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La materia e l’arte dell’Informale
Grumi di bellezza primordiale.
Autore: Giuseppe Nifosì Pubblicato in Il Novecento: gli anni Cinquanta e Sessanta – Data: Ottobre 28, 2020 1 commento 6 minuti
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Nel 1952, Michel Tapié (1909-1987), critico d’arte francese, in un saggio intitolato Un’arte diversa (Un art autre) cercò di descrivere quella tendenza dei pittori europei del secondo dopoguerra che riconobbe come una radicale rottura con tutte le tradizionali nozioni di ordine e composizione. In tale circostanza, egli coniò il termine Informale e utilizzò la definizione di arte informale per riferirsi alle “preoccupazioni” antigeometriche, antinaturalistiche e non-figurative di questi artisti, sottolineando la loro inclinazione alla spontaneità, all’irrazionale e la loro volontà di “perdere la forma”. Gillo Dorfles (1910-2018), esperto italiano di arte contemporanea, preferì indicare con l’etichetta di Informale «quelle forme di astrattismo dove, non solo manchi ogni volontà e ogni tentativo di figurazione ma manchi anche ogni volontà segnica e semantica».

L’Informale di Jean Fautrier

L’arte informale, intesa con tali caratteristiche, era stata consacrata ufficialmente a Parigi già nel 1951, con le due mostre Vehémences confrontées e Signification de l’Informel; in realtà, essa era stata anticipata quasi un decennio prima (ossia fra il 1942 e l’anno successivo) dall’artista parigino Jean Fautrier (1898-1964). Nato a Parigi, dopo gli studi accademici a Londra Jean Fautrier esordì con opere di crudo realismo; in seguito, negli anni Trenta, si dedicò alla sperimentazione di nuove tecniche espressive fino ad approdare a un nuovo linguaggio, con il quale dimostrò di sapere comunicare un senso doloroso di decadenza.

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Gli Ostaggi

Le sue opere della serie Ostaggi, otages in francese, sono costituite da grandi macchie materiche, aggrumate, contorte, che richiamano l’immagine di carne viva lacerata o volti umani logorati dall’angoscia e dalle privazioni. Sono rappresentazioni dedicate ai prigionieri di guerra fucilati dai tedeschi o dilaniati dal filo spinato nel tentativo di fuggire dai campi di concentramento: l’artista, infatti, era stato un involontario testimone di torture ed esecuzioni sommarie perpetrate dai nazisti su civili inermi.

È chiaro che la scelta di rendere omaggio alle vittime del nazismo costituì per Fautrier un mero pretesto; in verità, gli ostaggi celebrati dall’artista rappresentano l’umanità intera, perennemente imprigionata nella materia di cui è formata, e costituiscono una metafora della sua sofferenza.

Jean Fautrier, Ostaggio, 1944. Tecnica mista su tela. Osaka, The National Museum of Art.

Le altre serie di Fautrier sono quelle degli “oggetti”, dei “nudi” e dei “paesaggi”. In queste opere va riconosciuto al pittore il merito di aver affrontato con determinazione i nuovi sentieri di un’arte ribelle a ogni cristallizzazione della forma. Sulle sue tele, lavorando con la spatola, egli formò stratificazioni di colore bianco misto a colla, che sovente contornò con cera sulla quale lasciava cadere polvere di pastello colorata. Il risultato è quello di quadri di grande suggestione, talvolta rappresentanti paesaggi che ovviamente non hanno nulla a che vedere con “vero” paesaggi naturali, trattandosi piuttosto di tristi e desolati paesaggi dell’anima.

