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Con la fondazione della Repubblica francese, nel 1792, Jacques-Louis David (1748-1825), pittore neoclassico che aveva già conquistato fama e onori durante il regno di Luigi XVI, assunse un ruolo politico e artistico di primo piano. Fu membro della Convenzione, l’assemblea costituente e legislativa insediatasi a Parigi dopo lo scoppio della Rivoluzione, e già come tale esercitò un certo influsso; fu, inoltre, l’uomo di fiducia e il portavoce del governo rivoluzionario in tutte le questioni relative all’arte. La morte di Marat di Jacques-Louis David.
In Francia, dopo Le Brun (direttore dell’Accademia sotto Luigi XIV), nessun artista era stato così potente. Da lui dipesero la propaganda artistica, l’organizzazione degli eventi solenni e delle grandi feste, l’Accademia con tutte le sue funzioni, l’intero complesso dei musei, l’organizzazione di tutte le mostre d’arte. Le sue opere di questi anni, tra cui Il giuramento della Pallacorda (1791) e La morte di Marat (1793), regolarmente esposte al pubblico, divennero autentiche icone rivoluzionarie.
Nel 1793, David fu incaricato di dipingere un’opera che celebrasse la memoria di Jean-Paul Marat, uno dei più grandi eroi della Rivoluzione francese. Medico, erudito illuminista, editore di un giornale, L’Ami du peuple (L’Amico del popolo), uomo tra i più fervidi promotori della Rivoluzione Francese, divenuto una voce fermissima nel propugnare i princìpi di democrazia sociale, Marat era il presidente del Club dei Giacobini, ossia della fazione repubblicana più estremista ed intransigente che, subito dopo la sua morte, avrebbe inaugurato il cosiddetto Regime del Terrore.
La giovane girondina Marie-Anne Charlotte de Corday d’Armont, appena venticinquenne, convinta che Marat stesse tradendo gli ideali della rivoluzione, decise di assassinarlo. Marat era da tempo affetto da una seria malattia della pelle, che lo costringeva a rimanere a casa, immerso in acqua medicamentosa per alleviare prurito e dolore. Molto difficilmente accettava visite. Charlotte allora gli scrisse, fingendo di volergli rivelare i dettagli di un complotto ordito contro di lui. Marat decise di riceverla.
Charlotte, che nascondeva un coltello, venne introdotta in una stanza dove trovò Marat immerso in una vasca da bagno, coperta da una tavola appoggiata sui bordi per fare da scrittoio. Approfittando della vulnerabilità dell’uomo, Charlotte lo pugnalò al petto, recidendogli la carotide e uccidendolo quasi all’istante. Compiuto l’omicidio, non tentò nemmeno di fuggire; quando accorsero i collaboratori di Marat, richiamati dalle urla della sorella, che scoprì subito quanto era accaduto, la fermarono senza che lei opponesse resistenza. Pagò l’attentato con la decapitazione immediata, seguita a un rapido processo, dove peraltro rilasciò una piena confessione.
David fu molto colpito dalla morte di Marat, di cui era amico. Per rendergli omaggio, scelse di rappresentarlo non mostrando il momento più cruento dell’episodio, ossia la scena dell’omicidio, ma presentando semplicemente il suo cadavere. Tale scelta, peraltro, era perfettamente coerente con i princìpi della tragedia classica, che David tanto amava, secondo la quale non si doveva rappresentare l’evento tragico ma solo evocarlo. L’artista impiegò pochissimo tempo a completare l’opera, che non fece precedere da lunghi studi preparatori ma solo da un ritratto postumo di Marat ricavato dalla sua maschera funeraria in gesso, ottenuta dal cadavere.
Nella grande tela di David, che sviluppa la scena in verticale, Marat è ancora immerso nell’acqua calda della vasca, coperta da un grande lenzuolo bianco rattoppato (all’epoca non si usava il contatto diretto con il marmo o il bronzo delle vasche da bagno). Sotto la sua clavicola destra, si apre la netta ferita della pugnalata, il cui sangue ha tinto l’acqua di rosso.
Nella mano sinistra, Marat tiene ancora la lettera dell’assassina, atto di accusa della sua infamia; vi si legge, in francese: «13 luglio 1793. Marie Anne Charlotte Corday al cittadino Marat. Basta che io sia tanto infelice per aver diritto alla vostra benevolenza».
