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La scuola pittorica inglese, sviluppatasi nel Settecento a seguito della crescita industriale, economica, politica e culturale del paese, riuscì ad affrancarsi progressivamente dall’egemonia artistica degli italiani e dei fiamminghi. William Hogarth (1697-1764), pittore, incisore, nonché autore di un trattato di estetica, L’analisi della bellezza (1753), uno dei contributi teorici più significativi del Rococò, si affermò in Inghilterra per la sua vasta produzione di ritratti.
Nonostante il successo, Hogarth non amava il genere del ritratto, privilegiando la “pittura di storia morale”. Le sue serie di incisioni e dipinti, La carriera di una prostituta e La carriera di un libertino, del 1732-35, e Il matrimonio alla moda, del 1743-45, offrono una caustica rappresentazione della vita del suo tempo, indagata con pungente analisi psicologica.
Il suo ciclo più celebre, quello de Il matrimonio alla moda, fu uno strumento moralizzante per fare satira sulle classi sociali privilegiate. Composto da sei dipinti (tutti conservati alla National Gallery di Londra), realizzati tra il 1743 e il 1745, questo ciclo si ispira all’usanza di stringere alleanze matrimoniali tra le vecchie famiglie aristocratiche e i ricchi borghesi, disposti a comprare il prestigio sociale cui ambivano.
La serie dei quadri narra di due giovani, costretti a sposarsi per l’interesse e l’ambizione dei genitori, il cui matrimonio naufraga molto rapidamente e si conclude tragicamente con la morte del marito per mano dell’amante della moglie. I dipinti mettono in luce sia l’assoluta indifferenza degli sposi di fronte al loro destino sia la totale mancanza di scrupoli dei padri, che stipulano il contratto di matrimonio come in una compravendita di beni immobili.
Nella prima tela del ciclo, Il contratto di matrimonio, appunto, Hogarth sottolinea con le pose, i gesti e l’abbigliamento dei personaggi che le nozze derivate esclusivamente da motivazioni di convenienza sono destinate ad una tragica fine. I due padri sono seduti al tavolo. Il nobiluomo, ossia il fallito Conte di Squanderfield, malato di gotta, mostra con orgoglio l’albero genealogico di famiglia; l’aspirante consuocero, un ricco mercante londinese che vuole entrare nell’aristocrazia, segue con attenzione le fasi della contrattazione e ha con sé le borse che contengono il denaro della dote.
Il futuro sposo, un giovane aristocratico vanitoso, si guarda allo specchio e ignora ostentatamente la sua futura sposa, già corteggiata da un giovane avvocato che ne diventerà l’amante. I due cani incatenati fra di loro simboleggiano chiaramente il destino cui i giovani stanno andando incontro.
Nel secondo dipinto, noto con il titolo Tête à Tête o Dopo il matrimonio, il più famoso della serie, appare chiaro che questa unione è fallita ancora prima di iniziare. Nella scena sono presenti quattro personaggi. Protagonisti sono il giovane conte e la sua giovane sposa, stanchi dopo una nottata di svaghi e divertimenti che probabilmente hanno vissuto separatamente.
Il vistoso orologio accanto al camino segna le 12 e 20: di giorno o di notte? Tutto lascerebbe pensare che sia già passato mezzogiorno, difficile assai che un ricevimento che costituiva lo svago principale dei giovin signori finisse poche ore dopo cena. E, d’altro canto, così confermano le candele oramai consumate del grande lampadario da soffitto.
Il conte, stravaccato su una poltrona, spettinato e ubriaco, tiene in tasca una cuffia femminile di pizzo, la prova del suo adulterio che il cagnolino curioso sta annusando. La spada spezzata ai suoi piedi indicherebbe che è stato anche coinvolto in una rissa, quindi che ha passato la serata fuori casa, forse in un bordello. Il giovane ha una macchia nera sul collo, segno che da tempo è malato di sifilide, una conseguenza del suo stile di vita dissoluto.
La contessa, seduta sull’altra poltrona con il corpetto slacciato, si stiracchia soddisfatta, in modo sgraziato e con le gambe divaricate, e getta sul marito un’occhiata maliziosa. Ha passato la notte giocando a carte e intrattenendosi con qualcuno, che magari è andato via piuttosto di corsa, come testimonierebbe la sedia lasciata rovesciata per terra, in primo piano.
Un amministratore scandalizzato, che ha chiesto invano udienza ai due giovani, se ne esce con un libro contabile sotto il braccio e una pila di fatture non pagate in mano: una testimonianza che gli affari di famiglia sono disastrati e fuori controllo. Un servitore, sul fondo, sbadiglia stanco e pare apprestarsi a mettere un po’ in ordine.
