherebbe maniera e artificio “nella” sua torsione.
Il gusto manierista coinvolse non solo pittura, scultura e architettura, ma ogni campo dell’arte: dalla decorazione al teatro, dagli arredi alle arti decorative, dall’oreficeria al collezionismo, fino alla progettazione di parchi e giardini. Elitario, nobile e sofisticato, esso presentò in tutta Europa caratteristiche simili. Gli uomini e le donne che animano i quadri manieristi, con le loro membra allungate, le pose studiate, gli atteggiamenti alteri, non sembrano appartenere al nostro mondo. Questo perché, come ha scritto egregiamente lo storico dell’arte John Shearman, il Manierismo comportò «un raffinamento della ed un’astrazione dalla natura»; in altre parole, le forme naturali tesero ad una stilizzazione che puntava a renderle raffinate, aristocratiche, al punto da risultare, talvolta, quasi irreali, astratte.
Anche gli architetti avviarono ricerche e sperimentazioni dirette nei campi più disparati ma è possibile, tuttavia, individuare nell’architettura manierista una linea progettuale comune, segnata dal rifiuto per la pura imitazione della classicità, dalla tendenza a trasgredire le regole degli ordini architettonici e da una vistosa accentuazione del decorativismo.
In Emilia si sviluppò un’espressione artistica che ricercò il superamento dei limiti naturali. Nei dipinti di Correggio e Parmigianino, per esempio, i colori sono intensi e cangianti, le anatomie dei personaggi allungate e stilizzate, le posizioni innaturali ma aristocraticamente eleganti. Correggio, in particolare, inaugurò un’arte dinamica e fantasiosamente prospettica. Nell’Assunzione della Vergine, affrescata nella cupola del Duomo di Parma, egli sviluppò l’idea della continuità spaziale fra l’interno della chiesa e l’apparizione del Paradiso, verso il quale le figure degli angeli e della Madonna, viste di scorcio dal basso, sono attratte con un vorticoso moto rotatorio.
Parmigianino elaborò immagini eleganti, raffinate e vistosamente stilizzate, come dimostra il suo Autoritratto allo specchio convesso. Con le sue Madonne, tra cui la celebre Madonna dal collo lungo, egli creò un nuovo canone di bellezza femminile ideale e irreale, che non ricerca la verosimiglianza naturalistica.
L’opera di Giulio Romano, allievo di Raffaello, dimostra che proprio i grandi artisti del Rinascimento maturo avevano inventato, in parte inconsapevolmente, il primo vocabolario dello stile manieristico; studiando le opere di questi maestri, infatti, i manieristi trovarono tutti gli stimoli necessari per accentuare il loro narcisismo culturale. A Mantova, dove operò come architetto dei Gonzaga, Giulio Romano realizzò architetture elaborate e sofisticate, come il Palazzo Te, ispirato alle grandi residenze dell’antica Roma ma ricco di invenzioni linguistiche.
I grandiosi affreschi che decorano gli ambienti del palazzo dovevano emozionare e stupire il pubblico, con le illusioni ottiche, i capricci, le misteriose allegorie. Nella Sala dei Giganti, Giulio Romano concepì un affresco, la Caduta dei Giganti, che copre completamente, senza soluzione di continuità, tutte le pareti della stanza e la volta, camuffandone anche la percezione degli angoli.
A Firenze, Cosimo I dei Medici adottò una politica artistica illuminata. Trasferì la sua residenza privata a Palazzo Vecchio, facendolo ristrutturare da Vasari, mentre Ammannati e Buontalenti trasformarono per lui Palazzo Pitti in lussuosa reggia suburbana. Cosimo I incaricò Vasari anche della costruzione di un edificio annesso a Palazzo Vecchio dove si potessero concentrare tutti gli uffici amministrativi e giudiziari del Granducato, gli Uffizi, appunto. Già all’epoca, un piano del palazzo fu destinato a raccogliere le ricchissime collezioni medicee, configurandosi come il primo nucleo del museo successivamente allestito negli stessi ambienti.
A Firenze operarono anche il pittore Bronzino, grande ritrattista, e gli scultori Cellini e Giambologna, che continuarono le ricerche intellettualistiche del Manierismo elaborando soluzioni formali ardite. L’arte di Bronzino, destinata a committenti colti e ricchi, è caratterizzata da stile prezioso, tecnica impeccabile e complessità dei soggetti, ricchi di citazioni letterarie.
Nelle sculture del Giambologna, i personaggi sono composti secondo spirali ascendenti che spingono lo spettatore a girarvi attorno, per cogliere la varietà delle singole parti. Le tre figure che compongono il suo Ratto della sabina, per esempio, si attorcigliano come una girandola di fuoco d’artificio.
Nelle sculture del Cellini, il virtuosismo anatomico esprime un nuovo ideale di nudo, agile, raffinato e sensuale. Il suo Perseo è realizzato con la cura e la finezza di un’opera di oreficeria di grandi dimensioni e sembra esemplificare le teorie vasariane sull’importanza dello stile, da intendersi come combinazione di inventiva, compiutezza, raffinatezza e naturale eleganza.
A Venezia, Tintoretto rinnovò la pittura lagunare con gli elementi figurativi del Manierismo. Nella sua Crocifissione, egli ricercò una difficile sintesi fra la complessa composizione spaziale dei manieristi, tesa da prospettive diagonali esasperate e animata dai movimenti espressivi delle figure, e l’uso della tipica tavolozza veneta. Tintoretto amò anche le illuminazioni violente, ottenute con forti contrasti di luci e ombre. Veronese, al contrario di Tintoretto, produsse una pittura festosa, serenamente olimpica e di gusto profano. Ambientò le sue scene sacre nella Venezia cinquecentesca e privilegiò la raffigurazione di cene sontuose animate da molti personaggi.
Sempre a Venezia, l’architetto Sansovino introdusse l’architettura del classicismo romano. Per la ristrutturazione di Piazza San Marco, egli prese a modello il Foro antico descritto da Vitruvio. La sua Libreria di San Marco presenta un lungo prospetto, a doppio ordine di arcate con porticato dorico, che richiama scopertamente quello del Teatro di Marcello a Roma.
I pittori manieristi italiani furono molto amati nelle corti europee. Un esempio per tutti può essere il milanese Giuseppe Arcimboldi, pittore ufficiale a Vienna e in seguito a Praga, che raggiunse grande fama con l’invenzione delle cosiddette “teste composte”, ritratti e busti allegorici ottenuti combinando oggetti, animali, fiori, frutta e verdura con funzione illusionistica. Un’idea per certi versi elementare, che Arcimboldi però risolse in termini qualitativi elevatissimi, facendone un esempio d’arte ricco di significati concettuali e formali, ossia un vero e proprio manifesto della cultura del suo tempo.
Chiaro e sintetico