La mano destra di Marat, abbandonata verso il pavimento, regge debolmente la penna con cui l’uomo stava scrivendo. Il suo volto, appoggiato sul bordo della vasca, incorniciato da un asciugamano avvolto come un turbante, è sereno e disteso, come di chi è morto nel consapevole svolgimento del proprio dovere.
A terra, si scorge, abbandonata, anche l’arma del delitto, insanguinata. Ecco, quindi, il confronto diretto fra le due armi: quella nobilissima del politico, un letterato che faceva uso della parola, e quella infame dell’assassina, la cui pochezza la spinge a fare uso della violenza.
In primo piano, si trova una semplice cassetta d’imballaggio di legno grezzo, usata come piano di appoggio, giacché Marat, un “puro”, un “giusto”, aveva scelto di vivere in povertà. Su questa cassetta, il pittore incise, idealmente, a stampatello la sua dedica: «À MARAT, DAVID. L’AN DEUX» (“A Marat, David. L’anno secondo”). L’effetto ottenuto è insieme intimo e monumentale.
Mancano tuttavia gli altri elementi di arredo: lo sfondo, verdastro e monocromo, mosso appena da una leggera vibrazione luminosa, è privato della carta da parati, dei quadri e delle librerie, per eliminare ogni possibile elemento di distrazione e per proiettare la figura di Marat in un contesto molto più generico, quasi atemporale, ed eternarne la memoria, elevando il suo omicidio dal semplice fatto di cronaca alla pagina della grande Storia.
La composizione è rigorosissima: prevale l’asse visivo orizzontale della vasca, che taglia la scena in due, equilibrato dagli assi visivi verticali suggeriti dalle pieghe del lenzuolo e dalla cassetta in primo piano. Solo il corpo di Marat è posto lungo una direttrice obliqua, per conferire un minimo di dinamismo e di naturalezza all’immagine.
In questo capolavoro neoclassico, un eroe moderno ha preso il posto degli eroi greci e romani. Lo stesso David, d’altro canto, parlando alla Convenzione, paragonò l’esemplare nobiltà della vita di Marat a quella dei grandi filosofi antichi: «Platone, Aristotele, Socrate, non ho mai vissuto con voi, ma ho conosciuto Marat e l’ho ammirato come ho ammirato voi». Tuttavia, è palese la citazione di opere con soggetti legati all’iconografia sacra.
La posizione di Marat, il punto di vista da cui viene mostrato, il braccio destro abbandonato ripropongono lo schema iconografico della Pietà Vaticana di Michelangelo, già ripresa prima da Raffaello nella sua Deposizione Borghese e poi da Caravaggio nella sua Deposizione.
Ma fu soprattutto la versione di Caravaggio ad essere elevata a modello privilegiato di questo dipinto, soprattutto per il ruolo drammatizzante che venne riservato alla luce.
La scena è infatti illuminata dall’alto, attraverso una fonte di luce che si trova, non vista, a sinistra e che proietta un fascio luminoso diretto verso il centro. La figura di Marat, solo parzialmente illuminata e intensamente chiaroscurata, viene esaltata per contrasto contro il fondo scuro. Anche la scelta di lasciare indefinita tutta la parte alta del dipinto, e quasi metà della tela, è mutuata dall’ultimo Caravaggio.
Che David, esponente più autorevole del Neoclassicismo pittorico, abbia scelto di emulare Caravaggio, criticatissimo da ogni classicista per via della sua mancanza di idealizzazione e del suo presunto realismo, può apparire a dir poco singolare. Certamente David, in questo caso, ritenne il linguaggio di Caravaggio, adeguatamente epurato dalle inclinazioni più naturalistiche, adattissimo a comunicare quel senso di incombente tragedia che il soggetto richiedeva.
A tacere del fatto che, probabilmente, David aveva riconosciuto nella pittura di Caravaggio (e l’omaggio di questi a Michelangelo lo confermava) un’attenzione all’arte immortale del Rinascimento che lo rendeva degno di ogni attenzione.
La morte di Marat non è un dipinto sacro e non è un dipinto religioso. David, ovviamente, in qualità di rivoluzionario aveva rigettato il Cristianesimo ma è davvero difficile, guardando il corpo di questo martire rivoluzionario, morto per la propria fede politica, non pensare a una vera e propria Pietà laica. Gli oggetti (il coltello, strumento del martirio, la penna e il calamaio, emblemi della sua vocazione) assomigliano quasi a sante reliquie, il lenzuolo macchiato di sangue sembra un sacro sudario.
