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La Morte nel Medioevo 2: le Danze macabre
Pittura, letteratura, canzone d’autore.
Autore: Giuseppe Nifosì Pubblicato in L’età gotica – Data: Agosto 25, 2020 0 commenti 24 minuti
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Un’altra tipica iconografia medievale è quella del Trionfo della Morte (un soggetto affrontato nel 1343 da Buffalmacco negli affreschi del Camposanto di Pisa), che celebra il trionfo della Morte su ogni essere umano e su ogni forma di vita: la Morte trionfante, spesso raffigurata con emblemi regali, che scaglia le sue armi verso chiunque, indifferente a censo, reddito, ruolo, età, sesso, ricorda infatti agli uomini l’ineluttabilità del loro destino. La Morte nel Medioevo: le Danze macabre.

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Buffalmacco, Trionfo della Morte, 1336-40. Affresco. Pisa, Camposanto.

Talvolta cavalca un magro destriero (equus pallidus), altre volte è su un carro. I potenti della terra provano a corromperla con le proprie ricchezze ma invano: la Morte non si cura di oro e gioielli. Questo particolare soggetto costituisce una sorta di alternativa laica al Giudizio Universale, mancandovi ogni figura sacra o riferimento esplicito al cristianesimo: il Trionfo della Morte rappresenta, infatti, il compimento della vita di ogni uomo, inteso nella sua individualità: la fine di tutto e non l’inizio di una vita nuova.

Il Trionfo della Morte di Palermo

Un emblematico esempio di questa particolare iconografia è costituito dal Trionfo della morte di Palermo, un affresco, oggi staccato, risalente alla metà del XV secolo e proveniente dal cortile di Palazzo Sclafani. L’autore è sconosciuto ma potrebbe essere stato catalano o provenzale.

Maestro del Trionfo della morte, Trionfo della Morte, 1446 ca. Affresco staccato, 600 × 642 cm. Palermo, Galleria Regionale della Sicilia, Palazzo Abatellis.

In un florido e lussureggiante giardino, gremito di gente di ogni età e censo, irrompe la Morte sul suo scheletrico cavallo (dalle costole a vista e dalla testa scarnificata) e tutti travolge. Con il suo arco, lancia frecce letali e colpisce a casaccio. In basso, si ammassano i cadaveri di religiosi, papi, vescovi e re. A sinistra, alcuni popolani, tra cui suore, storpi e vecchi, supplicano la Morte di porre fine alle loro sofferenze ma vengono crudelmente ignorati. La Morte nel Medioevo: le Danze macabre.

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Un uomo con il libro in mano, quindi un dotto studioso, due musicisti, un uomo col falcone che allude ai piaceri mondani della caccia simboleggiano, come la fontana colma d’acqua, le gratificazioni di una vita amabilmente spesa, vane di fronte allo scadere del tempo terreno. Essi, accompagnati da alcune dame elegantemente vestite e da cavalieri impellicciati, sembrano ignorare il destino impietoso che li attende.

Il Trionfo della Morte di Clusone

Un altro interessantissimo Trionfo della Morte si trova dipinto all’esterno dell’Oratorio dei Disciplini a Clusone (Bergamo). Esso fa parte di un ciclo di affreschi dipinti dal pittore clusonese Giacomo Borlone de Buschis, tra il 1484 e il 1485.

Giacomo Borlone de Buschis, Trionfo e Danza della Morte, 1484-1485. Affresco. Clusone (Bergamo), Oratorio dei Disciplini.

La complessa rappresentazione si può suddividere in tre registri (l’ultimo dei quali, gravemente danneggiato). Quello superiore riporta la Morte incoronata in forma di scheletro, innalzatasi sopra un sepolcro scoperchiato, in cui giacciono un papa e un imperatore, circondati da serpenti, rospi e scorpioni. La Morte nel Medioevo: le Danze macabre.

I cartigli della parte più alta riportano le sue terribili parole: «Gionto [sono] per nome chiamata Morte / ferisco a chi tocherà la sorte; / no è homo chosì forte / che da mi no po’ a schanmoare [scappare]».

«Gionto [sono] la Morte piena de equaleza / sole voi ve volio e non vostra richeza / e digna sonto da portar corona / perché signorezi ognia persona». Al suo fianco, altri due scheletri colpiscono, con un arco e un archibugio, ecclesiastici, nobili, ricchi e potenti, tutti in atto di offrire doni (corone, monete, anelli) e implorare pietà, tra i corpi accasciati dei defunti. Ma la Morte Sovrana non si lascia tentare dalle ricchezze terrene e non accetta le offerte dei ricchi. Lo dice, la Morte: «sole voi ve volio e non vostra richeza».

