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Mark Rothko: aneliti di infinito
«L’arte è estasi o non è niente».
Autore: Giuseppe Nifosì Pubblicato in Il Novecento: gli anni Cinquanta e Sessanta – Data: Agosto 18, 2020 3 commenti 9 minuti
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Nel 1943, Edward Alden Jewell, critico d’arte del «New York Times», scrisse un articolo in cui espresse il suo “turbamento” di fronte ai quadri di alcuni esponenti della nuova avanguardia pittorica americana, tra cui Adolph Gottlieb e Mark Rothko. I due artisti gli risposero, assieme a Barnett Newman, enunciando i cinque principi estetici della propria arte. Questo loro testo è considerato come una sorta di “manifesto” dell’astrattismo americano.

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«1. Per noi l’arte è un’avventura che ci conduce in un mondo sconosciuto. Soltanto coloro che per libera volontà si assumono tale rischio possono scoprire questo mondo. 2. Questo mondo dell’immaginazione è lasciato alla fantasia e si trova in aperto contrasto con il pensiero comune dell’uomo. 3. Il nostro compito come artisti è mostrare agli uomini il mondo come noi lo vediamo, e non come loro lo vedono.

4. Noi siamo a favore di una semplice espressione del pensiero complesso. Siamo per le grandi forme, perché il loro impatto è inequivocabile. Vogliamo dare nuovo valore alla superficie del dipinto. Siamo per le forme bidimensionali, perché distruggono l’illusione e sono veritiere. 5. Tra i pittori è diffusa l’opinione che ciò che si dipinge non conti, purché lo si dipinga bene. Questa è pura accademia. Non esiste un buon quadro sul nulla. Noi crediamo che il soggetto del quadro sia essenziale e che abbia valore solo quando è tragico e senza tempo. Sotto questo tempo ci sentiamo molto legati all’arte primitiva, arcaica».

La Scuola di New York

Nel maggio del 1950, il Metropolitan Museum di New York annunciò l’organizzazione di una mostra dedicata all’arte americana di quegli anni. Furono tuttavia esclusi dall’esposizione tutti gli artisti che, già dagli anni Trenta, avevano avviato nel paese un processo di rinnovamento dell’arte, e iniziato un percorso di sperimentazione rivolto, tendenzialmente, a un’astrazione di stampo espressionista. Irritati dall’esclusione, questi artisti formarono un gruppo, oggi identificato con il termine Scuola di New York, e che l’«Herald Tribune» ribattezzò “Gli Irascibili”, per il tono della lettera di protesta che questi pittori inviarono al presidente del Metropolitan. Nel gennaio del 1951, la rivista «Life» pubblicò una celebre foto in cui 15 “irascibili” posarono (provocatoriamente) vestiti da banchieri, ossia da “persone per bene”, in giacca e cravatta. Tra loro c’erano Jackson Pollock, Willem de Kooning, Mark Rothko, Barnett Newman, Adolph Gottlieb, Ad Reinhardt e Clyfford Still.

Nina Leen, Gli Irascibili, 1950. Fotografia. Al centro, di profilo, Jackson Pollock; in primo piano, seduto a destra, Mark Rothko.

In verità, la Scuola di New York non fu mai né un movimento né un gruppo compatto (e neppure volle mai esserlo). I suoi componenti, legati fra loro da sentimenti di stima, simpatia o amicizia, si limitarono a lavorare insieme, a far fronte comune, a condividere aspirazioni, idee, difficoltà e, magari, anche successi. Successi che arrivarono, a dire il vero: i nuovi artisti americani riuscirono a incidere profondamente nell’evoluzione artistica e culturale del secondo Novecento, che difatti tende ad essere identificato proprio con il loro linguaggio. È fuor di dubbio, infatti, che il campo della ricerca d’avanguardia si stava spostando dall’Europa agli Stati Uniti.

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Nel variegato contesto della Scuola di New York è possibile individuare tre diversi orientamenti artistici: l’Espressionismo astratto, il Color Field e la Post painterly abstraction. Dell’Espressionismo astratto, e dell’opera di Pollock in particolare, abbiamo già parlato in un precedente articolo. I pittori del Color Field e della Post painterly abstraction, in un processo di sublimazione della fantasia, si indirizzarono verso un genere di pittura astratta molto controllata, calibrata, logica e analitica: una sorta di astrazione sedimentata e contemplativa, espressa attraverso grandi superfici quasi monocrome o solcate da poche linee rigorose. Il principale esponente del Color Field (letteralmente ‘campo colorato’) fu Mark Rothko.

Mark Rothko fotografato nel suo atelier nel 1961.

L’arte di Rothko

Il pittore statunitense di origine lettone Marcus Rothkowitz, noto come Mark Rothko (1903-­1970), è una delle figure di artista più interessanti del XX secolo. Rothko ambì a sviluppare un nuovo concetto di spazio pittorico o, se si preferisce, un nuovo concetto di spazio visivo: uno spazio del tutto diverso da quello naturalistico e prospettico, diverso da quello impressionistico e perfino da quello cubista; uno spazio-colore che alcuni possono percepire come respingente, claustrofobico e ostile, ma che per altri è quasi irresistibile, ipnotico, capace di evocare atmosfere mistiche e immateriali. Le sue tele, in genere verticali e di grande formato, sono infatti composte da due, tre o quattro rettangoli colorati, dai contorni fluidi e trasparenti, concatenati l’uno all’altro e sovrapposti.

Mark Rothko, No.6 (Yellow, White, Blue over Yellow on Gray), 1954. Olio su tela, 2,4 x 1,5 m. Collezione Gisela e Dennis Alter.