La luce caravaggesca crea un’aura quasi sovrannaturale. Eppure, la rigida orizzontalità della composizione non suggerisce, in questo quadro-monumento, alcun riscatto nei cieli. Marat era morto: poteva solo sopravvivere nel ricordo dei posteri, secondo la concezione illuministica (e soprattutto classica) dell’immortalità, riservata a chi ha compiuto grandi imprese in vita ed è morto da eroe. Anche se venisse meno ogni memoria degli eventi che hanno segnato la Rivoluzione francese, quest’opera non perderebbe di significato.
La morte di Marat ebbe uno straordinario successo e fu accolta da una grande popolarità, diventando una vera e propria icona, tanto che, su incarico della Convenzione Nazionale, David ne realizzò altre quattro versioni, affidandone l’esecuzione ai suoi collaboratori, oggi a Reims, a Parigi, a Digione e a Versailles.
Le due riproduzioni più famose sono quelle del Louvre parigino e di Reims: sono quasi identiche alla prima versione di Bruxelles, l’unica vera differenza si riscontra nell’iscrizione sulla cassetta: una frase ispirata a Tacito, che recita, in francese: «Non potevano corrompermi, mi hanno assassinato».
Quella di realizzare copie e versioni di atelier dei quadri meglio riusciti e più celebrati era una pratica diffusa e peraltro assai frequente sin dal Cinquecento. D’altro canto, David, così come Canova, riconosceva all’esecuzione materiale dell’opera un valore secondario rispetto alla sua ideazione. Non a caso, avrebbe prodotto delle varianti anche del suo, successivo, Napoleone che valica le Alpi al Gran San Bernardo.
Il capolavoro di David ha ispirato, nel tempo, molti artisti, tra cui Munch e Picasso, che hanno proposto personali variazioni di questo soggetto; ma l’immagine iconica di quel corpo immerso nella vasca, con il braccio abbandonato all’esterno, è stata oggetto di vere e proprie citazioni e di espliciti omaggi da parte di artisti contemporanei, registi e fotografi, che hanno voluto riproporne l’armonia estetica e formale.
Così è per una video-installazione di Bob Wilson al Louvre, che vede protagonista una Lady Gaga nel ruolo del Marat di David. L’artista brasiliano Vik Muniz, uno dei più grandi promotori del riutilizzo di rifiuti nell’arte contemporanea, ha reso popolare questa sua forma di trash art nel 2010, quando ha realizzato di un cortometraggio intitolato Waste Land diretto dalla regista inglese Lucy Walker. Il film racconta di come la potente bellezza dell’arte possa perfino nobilitare i rifiuti.
Sullo sfondo di cumuli di immondizia, a Jardim Gramacho, l’immensa discarica di Rio dove vivono migliaia di persone, vengono proposti veri e propri tableau vivant, ossia quadri viventi, dalla Morte di Marat, appunto, alla Stiratrice di Picasso, dal Seminatore di Jean-François Millet ad una Vergine con Gesù Bambino e San Giovannino d’impostazione raffaellesca. Il film ha vinto il Sundance Film Festival nel 2010 ed è stato candidato agli Oscar 2011 come Miglior Documentario.
È dedicato al capolavoro di David anche un romanzo di Daniele Del Giudice (1949), uno scrittore e giornalista italiano, premiato con numerosi riconoscimenti. Nel museo di Reims, del 1988, narra la storia di Barnaba, un ragazzo semicieco intenzionato a fissare nella propria memoria immagini di capolavori pittorici, prima di perdere la vista del tutto. In questo ideale viaggio nel mondo della bellezza, egli è accompagnato da una ragazza, Anne, che gli descrive i quadri e intreccia con lui un serrato dialogo sull’arte, fatto di ricordi, emozioni, riflessioni. Barnaba e Anne discorrono di fronte alla versione del Marat di David conservata al Museo reale delle Belle Arti di Reims.
«[Barnaba] arrivò al Marat assassinato. Gli apparve più grande. Più alto, più verticale di come se l’aspettava. Più ampio. C’era sempre un primo momento, quando arrivava davanti al quadro per il quale era partito, in cui si stupiva delle differenze, e la prima emozione se ne andava in questo. Ebbe poi un senso complessivo di quiete e di tenerezza, difficile dire da quale punto del quadro gli venisse, forse dal viso riverso di Marat, che era quasi all’altezza del suo e perciò lo distingueva meglio, forse dal braccio abbandonato a terra, forse da quel tronco pallido che usciva dall’acqua della vasca da bagno. Sapeva che la fronte era fasciata con una compressa d’acqua e aceto, ma non la vedeva bene, nella sua percezione era tutt’uno col lino del lenzuolo su cui poggiava, immerso nell’acqua della vasca.