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D’altro canto, chi è timorato di Dio e vive in modo virtuoso, non dovrebbe avere paura di lei: «Ognia omo more e questo mondo lassa / chi ofende a Dio amaramente pasa». «Chi è fundato in la iustitia e (bene) / e lo alto Dio non discha(ro tiene) / la Morte a lui non ne vi(en con dolore) / poy che in vita (lo mena assai meliore)». La Morte nel Medioevo: le Danze macabre.

Fig. Giacomo Borlone de Buschis, Trionfo e Danza della Morte, 1484-1485. Particolare con il Trionfo della Morte.

La Danza Macabra

La Danza Macabra è un altro tema iconografico tardomedievale legato a quello della Morte. Essa rappresentata una danza fra uomini e scheletri, personificazione della Morte stessa. I personaggi vivi, trascinati inconsapevolmente verso il loro ineluttabile destino, variamente abbigliati secondo la propria appartenenza alle diverse classi sociali (da quelle più umili a quelle più elevate, dai contadini e gli artigiani ai principi e ai prelati, fino all’imperatore e al papa) rappresentano l’umanità intera.

Questa inquietante e grottesca allegoria ha l’esplicita funzione di memento mori (“ricordati che devi morire”) ed è spesso accompagnata da scritte esplicative. Uomini e donne, vanamente ancora legati a quei valori ricercati in vita (bellezza, ricchezza, potere), danzano, nella sostanza, con il proprio scheletro, che funge loro da specchio, mostrando ciò che diventeranno. «Questo tema – scrive lo storico Alberto Tenenti – non è un semplice incontro, suggerito o spontaneo, con la putrefazione: i cadaveri che se la prendono con i viventi affermano su di essi un potere ineluttabile, e significano la loro condanna a morte. La Morte nel Medioevo: le Danze macabre.

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La danza è un movimento in cui i morti trascinano i loro compagni renitenti, resi ridicoli da questa necessità. Essi non si presentano armati ai vivi: li portano via ma non li attaccano; li colgono di sorpresa con un gesto familiare, da amici; non li dominano dall’alto, e non sorgono dalla terra: sono al loro stesso livello». Purtroppo, benché la diffusione di questo tema in Europa sia stata straordinaria, sono oggi molto rare le Danze macabre conservatesi. Se ne trovavano il Italia, in Croazia, in Francia, in Germania, in Polonia, in Svizzera, in Estonia, in Slovenia.

La Danza Macabra di Clusone

A Clusone, sotto il Trionfo della Morte già analizzato, si trova una Danza Macabra, anticipata dall’iscrizione: «O ti che serve a Dio del bon core / non havire pagura a questo ballo venire / Ma alegramente vene e non temire / poi chi nase elli convene morire» (“Tu che sei timorato di Dio/non avere paura di partecipare a questo ballo/vieni allegramente e non temere/poiché è destino di chi nasce morire”).

Si susseguono, da sinistra a destra, una dama che tiene uno specchio in mano (scioccamente ignara della fine che l’attende), un disciplino (tiene il flagello con il quale si frusta la spalla destra), un contadino con bastone e bisaccia, un oste (riconoscibile dal tipico recipiente che tiene in mano), un funzionario di giustizia, un mercante con la borsa dei denari legata alla vita, uno studente o un giovane letterato con una pergamena e infine un personaggio di non facile identificazione. La Morte nel Medioevo: le Danze macabre.

Fig. Giacomo Borlone de Buschis, Trionfo e Danza della Morte, 1484-1485. Affresco. Clusone (Bergamo), Oratorio dei Disciplini. Particolare con la Danza macabra.

La Danza Macabra di Pinzolo

Un’altra interessantissima Danza Macabra si trova, sempre in Italia, a Pinzolo, in Trentino, nella Chiesa cimiteriale di San Vigilio, affrescata all’esterno, lungo la cima del prospetto laterale sud, perché tutti i fedeli potessero vederla. L’autore fu Simone Baschenis de Averara, nel 1539. La Morte nel Medioevo: le Danze macabre.

Baschenis de Averara, Danza Macabra, 1539. Affresco. Pinzolo, Chiesa cimiteriale di San Vigilio.