Jean Fautrier, L’arbre vert, 1942. Tecnica mista su carta. Madrid, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia

L’Arte materica

Rientra nel campo più ampio e articolato dell’Informale anche la cosiddetta Arte materica, sviluppatasi soprattutto a partire dagli anni Cinquanta del Novecento. Dobbiamo premettere che in qualunque epoca della storia dell’arte, ogni artista ha sempre valutato con attenzione l’uso di una tecnica e la scelta di un determinato materiale: tuttavia, tecnica e materiale non sono mai stati considerati essenziali per la valutazione estetica di un’opera d’arte. Soltanto nel XX secolo, la materia è divenuta la ragione principale, se non proprio la ragione unica, di un dipinto o di una scultura, tanto da giustificare, nel secondo dopoguerra, l’adozione dell’aggettivo “materico” per indicare ogni opera che privilegia proprio l’importanza conferita alla materia con cui è realizzata.

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Dal secondo dopoguerra, gli artisti fecero ricorso, e sempre più frequentemente, a nuovi materiali (laminati plastici, cortecce, legni bruciati, tele di sacco, stracci, reti metalliche, lamiere, corde, stoffe da tappezzeria, lenzuoli cuciti), spingendosi a impastare segature o sabbie quarzifere con colla vinilica, smalti e vernici. Tale scelta non fu più legata a una funzione provocatoria o scandalistica e neppure fu caricata di significati simbolici: l’uso di materiali comuni espresse, piuttosto, la voglia di indagare tutte le possibilità comunicative della materia, presentandola per quella che è, lasciando aperta ogni possibile interpretazione.

Le scabre superfici di Antoni Tàpies

Tra i più grandi sperimentatori di tecniche e materiali fu Antoni Tàpies (1923-2012), pittore spagnolo e protagonista dell’Avanguardia catalana. I grandi quadri di questo artista sono ottenuti con l’uso di calcina mescolata a gesso, argilla e sabbia. Essi presentano superfici grumose e scabre, talvolta intersecate da crepe profonde, incavi, spaccature, che li rendono simili a muri scrostati o a veri e propri paesaggi contemplati dall’alto. Con la sua arte, Tàpies non volle imitare la realtà fenomenica ma la riprodusse idealmente sulla tela, usando materiali che si trovano in natura e ricorrendo a suggestioni fortemente “tattili” di rugosità e di porosità. Egli dimostrò che la natura può ispirare gli artisti attraverso i suoi stessi materiali, senza costringerli a competere con essa illustrando mimeticamente le sue apparenze più esteriori.

Antoni Tàpies, Forats i Claus sobre blanc, 1968. Tecnica mista su tela. Parigi, Galleria De Sarthe.

I cretti di Alberto Burri

Costituì uno degli esempi più significativi di Informale italiano del secondo dopoguerra anche l’arte di Alberto Burri (1915-1995). Nel 1948-49, egli polarizzò il suo interesse sulla vitalità organica ed espressiva della materia, iniziando a utilizzare catrame, smalti, sabbie e applicandoli alle sue tele. Tra il 1950 e il 1952 iniziò a realizzare i suoi celebri sacchi, conferendo ad essi una connotazione fortemente espressiva. Si tratta di composizioni di tele di sacchi, talvolta su fondi monocromi, cucite secondo una sostanziale simmetria, ricche di effetti cromatici, plastici e materici affidati alle diverse tonalità e agli spessori delle tele.

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Ai sacchi si aggiunsero in seguito i legni, le carte, i ferri e soprattutto le plastiche bruciate. Torneremo a parlare di queste opere di Burri. A partire dal 1973, l’artista iniziò a sperimentare una nuova tecnica e a produrre una nuova serie di opere: quella dei cretti, divenuta, come i sacchi, famosissima. Si tratta di superfici rettangolari di colore bianco che presentano crepe e fenditure, dipanate in un fitto intreccio. La materia, increspata e crettata, evoca l’idea del trascorrere del tempo e si offre come una porzione di terreno argilloso, crepato dopo lunghi periodi di siccità.

Nel suo lavoro, Burri rinunciò alla tradizionale nozione di “bella pittura”, abbandonò l’antico strumento del colore ad olio, rivestì di valenze esistenziali i materiali poveri, elaborò un nuovo linguaggio espressivo per contestare la levigata perfezione dell’universo meccanico in cui viviamo.

Alberto Burri, Cretto bianco, 1974. Caolino e vinavil su tavola. Collezione privata.


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