Se curiosiamo fra gli arredi e soprattutto tra i dipinti di questa lussuosa dimora scopriamo alcuni particolari interessanti. Il quadro appeso sopra il camino, con Cupido che suona la cornamusa tra le rovine, sembra costituire la fatale premonizione di un fallimento coniugale.
Le altre tele appese nell’ambiente attiguo, oltre il grande arco, mostrano quattro compiti personaggi sacri, forse degli apostoli o gli Evangelisti: ma c’è n’è uno, sulla destra, parzialmente coperto da una tenda verde, forse acquistato dalla giovane coppia per svecchiare un po’ l’austero e vetusto arredamento del palazzo, che mostra un piede femminile nudo e lascia intendere un soggetto assai licenzioso e trasgressivo, come d’altro canto era lo stile di vita di quella famiglia.
Nel terzo dipinto della serie, intitolato La visita dal dottore ciarlatano, lo sposo si sta facendo visitare da un presunto medico, assieme a una giovane prostituta sua amante, malata come lui di sifilide (lo si capisce perché si asciuga una ferita aperta sulla bocca), e a quella che sembrerebbe essere la madre di lei.
Nel quarto dipinto, La Toilette (o Il risveglio mattutino della contessa), la donna siede di fronte a un tavolo da toelette in una stanza affollata da vacui personaggi che lei ignora, dando loro le spalle. Le siede accanto l’avvocato già presente nel primo dipinto, chiaramente diventato il suo amante.
Nel quinto dipinto, L’uccisione del conte, il marito scopre la moglie in un bagno con l’avvocato, ma viene ferito a morte da quest’ultimo, che poi scappa dalla finestra. La donna, inginocchiatasi, chiede perdono al conte sanguinante. Infine, nel sesto dipinto, Il suicidio della contessa, la donna muore a sua volta dopo essersi avvelenata, sapendo che l’amante è stato impiccato per l’omicidio del marito: il tragico epilogo di una triste storia.
La serie dei dipinti venne riproposta anche sotto forma di incisioni, con le immagini invertite in modo speculare. Tali stampe, potendosi vendere a buon mercato e diffondersi con facilità, divennero immediatamente popolari e fruttarono al lavoro di Hogarth un vasto consenso di pubblico. I sei quadri, messi in vendita nel 1751, vennero invece acquistati in blocco da un collezionista, per una cifra piuttosto bassa.
Senza dubbio, il ciclo su Il matrimonio alla moda costituisce una sorta di sceneggiatura, o quanto meno propone il soggetto per immagini di quella che oggi sarebbe stata una fiction in costume popolare e di successo; all’epoca, d’altro canto, la serie venne percepita come tale, complice il grande talento di narratore del suo autore.
Non è certamente un caso che pittura inglese del Settecento, e in particolare quella di Hogarth, sia stata poi fonte di ispirazione per i grandi maestri del cinema novecentesco, tra cui il regista Stanley Kubrick (1928-1999), che, intrecciando uno stretto rapporto fra cinema e storia dell’arte ha offerto «una interpretazione della fine del XVII e del XVIII secolo fra le più intense e immersive mai viste al cinema, usando il linguaggio cinematografico per trasformare la vita in un grande scenario figurativo e pittorico. È infatti una ricostruzione pittorica del Settecento perfetta, quasi calligrafica, quella che Kubrick realizza nel film Barry Lyndon» del 1975 (V.Polito).
Questo film, girato in contesti e ambienti perfettamente compatibili con l’ambientazione della storia, si ispira fin nei dettagli, nella scelta degli accessori scenici e dei costumi, ai dipinti settecenteschi: sono stati identificati ben 271 dipinti nel film, citati nelle varie sequenze attraverso veri e propri tableaux vivants (quadri viventi). Tuttavia, non è la semplice citazione dei quadri il vero obiettivo di Kubrick: «egli intende ricreare la sensazione, le percezioni che derivano dall’osservazione dei dipinti settecenteschi.
Per farlo, Kubrick intraprende un fondamentale studio sulla luce: non si limita a imitare la luminosità della pittura settecentesca ma la ricrea senza artifici. Ogni scena del film è girata esclusivamente con luce naturale, anche gli interni sono rischiarati esclusivamente da corridoi di luce generati da una finestra o dal bagliore delle candele e delle lampade a olio. […] Il Settecento, in definitiva, non viene soltanto evocato, ma viene ricreato: viene raccontato attraverso i suoi stessi paesaggi, costumi, oggetti, visioni pittoriche, e viene mostrato sotto la sua stessa luce. Kubrick utilizza il linguaggio del cinema non solo per dipingere un “tempo”, ma per riportarlo in vita» (V.Polito).