Il corteo macabro inizia a sinistra con un gruppo di tre scheletri musicanti, il primo dei quali è seduto su un trono rudimentale e porta in testa la corona: esso è la Morte sovrana, cui, prima di vincerla con la Resurrezione, dovette sottostare anche il Cristo crocifisso, come attestano le sue parole: «O peccator pensa de costei/ la me a morto me che son signor de lei!». La Morte nel Medioevo: le Danze macabre.

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Segue una sfilata di diciotto coppie, formate da uno scheletro ghignante che trascina al ballo un personaggio vivo: il papa, un cardinale, un vescovo, un sacerdote, un monaco e a seguire, i laici, ossia l’imperatore, il re, la regina, il duca, personaggi del mondo borghese, come il medico e il ricco mercante, fino agli individui che simboleggiano le diverse età della vita umana, ossia giovani, vecchi e un bambino. I vivi, tutti socialmente caratterizzati e gerarchizzati, sembrano assecondare le richieste dei morti con dolente rassegnazione. Chiude la triste sfilata l’immagine della Morte a cavallo, armata di arco e frecce.

Baschenis de Averara, Danza Macabra, 1539. Particolare.

Accompagna questo celebre affresco il crudo Poema della Morte:

«Io sont la morte che porto corona
Sonte signora de ognia persona
Et cossi son fiera forte et dura
Che trapaso le porte et ultra le mura
Et son quela che fa tremare el mondo
Revolgendo mia falze atondo atondo
O vero l’archo col mio strale
Sapienza beleza forteza niente vale
Non e Signor madona ne vassallo
Bisogna che lor entri in questo ballo
Mia figura o peccator contemplerai
Simile a mi tu vegnirai
No offendere a Dio per tal sorte
Che al transire no temi la morte
Che più oltre no me impazo in be ne male
Che l’anima lasso al judicio eternale
E come tu averai lavorato
Cossi bene sarai pagato».

La peste bubbonica

In Europa, su una popolazione già spossata da tre decenni di crisi e carestie, nel 1347 si abbatté una spaventosa malattia epidemica, di una virulenza mai prima conosciuta: la peste bubbonica, detta Morte Nera. Il vettore di trasmissione del bacillo della peste furono le pulci dei ratti che, passando dai topi agli umani, infettavano questi ultimi con le loro punture.

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La peste si manifestava con attacchi di febbre, conati di vomito, sete, diarrea, macchie sulla pelle e, soprattutto, con ingrossamenti delle ghiandole linfatiche dell’inguine e delle ascelle, i cosiddetti “bubboni” da cui la malattia prese il nome. Il focolaio dell’infezione si manifestò in Cina: topi e pulci si spostarono verso ovest seguendo le carovane dei mercanti. Furono probabilmente alcuni mercanti genovesi, insediati a Caffa, in Crimea, a contagiarsi e a portare la peste in Europa, diffondendola nei porti mediterranei nei quali sbarcarono.

Nel 1347, la peste iniziò a diffondersi in Sicilia, in Sardegna, in Corsica e a Marsiglia, poi, sei mesi più tardi, in Aragona, in Italia, nei Balcani e in Francia, proseguendo in Germania, in Inghilterra, in Scandinavia fino alla Russia, nel 1350. Tutti furono colpiti, i poveri come i ricchi, incapaci di curarsi e di attuare misure di prevenzione, non avendo capito che i veicoli del contagio erano le pulci. Nessuna delle misure empiriche adottate, comunque priva di valenza scientifica (mangiare poco, sottoporsi a salassi, aspirare il profumo di erbe odorose) ebbe la minima efficacia. La Morte nel Medioevo: le Danze macabre.

Spaventosi i numeri dei morti: Firenze perse quasi due terzi dei suoi abitanti (30.000 persone circa), le altre città europee almeno la metà della loro popolazione. In tutta Europa la popolazione scese dai circa 90 milioni di abitanti del 1300 a 65 milioni circa nel 1400: 25 milioni di morti!

Giovanni di Paolo, Allegoria della peste, 1437 ca. Tempera su tavola. Berlino, Kunstgewerbemuseum, Staatliche Museen.

La peste nel racconto di Boccaccio

Giovanni Boccaccio (1313-1375) è l’autore di una delle opere fondamentali della letteratura italiana: il Decameron (1349-53), in cui si narra come sette donne e tre uomini si rifugiarono in una villa nel contado di Firenze per sfuggire alla peste. In quel luogo ameno, per far trascorrere il tempo in modo dilettevole, per dieci giorni ciascuno raccontò una novella al giorno. Nell’Introduzione alla prima giornata, Boccaccio descrive il diffondersi del contagio a Firenze, soffermandosi sugli effetti che l’epidemia produsse sui legami sociali e familiari.