Per certi versi, Rothko fu l’anti­ Pollock. Mentre Pollock, infatti, espresse l’ansia vitale e il movimento, con il groviglio dei suoi colori accesi, il corpo a corpo con la tela, la danza rituale del gocciolamento, Rothko puntò a una pittura essenziale, ridotta ai minimi termini, fatta di materia cromatica pura, luminosa e vibrante. Contemplativa. Guidato da un anelito di misticismo, sembrò volersi porre di fronte all’estremo silenzio di profondità inesplorate: fu così che evitò figure, forme, linee, gocce, impasti e perfino l’uso di materie insolite, concentrandosi sul valore puramente spirituale del colore, da lui concepito come fonte percettiva ed emotiva. «L’arte è estasi o non è niente», usava dire.

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Pollock si proiettava, idealmente, sulla superficie dei suoi quadri, lasciando un’impronta visibile della sua interiorità. Rothko, al contrario, temeva che i suoi sentimenti, tracimando, potessero ostacolargli quella ricerca di assoluto. Per questo si annullò e si concentrò su qualcosa di “altro” da sé, qualcosa che non vedeva nella vita reale ma a cui aspirava e che fatalmente, irrimediabilmente, non trovava. Infatti, continuò ossessivamente a cercarla. Quindi, se nei quadri di Pollock riconosciamo l’artista, che si è manifestato nei suoi grovigli, di fronte a quelli di Rothko ci ritroviamo soli, e sentiamo di poter solo condividere la sua medesima ricerca, di poter solo formulare le sue stesse domande.

Mark Rothko, No.2 (Blue, Red and Green), 1953. Olio su tela, 2 x 1,7 m. Svizzera, Collezione privata.

Una insaziabile ricerca di infinito

Rothko, in una sorta di tensione neoromantica – e il suo debito nei confronti del tedesco Friedrich è innegabile – dedicò tutta la sua vita a contemplare quello spazio infinito e ideale, che a volte gli si manifesta come cielo puro e rasserenante, altre volte sembra esplodere in bagliori di luce mistica. Non a caso, la sua pittura fu definita dal critico Harold Rosenberg come «il versante teologico dell’Espressionismo astratto». Rothko non si definiva né si considerava un uomo religioso. Non volle mai circoscrivere la sua ricerca, prima di tutto umana, esistenziale, alla sfera esclusiva del sacro.

Tuttavia, i suoi quadri ci appaiono come una teofania, l’apparizione del “divino” per mezzo della luce e del colore. E fu egli stesso indirettamente a confermarlo, quando asserì che le sue tele «distruggono l’illusione e rivelano la verità». I valori percettivi dei suoi quadri non mirano soltanto a creare una nuova estetica ma vogliono provocare reazioni emotive e inconsce. «Il fatto che un gran numero di persone rimanga profondamente turbato e pianga quando si trova di fronte ai miei dipinti – scrive ancora Rothko – dimostra che riesco ad entrare in contatto con quelle fondamentali emozioni umane».

Mark Rothko, Untitled, 1951. Olio su tela, 11,2 x 9,5 m. Washington, National Gallery of Art.

La luce si spegne

Il “divino” cui Rothko aspirava, tuttavia, non gli venne incontro; l’infinito rimase bloccato oltre la superficie della tela; quell’anelito insoddisfatto di una Presenza si tramutò in presa d’atto di una Assenza. Lo comprendiamo perché, nel corso degli anni Sessanta, i colori delle sue tele si scurirono, i bagliori di luce sparirono, l’ideale finestra spirituale, oltre la quale l’artista aveva mantenuto, per anni, fisso lo sguardo, iniziò ad apparire drammaticamente sbarrata. I suoi ultimi quadri si fecero sempre più cupi, tendendo al nero. L’Assenza si materializzò, sotto forma di buio.

Mark Rothko, Light red over black, 1957. Olio su tela, 2,3 x 1,5 m. Lontra, Tate Modern.
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Mark Rothko, Untitled (Black on Gray), 1969-70. Acrilico su tela, 2 × 1,75 m. New York, Solomon R. Guggenheim Museum.

La Rothko Chapel

Nel 1964, John e Dominique de Menil commissionarono a Rothko la decorazione di una cappella a pianta ottagonale, costruita a Houston, nel Texas, e oggi conosciuta come Rothko Chapel (approfondimento). L’artista consegnò quattordici dipinti: nove di questi componevano tre trittici, le altre tele erano invece singole. Tutti i quadri sono scurissimi. Sembra che la cappella abbia le pareti finestrate, ma queste finestre danno sul nulla.

Mark Rothko, The Rothko Chapel, 1965-66. Complesso di 14 dipinti (tra cui 3 trittici), Olio su tela. Houston, Texas (Usa).

Il grande successo di pubblico e di critica non alleviò il profondo disagio esistenziale di questo artista. Logorato nel corpo e nell’anima da una profonda depressione, un mattino del 1970 Rothko si suicidò nel suo studio, scegliendo un sistema crudo e autodistruttivo: si recise le vene dopo aver ingerito due flaconi di sonnifero. Oggi i quadri di Rothko sono valutati tra gli 80 e i 90 milioni di dollari.

Mark Rothko, The Rothko Chapel, 1965-66. Houston, Texas (Usa).


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  1. ottima sintesi.vorrei che mi consigliaste un buon libro sull arte di Rothko.una monografia.Io son tra quelli che cercano la spiritualita difronte alle sue tele.Contenta oggi di avere scoperto arte svelata e i blog di Nifosi’

    1. Io suggerisco sempre di ascoltare la voce dell’autore. Ci sono due libri che raccolgono testimonianze di Rothko, ossia Mark Rothko, l’artista e la sua realtà, e Mark Rothko, Scritti. È molto carino anche Pollock e Rothko di Gregorio Botta.

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