Da qualche parte poi gli arrivava una specie di sorriso e un’idea di giovinezza e un’idea di meridione, come se davanti a lui ci fosse un qualunque ragazzo di un qualunque Sud del mondo, e ricordò che David aveva dipinto Marat assai più giovane di quanto fosse. […] Anne era già lì da qualche istante e lo guardava senza far rumore; solo quando Barnaba ha cercato di voltarsi ha detto piano: «La ferita è sotto la clavicola, verso l’ascella. Profonda ma già prosciugata del sangue, con le labbra nette, una ferita da lama tra la prima e la seconda costola, un po’ obliqua, un colpo di quelli che passano il polmone, tagliano l’aorta e aprono il cuore con la punta».
Barnaba non ascoltò nemmeno una di queste parole, era così emozionato, riuscì soltanto a dire: «Non pensavo che sarebbe tornata qui», e Anne disse: «Perché?», poi sorrise e aggiunse: «Vuole che vada avanti?» e lui fece cenno di sì. «Non potremmo sederci sulla panchetta qui di fronte?» disse Anne per sottrarlo a quell’inutile tortura dello stare così attaccato al quadro […]. «Il viso è ripiegato, un po’ all’indietro un po’ verso di noi, con gli occhi chiusi e una ciocca di capelli che spunta dalla fasciatura a turbante sulle tempie». «Sì, che faccia è?» ha insistito Barnaba. «Una faccia asimmetrica, il sotto diverso dal sopra, il sotto un po’ da pesce, il sopra con una sua armonia. C’è un sorriso accennato sulle labbra. È la faccia di uno svuotato di sé, liberato.
Liberato dalla malattia per cui viveva nell’acqua. Liberato dalle cose che ha fatto. Liberato soprattutto da se stesso». «E le mani? Come sono le mani?» ha chiesto ancora Barnaba. «Gliel’ho detto» ha risposto Anne, un po’ sorpresa. «Il braccio sinistro è disteso sulla tavola, nella mano c’è la supplica di Charlotte Corday. L’altro braccio è abbandonato a terra, e le dita serrano ancora una penna. Direi che sono dita un po’ grosse, un po’ corte, proporzionate a come doveva essere fatto lui».
C’era una strana diversità tra le domande di Barnaba e le risposte di Anne, tra come lui chiedeva particolari vivi e come lei gli rispondeva trattando il quadro semplicemente come un quadro, e in questo modo gli descrisse il coltello col manico d’avorio, e dov’era, a terra accanto alla mano con la penna, e dov’erano l’assegnato e la lettera di accompagnamento, tutti e due pronti per essere spediti accanto al calamaio, sulla cassetta in primo piano usata come tavolino, e di ogni elemento indicò a Barnaba la posizione e il colore, il verde bruno del fondale ampio, la consistenza acquatica dei toni, il bianco marmoreo della pelle, il color legno naturale della cassetta, finché Barnaba fece un cenno con la mano, come se avesse bisogno di un attimo di tempo per vedere il tutto, per vederlo nelle parti e nell’insieme, per vederlo come vedeva lui.
Poi domandò in un tono più rassegnato: «E la luce, da dove viene?». «Non viene da nessuna parte» rispose Anne.
«C’è, è tutta sul corpo, ma come se fosse autonoma, generata dall’ombra stessa». Ci fu un silenzio conclusivo poi lei disse: «Proprio non vuole dirmi perché le interessa così tanto questo quadro? Lei è rivoluzionario?», e il tono era sottile, divertito. «No» ha risposto Barnaba sorridendo, «direi proprio di no. Sono stato un ufficiale di marina» e appoggiò i gomiti sulle ginocchia e il viso tra le mani. «Mi interessa perché mi sono sempre chiesto che cosa pensa un medico nel momento in cui muore. Marat, prima di essere Marat, era un medico, e un fisico». Anne non disse nulla, si volse solo un istante verso il quadro. «E sa che malattia curava?» riprese Barnaba scuotendo la testa. «Curava la cecità, curava i ciechi. Li curava con l’elettroterapia. Con una certa dieta, delle pomate e delle piccole scariche elettriche».»
Bellissimo articolo e interessanti gli approfondimenti legati anche al cinema e alla letteratura
Grazie mille
Complimenti all’estensore del testo per la ricchezza di spunti