Edizione illustrata del Decamerone di Boccaccio. Venezia, 1492.

«Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nell’egregia città di Firenze, oltre ad ogni altra italica nobilissima, pervenne la mortifera pestilenza, la quale o per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’innumerabile quantità di viventi avendo private, senza ristare d’un luogo in uno altro continuandosi1, inverso l’occidente miserabilmente s’era ampliata.

[…] nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi ed alle femmine parimente o nell’anguinaia o sotto le ditella certe enfiature2, delle quali alcune crescevano come una comunal mela3 ed altre come uno uovo, ed alcuna più ed alcuna meno, le quali li volgari nominavan «gavoccioli»4. E dalle due parti predette del corpo infra brieve spazio di tempo cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere ed a venir; ed appresso a questo, si cominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce ed in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade ed a cui minute e spesse.

E come il gavocciolo primieramente era stato ed ancora era certissimo indizio di futura morte, e così erano queste a ciascuno a cui venivano. A cura delle quali infermità né consiglio di medico né vertù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto; anzi, o che la natura del malore nol patisse o che l’ignoranza de’ medicanti5 […] non conoscesse da che si movesse e per conseguente debito argomento non vi prendesse6, non solamente pochi ne guerivano, anzi quasi tutti infra il terzo giorno dall’apparizione de’ sopradetti segni, chi più tosto e chi meno, ed i più senza alcuna febbre o altro accidente, morivano. E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagl’infermi di quella per lo comunicare insieme7 s’avventava a’ sani, non altrimenti il faccia il fuoco alle cose secche o unte quando molto vi sono avvicinate. La Morte nel Medioevo: le Danze macabre.

E più avanti ancora ebbe di male: ché non solamente il parlare e l’usare8 con gl’infermi dava a’ sani infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni e qualunque altra cosa da quegli infermi stata tócca9 o adoperata pareva seco quella cotale infermità nel toccator trasportare. […] E lasciamo stare che l’un cittadino l’altro schifasse e quasi niun vicino avesse dell’altro cura ed i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano, era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata né petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava ed il zio il nepote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito, e che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano» (Decameron, Giornata I, Introduzione).

1 senza… continuandosi: senza fermarsi, trasmettendosi da un luogo all’altro.
2 nell’anguinaia… enfiature: nell’inguine o sotto le ascelle certi gonfiori.
3 comunal mela: normale mela.
4 «gavoccioli»: bubboni.
5 medicanti: medici.
6 e per… prendesse: e di conseguenza non prescrivesse il rimedio appropriato.
7 per lo… insieme: per contatto.
8 l’usare: il frequentare.
9 tócca: toccata.

Il Trionfo della morte di Petrarca

Non si può parlare di Trionfo della Morte senza accennare almeno all’omonimo componimento di Francesco Petrarca (1304-1374), scrittore, poeta, filosofo e filologo tra i più importanti della letteratura italiana. Petrarca compose i Trionfi tra il 1351 e il 1374. Si tratta di un poema allegorico, che analizza il percorso ideale dell’uomo dal peccato alla redenzione (così come la Divina Commedia di Dante), scritto in volgare e articolato in terzine, suddiviso in dodici capitoli raggruppati in sei Triumphi: Amore, Pudicizia, Morte, Fama, Tempo ed Eternità. La Morte nel Medioevo: le Danze macabre.

Nel Trionfo dell’Amore il poeta sogna la personificazione dell’Amore su un carro trionfale, seguito dai suoi seguaci, i vinti dall’amore, tra cui poeti antichi e medievali nonché illustri personaggi storici, letterari, mitologici. Il corteo approda a Cipro, isola sacra a Venere. Nel Trionfo della Pudicizia, protagonista è Laura, che sottrae al carro di Amore donne illustri, antiche e medievali. Nel Trionfo della Morte, Petrarca rievoca eroi e popoli scomparsi e canta la morte idealizzata di Laura, causata dall’epidemia di peste del 1348. Nel Trionfo della Fama si tratta della gloria di cui gli uomini illustri godono dopo la morte; infine, nel Trionfo dell’Eternità, Dio annienta il Tempo e la Morte, Laura è in Paradiso e Petrarca esprime la speranza di raggiungerla. La Morte nel Medioevo: le Danze macabre.

Francesco Petrarca, I Trionfi, ms. Strozzi 174. Biblioteca Laurenziana di Firenze.

