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La contemplazione dell’infinito, uno dei temi più cari all’arte e alla poesia dei romantici, trova un’espressione di altissima potenza lirica in un magnifico quadro del 1808, dipinto dal pittore romantico tedesco Caspar David Friedrich (1774-1840): Monaco sulla spiaggia, noto anche come Monaco in riva al mare. L’opera fu esposta per la prima volta nel 1810 all’Accademia d’Arte di Berlino, accanto a un altro capolavoro di Friedrich, l’Abbazia nel querceto.
In quella occasione, il pubblico rimase turbato e disorientato: quella rappresentazione del paesaggio marino, così poco convenzionale e così fortemente simbolica, non da tutti fu compresa. Al contrario, il quadro piacque enormemente al filosofo tedesco Arthur Schopenhauer. Monaco sulla spiaggia e Abbazia nel querceto furono subito acquistati dal re Federico Guglielmo III di Prussia per la propria collezione privata; oggi si possono ammirare alla Alte Nationalgalerie di Berlino, dove sono esposte una accanto all’altra.
Un paesaggio marino, spoglio e angoscioso, di fronte al quale un monaco solitario resta immobile in un atteggiamento di muta contemplazione: la prima impressione che si prova di fronte a un’opera del genere è quella di una vastità infinita e di un vuoto impressionante.
La scena è infatti priva di oggetti e di qualunque episodio narrativo: c’è solo il confronto solitario tra il monaco e il mare. Il cielo è fosco e nebbioso, accessibile soltanto alla proiezione emotiva. L’uomo è solo un granello di sabbia di fronte alla totalità cosmica. Tutto, nell’opera di Friedrich, contribuisce a marcare questa sensazione. Le tre zone, di fatto tre fasce colorate, che dividono la composizione sono chiaramente distinte e il monaco risulta circondato dalla terra, dal mare e dal cielo.
La linea dell’orizzonte, continua e ipnotica, è posta poco al di sopra del personaggio, in modo da evocare l’infinità della natura stessa e rimarcare l’insignificante piccolezza dell’uomo posto di fronte ad essa. Il drastico rifiuto dei sistemi prospettici convenzionali esclude l’osservatore da quel mondo nebbioso e sconfinato, accentuando l’isolamento del frate.
Una superficie scura, formata dal mare e dalla nebbia, forma un triangolo con il vertice rivolto a sinistra. Poiché lo spettatore è abituato a leggere un dipinto da sinistra verso destra, questa pressione in direzione contraria gli impedisce di accedere con tranquillità all’opera. In tal modo, il quadro diventa l’immagine emblematica di un monologo, un simbolo tragico e possente della solitudine umana. Recenti indagini scientifiche hanno rivelato che Friedrich, una volta terminata l’opera, decise di intervenirvi, trasformando il paesaggio in un notturno e cancellando due piccole navi a vela che si trovavano all’orizzonte.
«Il vero tema del quadro è il vuoto: la figura umana è minuscola, quasi illeggibile. […] L’assenza di oggetti che catturino l’attenzione e rendano graduale il passaggio dal primo piano verso lo sfondo fa sì che lo spettatore si senta vertiginosamente attratto in uno spazio privo di appigli e di punti fermi, uno spazio in cui perdersi senza via d’uscita, una sorta di labirinto liscio e piatto come uno specchio» (S. Pegoraro). Nel capolavoro di Friedrich, il compito del monaco è quello di rammentarci che l’umanità vive nel cuore della natura e percepisce con la sua anima i fremiti dell’universo; allo stesso tempo, però, la sua presenza nel mondo è quasi irrilevante. Friedrich, insomma, ha trasformato la natura, percepita visivamente, in un paesaggio simbolico della propria interiorità.
A questo proposito, le parole di un suo famoso allievo, Carl Gustav Carus (1789-1869), si rivelano chiarificatrici: «Chi contempla la meravigliosa armonia di un paesaggio reale diviene consapevole della propria piccolezza e sente che ogni cosa è partecipe del Divino: si perde allora in quell’infinito, rinunciando in un certo senso alla propria esistenza individuale. Annullarsi in tal modo non è distruggersi: è potenziarsi. Quanto normalmente è possibile concepire soltanto attraverso lo spirito, si rivela allora quasi naturalmente all’occhio fisico, il quale coglie appieno l’unità dell’universo infinito». I paesaggi di Friedrich sono dunque contemplazioni della vita interiore e hanno la straordinaria capacità di risvegliare nell’animo occulti desideri di trascendenza.
Secondo alcune fonti, invece, l’identità del monaco è quella di un amico defunto del pittore. In effetti, Friedrich era come ossessionato dal tema della morte, forse a causa delle sue vicende familiari (rimase presto orfano di madre e perse in pochi anni due sorelle e un fratello, quest’ultimo sacrificatosi per salvarlo da un annegamento). Non si può quindi escludere che anche in questo caso, come nel Viandante sul mare di nebbia, l’opera possa arricchirsi di profondi significati religiosi e che la sconfinata vastità del cielo e del mare (i quali occupano, nel dipinto, più dei tre quarti della tela) rimandi direttamente a Dio e a quanto ci attende dopo la vita terrena.
Molto interessante , profondo e chiaro da comprendere. Nessun vaniloquio, grazie.
davvero fatta bene questa descrizione, breve, incisa e le foto aiutano molto