Nel suo Trionfo della Morte, composto negli anni immediatamente successivi alla Grande Peste del 1348, Petrarca non presenta la Morte come qualcosa di apocalittico o inquietante, ma riflette su di essa con toni lirici e malinconici. Quando Laura incontra la Nera Signora, che le preannuncia l’imminente fine, ella si dice pronta a sottomettersi alla volontà divina. Così, la Morte le strappa dalla testa un capello biondo e Laura spira (Triumphus mortis, I, 72-138). Il brano si configura come una sconsolata riflessione sulla caducità della vita umana e sulla vanità dei beni terreni.

«Così rispose: ed ecco da traverso
piena di morti tutta la campagna,
che comprender nol pò prosa né verso;
da India, dal Cataio, Marrocco e Spagna
el mezzo avea già pieno e le pendici
per molti tempi quella turba magna.
Ivi eran quei che fur detti felici,
pontefici, regnanti, imperadori;
or sono ignudi, miseri e mendici.
U’ sono or le ricchezze? u’ son gli onori
e le gemme e gli scettri e le corone
e le mitre e i purpurei colori?»

Così Laura rispose [alla Morte]: la campagna è piena di morti, tanto che non si può descriverlo, né in prosa né in poesia; una folla enorme proveniente dall’India, dal Catai, dal Marocco, dalla Spagna che aveva già riempito da tempo la pianura e le pendici dei monti. Chi fu papa, re o imperatore e fu detto felice ora è nudo, misero e povero. Dove sono ora le loro ricchezze? Dove gli onori, le gemme, gli scettri e le corone, le mitre e i mantelli rosso porpora?

«Miser chi speme in cosa mortal pone
(ma chi non ve la pone?), e se si trova
a la fine ingannato è ben ragione.
O ciechi, el tanto affaticar che giova?
Tutti tornate a la gran madre antica,
e ’l vostro nome a pena si ritrova.
Pur de le mill’ è un’utile fatica,
che non sian tutte vanità palesi?
Chi intende a’ vostri studii sì mel dica»

È misero chi ripone speranza nelle cose mortali (ma, d’altro canto, chi non lo fa?) e se alla fine scopre di essere stato ingannato, ciò avviene giustamente. O uomini ciechi, a che vi serve affaticarvi tanto? Questo si chiede il poeta. Tutti siete destinati a tornare alla terra, vostra antica madre, e il vostro nome si ricorderà a stento.

Delle mille fatiche degli uomini, una almeno sarà tornata utile, perché tali fatiche non appaiano tutte palesi vanità? Chi si dedica alle vostre occupazioni me lo dica.

«Che vale a soggiogar gli altrui paesi
e tributarie far le genti strane
cogli animi al suo danno sempre accesi?
Dopo l’imprese perigliose e vane,
e col sangue acquistar terre e tesoro,
vie più dolce si trova l’acqua e ’l pane,
e ’l legno e ’l vetro che le gemme e l’oro»

A che serve sottomettere altri paesi e rendere tributari i popoli stranieri, avendo l’animo sempre rivolto al proprio danno? Dopo le imprese vane e pericolose, e dopo aver acquistato a prezzo di sangue terre e ricchezze, ci sembrano più dolci l’acqua e il pane, e il legno e il vetro, piuttosto che le gemme e l’oro.

Dal Medioevo ad oggi: la morte nella canzone d’autore

Il Medioevo, con le sue vicende storiche e con la sua cultura così diversa dalla nostra, potrebbe apparire ai più come un’epoca lontana. In realtà, esso continua ad esercitare su noi moderni un fascino irresistibile, come testimonia il fiorire di sagre letterarie, cinematografiche e televisive legate, per ambientazione o ispirazione, a quell’età. Ciò vale anche per la canzone d’autore, ossia la musica popolare culturalmente più connotata. Il cantautore lombardo Angelo Branduardi (1950), per esempio, ha spesso fatto riferimento al Medioevo nelle sue canzoni, recuperando e rielaborando testi e musiche antiche. Ad esempio, la canzone Ballo in Fa diesis minore¸ inserita nell’album La pulce d’acqua del 1977, affronta proprio il tema della Danza Macabra. Se la musica del brano si ispira alla Schiarazula marazula, un antico motivo friulano di origini medievali, il testo rielabora quello redatto sulla facciata della chiesa di Pinzolo. La Morte nel Medioevo: le Danze macabre.

Angelo Branduardi, Ballo in Fa diesis minore, 1977.

«Sono io la morte e porto corona
Io son di tutti voi signora e padrona
E così sono crudele, così forte sono e dura
Che non mi fermeranno le tue mura

Sono io la morte e porto corona
Io son di tutti voi signora e padrona
E davanti alla mia falce il capo tu dovrai chinare
E dell’oscura morte al passo andare

Sei l’ospite d’onore del ballo che per te suoniamo
Posa la falce e danza tondo a tondo
Il giro di una danza e poi un altro ancora
E tu del tempo non sei più signora»

La prima parte del testo ricalca quasi testualmente quello di Baschenis, autore dell’affresco, e condivide con esso il significato di memento mori; sul finale, tuttavia, Branduardi ne capovolge inaspettatamente il senso: la Morte, a sua volta trascinata nella danza, dimentica i propri propositi distruttivi e viene, conseguentemente, sconfitta. Branduardi medesimo ha dichiarato che questa canzone vuole essere «un esorcismo della morte attraverso la musica e la danza», perché la musica ha «un potere talmente alto da far dimenticare alla morte di essere venuta per portarci via».

Anche il cantautore genovese Fabrizio De Andrè (1940-1999) è sempre stato attratto dal Medioevo, come dichiarò in numerose interviste. Le sue prime
ballate, a partire dagli anni Sessanta, sono ricche di riferimenti testuali a quell’epoca (Carlo Martello), oppure evocano atmosfere che a quella stagione della storia fanno riferimento (La canzone di Marinella, La morte). Talvolta, De André ha voluto riproporre brani antichi (Il re fa rullare i tamburi, Geordie) o presentati come tali (Fila la lana) ed è arrivato a musicare il sonetto S’i’ fosse foco di Cecco Angiolieri.

Il Medioevo evocato da De André non è, tuttavia, quello della Storia ma quello degli uomini. L’autore sembra rimpiangere un’epoca in cui i rapporti umani sono più semplici e naturali, dove c’è spazio per la pietà e l’amore. Il Medioevo di De André è, insomma, prima di tutto un luogo dell’anima. Anche la Morte trova spazio in questa sua analisi. Il brano La morte venne comporto da De André nel 1967 e inserito nell’album Volume I. Il cantautore genovese riutilizzò una musica di George Brassens, cantautore, poeta e attore francese, ma vi adattò un testo proprio. La Morte nel Medioevo: le Danze macabre.

Fabrizio de Andrè, La morte, 1967.

«La morte verrà all’improvviso
Avrà le tue labbra e i tuoi occhi
Ti coprirà d’un velo bianco
Addormentandosi al tuo fianco
Nell’ozio, nel sonno, in battaglia
Verrà senza darti avvisaglia
La morte va a colpo sicuro
Non suona il corno né il tamburo
Madonna che in limpida fonte
Ristori le membra stupende
La morte non ti vedrà in faccia
Avrà il tuo seno e le tue braccia
Prelati, notabili e conti
Sull’uscio piangeste ben forte
Chi bene condusse sua vita
Male sopporterà sua morte
Straccioni che senza vergogna
Portaste il cilicio o la gogna
Partirvene non fu fatica
Perché la morte vi fu amica
Guerriero che in punta di lancia
Dal suolo d’Oriente alla Francia
Di stragi menasti gran vanto
E fra i nemici il lutto e il pianto
Di fronte all’estrema nemica
Non vale coraggio o fatica
Non serve colpirla nel cuore
Perché la morte mai non muore
Non serve colpirla nel cuore
Perché la morte mai non muore».

In realtà, nonostante l’atmosfera marcatamente medievale di questo testo, con i suoi riferimenti al tema del Trionfo della Morte, alle battaglie, alle penitenze autoinflitte nella speranza dell’eternità, il testo di De André pare piuttosto ispirarsi a un capolavoro della nostra letteratura contemporanea: la poesia Verrà la morte e avrà i tuoi occhi di Cesare Pavese (1908-1950), composta nel 1950 e pubblicata, postuma, nel 1951, dopo il suo suicidio. La Morte nel Medioevo: le Danze macabre.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

La morte ci accompagna quotidianamente, senza darci tregua, come una presenza fissa ma insensibile. Lo sguardo della donna amata, cui il poeta si rivolge, la quale non ricambiava il suo amore, è paragonato a una parola inutile, a un grido strozzato, soffocato, che non viene emesso, al silenzio. La speranza è il cuore della vita ma allo stesso tempo una pia illusione, perché la morte ha uno sguardo per ciascuno. E noi tutti moriremo senza una parola, nel silenzio. La solitudine è il nostro destino.


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